Fondi pensione 1. Profili generali

Diritto on line (2019)

Michele Squeglia

Abstract

Nell’ordinamento previdenziale italiano i fondi pensione si propongono di completare, in forma libera e volontaria, la copertura pensionistica obbligatoria di base che si presenta insufficiente a garantire al lavoratore, nella prospettiva di medio/lungo termine, un tenore di vita paragonabile a quello assicurato dalla retribuzione percepita durante la vita lavorativa. Il presente saggio illustra e analizza, con profilo anche critico, l’origine e le attuali prospettive evolutive dei fondi pensione, soffermandosi poi sul dibattito dottrinale e giurisprudenziale della loro collocazione sistematica in ambito costituzionale e, infine, indaga sui principi di libertà e di volontarietà alla base del modello di previdenza complementare.

La disciplina dei fondi pensione in Italia

La storia legislativa dei fondi pensione nell’ordinamento italiano, da intendersi come strumento tecnico attraverso il quale si realizza la previdenza complementare, è relativamente recente e, per certi versi, è ancora da scrivere ove si consideri il ruolo che la dimensione comunitaria spiegherà nel prossimo futuro delle politiche previdenziali dei Paesi membri. La normativa dell’Unione europea offrirà, infatti, una significativa testimonianza della progressiva produzione extra-legislativa del diritto, che imporrà l’abbandono dell’attuale monismo statale anche nel campo della previdenza complementare e, in generale, della sicurezza sociale. La maggior parte della normazione comunitaria si è tradotta in direttive (da ultimo, si veda la dir. 2016/2341/ UE – cd. IORP II – relativa alle attività e alla vigilanza degli enti pensionistici aziendali o professionali, recepita con il d.lgs. 13.12.2018, n. 147 o la dir. 2014/50/UE relativa  ai requisiti minimi per accrescere la mobilità dei lavoratori tra Stati membri migliorando l’acquisizione e la salvaguardia di diritti pensionistici complementari, recepita con il d.lgs. 21.6.2018, n. 88); mentre l’incidenza dei regolamenti sull’ordine delle fonti normative domestiche è stata fin qui residuale e circoscritta ad ambiti specifici (si veda il recente Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio del  29 giugno 2017 COM(2017) 343 relativo all’introduzione del prodotto pensionistico individuale paneuropeo (PEPP) o il Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del 24 novembre 2010 n. 1094/2010/UE, che istituisce l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali; per un’analisi delle fonti comunitarie, v. Ciocca, G., L’attività transfrontaliera delle forme pensionistiche complementari, in Previdenza complementare. Art. 2123 c.c., a cura di M. Cinelli, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 2010, 467 ss.; Giubboni, S., Fondi pensione e competition rules comunitarie, in La previdenza complementare, a cura di M. Bessone e F. Carinci, Torino, 2004, 110 ss.; Loi, P., La direttiva sulle attività e sulla supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali, in Prev. ass. pubbl. priv., 2004, 71 ss.; Pallini, M., La nuova disciplina comunitaria della tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore: la direttiva 2002/74/CE, in Riv. dir. sic. soc., 2003, 695 ss.; Sgroi, A., La trasferibilità della posizione previdenziale individuale nel mercato comune, in La previdenza complementare, cit., 83 ss.; Squeglia, M., Prime osservazioni sulla direttiva europea in materia di salvaguardia e acquisizione dei diritti pensionistici complementari, in Dir. rel. ind., 2014, 865 ss.).

Per diversi anni i fondi pensione, in quanto esempio di concretizzazione della libertà della previdenza privata (art. 38, co. 5, Cost.), «pur rappresentando un fenomeno di rilievo» (Cinelli, M., L’inquadramento sistematico delle forme di previdenza volontaria, in Previdenza complementare. Art. 2123 c.c., cit., 9), hanno svolto un ruolo ancillare rispetto alla previdenza di base, nei cui confronti la disciplina codicistica ha mostrato un sostanziale “agnosticismo” ad offrirne una cornice normativa, contrariamente a quanto si rinveniva in diversi paesi europei che, invece, avevano optato per l’introduzione di una disciplina ad hoc già a partire dei primi anni Settanta (è il caso del Social Security Act del 1975 nel Regno Unito, o del Betriebliche Altersversorgung del 1974 in Germania).

Se volessimo elencare le esperienze dei fondi pensione che si sono sviluppate in Italia anteriormente all’introduzione della prima normazione organica della materia, avvenuta con l’emanazione del d.lgs. 24.4.1993, n. 124, emergerebbe un quadro significativo, ma piuttosto frammentato, nel quale «la genesi contrattuale-sindacale costituisce un dato giuridico non revocabile in dubbio» (Squeglia, M., La «previdenza contrattuale». Un modello di nuova generazione per la tutela dei bisogni previdenziali socialmente rilevanti, Torino, 2014, 3 ss.).

Se è vero che si scorge, già sul finire degli anni Settanta, la presenza di trattamenti pensionistici di diversa natura a livello aziendale, spesso solo per alcune categorie legali (è il caso della Fiat o della Olivetti in favore dei propri dirigenti) e quasi sempre riconducibili al mero impegno contributivo da parte datoriale verso prodotti di natura propriamente assicurativa, è altresì vero che è stata la contrattazione collettiva ad assumersi «l’onere e la responsabilità della valutazione dell’opportunità e della fattibilità di forme pensionistiche complementari all’interno di un dato ambito contrattuale» (Squeglia, M., op. cit., 6 ss.).

D’altronde, l’apertura verso sostanziali prospettive pluralistiche consacrate dalla Costituzione, non ha escluso di reperire il fondamento della formazione spontanea di schemi previdenziali privati nell’autonomia dei gruppi sociali. Così, se i settori bancari e assicurativi hanno rappresentato gli unici comparti nei quali l’autonomia collettiva ha favorito la realizzazione di una “previdenza aziendale”, interessando pressoché la quasi totalità delle imprese, negli altri comparti le previsioni contrattuali hanno riguardato specifiche categorie professionali (si pensi al Fondo “Casella” per i lavoratori poligrafici dei quotidiani o al Fondo “Mario Negri” per i dirigenti delle imprese commerciali, di trasporto e di spedizione). Certamente, l’autonomia negoziale si presentava sufficientemente idonea, almeno in termini di economie (derivanti dall’aggregazione dei soggetti) e di potenzialità (risultante dal rapporto costi/benefici), a soddisfare bisogni previdenziali privati e meritevoli di tutela, a favore di un gruppo di lavoratori che fosse contrattualmente o professionalmente definito (Squeglia, M., op. cit., 4 ss.; cfr. anche Zampini, G., La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi, Padova, 2004, 37 ss.). Sembrava non contravvenire al composito assetto dell’ordinamento previdenziale vigente l’idea che, in ragione dei benefici derivanti dai regimi pensionistici a capitalizzazione, l’esposizione del sistema pensionistico complessivo, intrinsecamente vulnerabile ai mutamenti demografici, potesse favorevolmente ridursi, dal momento che il capitale umano, sempre più insufficiente con l’invecchiamento della popolazione, era gradualmente sostituito da quello reale.

La volontà della sfera negoziale si traduceva concretamente nella creazione di schemi previdenziali interni, costituiti nell’ambito del patrimonio del soggetto aziendale titolare della forma pensionistica i quali, qualificati come “promessa” diretta del datore di lavoro, avevano ad oggetto una prestazione previdenziale determinata (cfr. Candian, A.D., I fondi pensione, Milano, 1998; Bessone, M., Previdenza complementare, Torino, 2000, 142).

Nel quadro dell’elaborazione delle “opportunità previdenziali”, il fondo pensione “interno” non acquisiva distinta soggettività e non era, dunque, centro di autonoma imputazione di rapporti giuridici. L’unica forma di tutela che compensasse l’assenza di una vera e propria autonomia patrimoniale (e decisionale) - e che quindi salvaguardasse l’iscritto da un’eventuale evoluzione negativa delle vicende aziendali – conseguiva dalla configurazione del patrimonio di destinazione, di cui all’art. 2117 c.c., che imponeva all’imprenditore che avesse costituito «fondi speciali per la previdenza e l’assistenza …, anche senza contribuzione dei prestatori di lavoro, di non distrarre tali fondi … dal fine al quale erano destinati … posto che essi non potevano formare … oggetto di esecuzione da parte dei creditori dell’imprenditore o del prestatore di lavoro». Invero, il divieto della distrazione d’uso delle risorse accantonate a bilancio a copertura degli impegni previdenziali non comportava anche l’assunzione dell’impegno del datore di lavoro ad astenersi da comportamenti prudenziali o indipendenti nella gestione del fondo pensione. Conseguentemente, la piena corrispondenza tra gli obblighi di indistraibilità del patrimonio e quelli di prudente e sana gestione non era affatto assicurata.

Si aggiunga che nella prevalenza delle esperienze aziendali era frequente la scelta di costituire il fondo pensione nella tipologia cd. a prestazioni definite: un modello che, differentemente dallo schema cd. a contribuzione definita, se da un lato garantiva il creditore «dall’altrui obbligo di adempimento di una obbligazione di risultato» (Bessone, M., op. cit., 149), presentava dall’altro una forte aleatorietà dei costi dal momento che l’entità della prestazione pensionistica complementare era preventivamente determinata, di norma, con riferimento a quella del trattamento pensionistico obbligatorio. Così se i trattamenti pensionistici erano definiti all’atto dell’adesione, gli oneri contributivi si presentavano variabili e progressivamente crescenti in modo tale da poter assicurare l’erogazione della prestazione prefissata (sui rischi della forma cd. a prestazione definita, cfr. De Luca, G., La disciplina dei fondi pensione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1994, 84).

Se su questi aspetti la risposta del legislatore tardava ad arrivare, sul tema del trattamento contributivo concesso ai versamenti al fondo pensione del datore di lavoro era dato invece registrare una certa vivacità: il dibattito sul peso degli oneri sociali sul livello del costo del lavoro si arricchiva di questioni fino a quel momento inesplorate. Più esattamente, la contribuzione datoriale al fondo pensione si prestava ad essere considerata esente da imposizione, secondo una lettura che teneva conto della promozione della natura privata dei fondi pensione. Ragion per cui il predetto versamento era escluso dal computo delle voci retributive e dalle ordinarie regole fiscali e contributive rispetto alla tradizionale negoziazione salariale.

Proprio l’esclusione dalla comune imponibilità dei contributi datoriali ha attraversato un travagliato percorso giurisdizionale negli anni Novanta, a causa delle riserve manifestate dall’Istituto previdenziale pubblico (INPS), secondo cui l’assenza di qualsiasi previsione normativa imponeva di fare rientrare la predetta contribuzione nella base imponibile a fini previdenziali, ai sensi dell’art. 12 l. 30.4.1969, n. 153. All’atto pratico, si palesava come legittima la doppia imposizione contributiva, senza che rivestisse alcun rilievo la destinazione previdenziale delle somme versate al fondo pensione (cfr. Zampini, G., op. cit., 221), ovvero il soddisfacimento dei bisogni socialmente rilevanti – e non semplicemente meritevoli di tutela – sottesi alla previdenza complementare. Secondo i giudici della Consulta (C. cost., 3.10.1990, n. 427), l’assenza sul piano normativo di una pari dignità nei rapporti interni tra i due sistemi previdenziali (obbligatorio e complementare) non ammetteva la totale deducibilità concessa sul piano fiscale ad entrambe le forme previdenziali, di talché si presentava coerente l’applicazione sulla contribuzione versata al fondo pensione del contributo alla previdenza di base (il cd. contributo su contributo). Una tale soluzione licenziava come legittimo l’effetto di trascinamento dovuto all’incremento retributivo sugli oneri cd. indiretti: l’aumento della retribuzione mensile, causa finanziamento al fondo pensione, aveva effetto anche sull’accantonamento del TFR, sull’indennità di malattia, sull’indennità per il lavoro straordinario, ecc.

Una sentenza dagli effetti non secondari sia per le imprese, esposte al recupero contributivo e all’applicazione delle sanzioni, sia per le prospettive future di sviluppo dei fondi pensione nel nostro ordinamento previdenziale. Furono queste le ragioni che spinsero il legislatore ad intervenire: il d.l. 29.3.1991, n. 103, conv. con modificazioni dalla l. 1.6.1991, n. 166, introdusse, a far data dal 1.7.1991, l’istituto della contribuzione cd. di solidarietà, nella misura del 10%, da calcolare sulla quota di versamento del datore di lavoro al fondo pensione e da corrispondere all’istituto di previdenza obbligatoria.

Un’impostazione, questa, che condurrà i giudici della Consulta (C. cost., 8.9.1995, n. 421, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 7, con nota di G. Pera, in Giust. civ., 1996, 663, con nota di S. Giubboni, in Giur. it., 1996, 288, con nota di P. Bozzao, e in Lav. giur., 1997, 233 ss., con nota di T. Tranquillo; sulla stessa lunghezza d’onda anche C. cost., 8.6.2000, n. 178, in Notiz. giur. lav., 2000, 504; C. cost., 28.7.2000, n. 393, ibidem, 794; C. cost., 16.4.2002, n. 121, ivi, 2002, 402), da un lato, a disporre il divieto di ripetizione per quanti avessero pagato in misura maggiore rispetto al 10% nonché l’esonero dal versamento per quanti avessero omesso il pagamento e, dall’altro, ad ammettere che le contribuzioni degli imprenditori al finanziamento dei fondi pensione non potessero più definirsi «emolumenti retributivi con funzione previdenziale», bensì «strutturalmente contributi di natura previdenziale, come tali estranei alla nozione di retribuzione imponibile ai sensi e agli effetti dell’art. 12 della legge n. 153 del 1969, potendo (e dovendo) formare oggetto soltanto di un contributo di solidarietà alla previdenza pubblica, il quale non è un contributo previdenziale in senso tecnico (come si argomenta, tra l’altro, dall’art. 5, comma 5, lett. b, del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 80)». Questa constatazione costituirà un punto fermo nella moderna elaborazione del concetto di “risparmio previdenziale”. Non è lecito infatti dubitare che, in conseguenza di tale indirizzo interpretativo, il problema si riproponga nell’ambito dell’autonomia dei privati ogni qual volta i versamenti posti a carico della parte datoriale siano finalizzati al soddisfacimento di bisogni socialmente rilevanti (si pensi alle recenti misure, non solo nel settore privato, di “welfare aziendale”: sul punto sia consentito rinviare a Squeglia, M., Welfare aziendale e pubblica amministrazione: prove di dialogo?, in Lav. pubbl. amm., 2018, 4, 41 ss.; Id., La disciplina del welfare aziendale: linee evolutive, sentieri di indagine e prospettive di sviluppo, in Riv. dir. sic. soc., 2018, 805 ss.; Id., M., L’evoluzione del “nuovo” welfare aziendale tra valutazione oggettiva dei bisogni, regime fiscale incentivante e contribuzione previdenziale, in Argomenti dir. lav., 2017, 103 ss.; Id., La previdenza contrattuale nel modello del welfare aziendale “socialmente utile” e della produttività partecipata, ibidem, 383 ss.).

Ad ogni modo, la vicenda del cd. contributo su contributo ebbe indubbiamente il merito di mettere al centro all’agenda governativa il tema della previdenza complementare, peraltro nel pieno di una crisi economica e finanziaria contrassegnata da un pesante attacco speculativo sulla nostra moneta.

Sul legislatore ricadde dunque il compito di ordinare la complessa stratificazione delle esperienze previdenziali esistenti, offrendo un assetto non equivoco all’intera materia.

È indubbio che la nascita della prima disciplina organica dei fondi pensione in Italia sia da collegare ad una più matura consapevolezza sullo stato della previdenza obbligatoria, con riferimento alla quale le più autorevoli analisi demografiche e attuariali mostravano l’impossibilità di garantire al pensionato un tenore di vita paragonabile a quello della retribuzione percepita durante l’attività lavorativa (cfr. l’analisi di Giarda, P., La revisione del sistema pensionistico nel 1997: come avrebbe potuto essere, in Economia Politica, Rivista di teoria e analisi, XV, 2, 267 ss.).

La proiezione dei dati, nelle evidenze scientifiche più recenti, evidenziava un basso tasso di sostituzione dei successivi venti/trent’anni – il rapporto tra l’importo della pensione e quella della retribuzione percepita durante la vita attiva – con conseguente maggiore caduta di reddito dovuta al collocamento a riposo. Poiché il “primo pilastro” del sistema pensionistico, nella generalità dei Paesi europei, era (ed è) basato sul principio della ripartizione, l’aumento degli anziani rispetto alle forze di lavoro era destinato a riflettersi negativamente sui conti della previdenza pubblica. Ciò spiega perché diversi organismi economici internazionali raccomandassero di ridurre la spesa del sistema pensionistico obbligatorio, puntando sull’ampliamento delle forme alternative complementari (cfr. OCSE, Manteining prosperity in an Ageing Society, 2000).

Ma fu solo questa consapevolezza relativa alla crisi dello Stato sociale a modificare così repentinamente prospettiva rispetto all’immobilismo, o se si preferisce di «isomorfismo normativo» (Powell, W.-Di Maggio, P.J., La gabbia di ferro rivisitata. Isomorfismo istituzionale e razionalità collettiva nei tempi organizzativi. Il neoistituzionalismo nell’analisi organizzativa, Torino, 1983, 88 ss.) di cui il legislatore nazionale era stato indiscusso protagonista fino alla metà degli anni Novanta?

In effetti, le ragioni furono più d’una, e convergevano negli ulteriori benefici che avrebbe potuto offrire alla previdenza obbligatoria un’auspicabile regolamentazione dei fondi pensione. Benefici che si traducevano nell’opportunità di neutralizzare i rischi a cui si esponeva nel tempo il sistema di finanziamento a ripartizione, ovvero nella possibilità di offrire garanzie di sostenibilità del sistema obbligatorio contribuendo alla diminuzione del deficit previdenziale e, infine, nel rilancio delle attività di intermediazione finanziaria del mercato mobiliare.

Fu così che la l. 23.10.1992, n. 421, che conteneva deleghe in materia di riordino del sistema sanitario, del rapporto di pubblico impiego, del sistema pensionistico e del modello di finanziamento statale agli enti locali, disponeva un complesso processo di revisione del sistema previdenziale italiano: dall’aumento dell’età pensionabile alla riduzione del livello delle prestazioni pensionistiche attraverso sia un allungamento del periodo lavorativo come base di calcolo dell’importo delle pensioni, sia un raffreddamento del meccanismo di indicizzazione delle stesse; dall’avvio del processo di omogeneizzazione dei diversi schemi previdenziali per i lavoratori pubblici e privati fino alla realizzazione di una regolamentazione del sistema della previdenza complementare. Ed è proprio su quest’ultimo punto che l’art. 3, co. 1, lett. v), fissava i principi e i criteri direttivi sui quali il legislatore delegato avrebbe dovuto attenersi nel predisporre il decreto legislativo di regolamentazione della materia. Tra di essi meritano di essere rammentati quelli riguardanti la finalità complementare e non sostitutiva della pensione di base, la volontarietà dell’adesione, l’adozione del sistema tecnico-finanziario della capitalizzazione e, infine, l’individuazione dei soggetti abilitati alla gestione dei fondi pensione (v. Cester, C., La riforma del sistema pensionistico, Torino, 1996, 27 ss.; Geroldi, G.-Treu, T., Crisi e riforma dei sistemi pensionistici in Europa, Milano, 1993, 9 ss.).

Con il d.lgs. n. 124/1993, la materia della previdenza complementare trova la sua prima organica disciplina nel nostro ordinamento: il “secondo pilastro previdenziale” viene così concepito sulla base di un modello che riconosce la propria differenza rispetto al sistema di previdenza obbligatoria nella volontarietà dell’adesione il suo principio fondante, nel sistema di finanziamento a capitalizzazione, nella contribuzione di solidarietà la natura previdenziale e non retributiva delle somme versate a titolo di finanziamento dei fondi pensione.

Ma, soprattutto, riconosce nella natura contrattuale (e collettiva) la peculiarità dello schema previdenziale (o, se si preferisce, della «previdenza sindacale» secondo l’espressione di Persiani, M., La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in AA.VV., Scritti in onore di Giuseppe Suppiej, Padova, 2005, 775) in quanto assegna «agli attori sociali l’onere e la responsabilità della valutazione, dell’opportunità e della fattibilità di forme pensionistiche complementari all’interno di un dato ambito contrattuale, escludendo, di fatto, la via della decisione unilaterale come atto fondativo di un fondo di previdenza complementare che costituiva ipotesi da relegare a fattispecie di chiusura del sistema» (Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», cit., 6). Il caso, limitato e circoscritto, riguardava segnatamente i regolamenti di enti o aziende i cui rapporti di lavoro non erano disciplinati da contratti e accordi collettivi, anche aziendali (art. 3, co. 1, lett. c, d.lgs. n. 124/1993). La possibilità di porre in essere detta fonte istitutiva era dunque subordinata dalla legge all’esistenza di una condizione negativa: l’inesistenza di contratti e accordi collettivi, di qualunque livello, volti a disciplinare nemmeno indirettamente o per relationem i rapporti di lavoro dei soggetti destinatari della forma pensionistica che si intendeva porre in essere. Senza trascurare che la previsione della possibilità stessa di iscrizione ai fondi pensione aperti (art. 9, co. 2, d.lgs. n. 124/1993) si presentava «eversiva» rispetto alla «dimensione sindacale» della previdenza complementare (cfr. Balandi, G., Principi e scelte normative della riforma previdenziale, in Lav. dir., 1996, 101).

Tuttavia, il d.lgs. n. 124/1993 si prestava a diverse osservazioni critiche: la parte della disciplina normativa che regolava il trattamento fiscale e la gestione del patrimonio del fondo pensione presentava più di un profilo problematico, avuto riguardo allo sviluppo e all’incentivazione delle forme di previdenza complementare e alle controverse e lacunose indicazioni delle condizioni di neutralità operativa tra le diverse categorie di gestori finanziari e assicurativi. Proprio per porre rimedio a tali aspetti, la l. 8.8.1995, n. 335, recependo il contenuto di un accordo siglato l’8.5.1995 tra Governo e sindacati, intervenne modificando alcuni punti essenziali del d.lgs. n. 124/1993, quali la revisione del trattamento fiscale dei contributi e delle prestazioni, la riforma del trattamento fiscale dei rendimenti del fondo pensione, la riscrittura delle regole sulla gestione, la ridefinizione e il rafforzamento del ruolo della Commissione di vigilanza, nonché l’introduzione di uno specifico regime sanzionatorio.

Il successivo d.lgs. 18.2.2000, n. 47, emanato in attuazione dell’art. 3 l. 13.5.1999, n. 133, aggiunse, nel corpus normativo del d.lgs. n. 124/1993, la disciplina delle Forme pensionistiche individuali attuate mediante fondi pensione aperti (art. 9 bis) ovvero attuate mediante contratti di assicurazione sulla vita (art. 9 ter) nelle quali, differentemente da quelle collettive che trovavano la propria fonte nella autonomia contrattuale a livello di categoria, di comparto o di azienda, era richiesta semplicemente l’adesione del singolo lavoratore al piano previdenziale, «anche in assenza di specifiche previsioni delle fonti istitutive». La logica conseguenza di questa impostazione fu la previsione di tre diversi “pilastri previdenziali”, ciascuno dei quali veniva alimentato da tre distinte fonti di finanziamento del reddito pensionistico: il cd. risparmio obbligatorio, rappresentato dalle contribuzioni versate dai datori di lavoro e dai lavoratori agli istituti previdenziali pubblici; il cd. risparmio collettivo che comprendeva l’insieme dei contributi versati ai fondi pensione di fonte contrattuale; il cd. risparmio individuale che si realizzava attraverso l’acquisto di prodotti finanziari-assicurativi. Un’impostazione solo relativamente innovativa, rispetto ai modelli previdenziali degli altri Paesi europei, già ponderati e studiati dalla più attenta dottrina (Treu, T., La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in La previdenza complementare, cit., 7 ss.; Candian, A.D., op. loc. ultt. citt.).

Quello che però non pare essere revocabile in dubbio, è il convincimento oramai comune che i fondi pensione costituiscono strumenti imprescindibili per adeguare il tradizionale sistema previdenziale pubblico alle mutate esigenze sociali nel quadro di una maggiore autonomia concessa all’individuo in condizione professionale e non. Seguendo questa via, il ruolo delle forme di previdenza complementari di genesi collettivo-sindacale avrebbe dovuto necessariamente ridursi a favore di una previdenza centrata sulla dimensione privata-individuale (Persiani, M., La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, cit., 784) e, quindi, sulle forme di investimento finanziario offerte dal mercato. E ciò tenendo a mente anche i principi, contenuti nella dir. 2003/41/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 giugno 2003 (in GUUE del 23.9.2003), cui gli Stati membri avrebbero dovuto attenersi in materia di attività e di supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali: primariamente, la liberalizzazione del mercato europeo delle prestazioni pensionistiche complementari e, in subordine, il rispetto delle peculiarità nazionali in materia di sicurezza sociale, lavoro e organizzazione dei sistemi pensionistici. Principi che si traducevano nella possibilità per i fondi pensione nazionali di offrire i propri servizi oltre frontiera, e di accogliere l’adesione di imprese di altri Paesi dell’Unione europea.

Coglie certamente nel vero la dottrina quando sostiene che «la logica che ispira la dir. 2003/41/CE è quella di un mercato unico della previdenza complementare, che non contempla la distinzione tra fondo pensione e soggetto gestore delle risorse: ciò spiega anche l’attribuzione ai fondi pensione della capacità di gestire direttamente le risorse finanziarie e di erogare direttamente le rendite, alla sola condizione che il fondo sia dotato di ‘mezzi patrimoniali adeguati’» (Tursi, A., Note introduttive: la terza riforma della previdenza complementare, in La nuova disciplina della previdenza complementare, in Nuove leggi civ., 2007, 551).

È con queste premesse che il legislatore nazionale si accinge ad un nuovo intervento legislativo: pur sostanzialmente proseguendo nel solco già tracciato dalla l. n. 335/1995, si pone l’obiettivo di «sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari» (art. 1, co. 1, l. 23.8.2004, n. 243). Accanto agli interventi sul “primo pilastro previdenziale” (revisione dei trattamenti pensionistici di vecchiaia e di anzianità, allungamento dell’età pensionabile con la previsione di un sistema di incentivi e disincentivi, eliminazione dei divieti di cumulo tra pensione e redditi da lavoro), entra in vigore quella che è stata definita, a ragione, come la «terza riforma» della previdenza complementare (Tursi, A., La terza riforma della previdenza complementare in itinere: spunti di riflessione, in Prev. ass. pubbl. priv., 2005, 513 ss.), e con essa l’esperienza avviata nell’ormai lontano 1993 entra, almeno dal punto di vista normativo, nella fase della «maturità» (Tursi, A., Note introduttive: la terza riforma della previdenza complementare, cit., 537).

I principi ed i criteri direttivi dettati dalla l. n. 243/2004 al legislatore delegante (art. 1, co. 2, lett. e-l) sono ampi: la devoluzione tacita del TFR, la rivisitazione dei meccanismi di finanziamento, la razionalizzazione, in termini di unitarietà e omogeneità, del sistema di vigilanza sull’intero settore della previdenza complementare, le regole di trasparenza nei rapporti con gli iscritti, la rimozione dei vincoli posti dall’art. 9, co. 2, d.lgs. n. 124/1993 e successive modificazioni e integrazioni, al fine dell’equiparazione tra le differenti forme pensionistiche, la previsione di una tassazione agevolata delle prestazioni erogate sia in forma di rendita sia in forma di capitale, misure compensative in favore delle imprese in caso di perdita del TFR.

Due sono i punti chiave, trasfusi nel successivo d.lgs. 5.12.2005, n. 252 (la cui entrata in vigore inizialmente stabilita al 1.1.2008, fu poi anticipata al 1.1.2007 per effetto della previsione contenuta nell’art. 1, co. 749, l. 27.12.2006, n. 296; v. Squeglia, M., L’anticipata entrata in vigore del d.lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, in La nuova disciplina della previdenza complementare, cit., 875 ss.) che si candidano a costituire oggetto di osservazioni, anche critiche: da un lato, l’obbligo dell’integrale devoluzione del TFR maturando alla previdenza complementare e la conseguente introduzione del cd. silenzio assenso (art. 1, co. 2, lett. e, punti 1-3); dall’altro lato, l’equiparazione tra le forme pensionistiche complementari di fonte negoziale e le forme pensionistiche individuali (art. 1, co. 2, lett. e, punto 4), quale compromesso di una tensione mai del tutto superata tra le origini mutualistico-corporative della previdenza complementare e le spinte concorrenziali provenienti dal mercato finanziario (v. Giubboni, S., Individuale e collettivo nella riforma della previdenza complementare, in Lav. giur., 2006, 249 ss.).

Con riferimento al primo punto, palese è il cambiamento di regime rispetto al passato. La contribuzione obbligatoria mediante il TFR era stata sì prevista dal d.lgs. n. 124/1993, ma solo limitatamente ai lavoratori neo-assunti dal 28.4.1993 che decidevano di aderire ad un fondo pensione, mentre per gli altri lavoratori già iscritti ad un fondo a tale data e successivamente iscrittisi ad un fondo pensione, la destinazione integrale delle quote del TFR non era obbligatoria. Il d.lgs. n. 252/2005 stabilisce ora l’integrale devoluzione al fondo pensione degli accantonamenti maturandi di TFR «prefigurandosi così, sia pure in maniera non obbligatoria, quella ‘previdenzializzazione’ del t.f.r.» (Tursi, A., Note introduttive: la terza riforma della previdenza complementare, cit., 539) auspicata da più tempo dalla dottrina più accreditata (Pessi, M., Lezioni di diritto della previdenza sociale, Padova, 2006, 570), nonché introduce il meccanismo del cd. silenzio assenso in base al quale il TFR maturando del lavoratore che, nel semestre decorrente dall’assunzione (se assunto dopo il 31.12.2007) o dall’entrata in vigore del decreto (se in servizio a quella data), non scelga espressamente di mantenerlo ovvero non scelga espressamente di conferirlo ad una forma pensionistica complementare, è devoluto automaticamente ad una delle forme pensionistiche complementari collettive stabilite dall’art. 1, co. 2, lett. e), n. 2, l. n. 243/2004.

Con riferimento al secondo aspetto, il d.lgs. n. 252/2005 ha in parte ridimensionato il favor originariamente riconosciuto al momento genetico negoziale rispetto all’atto contrattuale privatistico, imponendo una correzione di rotta rispetto alle previsioni contenute nel d.lgs. n. 124/1993: la posta in gioco era, da un lato, il riconoscimento della libertà di mobilità tra le diverse tipologie di fondi pensione e, dunque, di pervenire all’equiparazione di esse quale presupposto della tutela della libera concorrenza del mercato e, dall’altro, «di fare del secondo pilastro del sistema previdenziale italiano, da realtà poco più che virtuale, una presenza di assoluto rilievo non solo nel sistema previdenziale, ma anche nel mercato dei capitali» (Tursi, A., Note introduttive: la terza riforma della previdenza complementare, cit., 538). È questa una constatazione che costituisce un punto fermo nella moderna ricostruzione della materia. Ma è lecito dubitare che in conseguenza di tale asserzione il ruolo della contrattazione collettiva sia divenuto ora irrilevante, sia sul piano di guida e conduzione dell’interesse previdenziale alla tutela complementare, sia dal punto di vista pratico-economico di governo del costo del lavoro a vantaggio del solo dispiegarsi di azioni individualistiche del mercato (Vianello, R., La previdenza complementare nel sistema della previdenza sociale, Padova, 2005, 113).

All’opposto, la natura contrattuale dei fondi pensione, da intendersi come garanzia del carattere sociale della materia previdenziale, si evolve nel suo ridimensionamento (o, se si preferisce, nel suo rinnovamento), ponendosi quale modello di riferimento di altri schemi (sanità integrativa, ammortizzatori sociali contrattuali, persino welfare aziendale), nei quali il contributo dell’attività negoziale e del coinvolgimento degli attori sociali si presenta decisivo nella copertura di bisogni previdenziali socialmente rilevanti. In questa prospettiva, il dato caratterizzante dell’autonomia contrattuale ipotizza la nascita di un modello di nuova generazione, parallelo a quello pubblico, esemplificativamente definito di “previdenza contrattuale” (sulla possibile nozione di “previdenza contrattuale”, si v. Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», cit., 121 ss.; Id., La «previdenza contrattuale» nell’ordinamento previdenziale italiano, in Seguridade Social e Meio Ambiente do Trabalho: Direitos Humanos nas Relações Sociais, a cura di C. Jannotti da Rocha, L. Vasconcelos Porto, M.F. Borsio e R. Simão de Melo, Belo Horizonte, 2017, I, 111 ss.).

Sull’onda di siffatto processo di equiparazione fra le forme pensionistiche, collettive e individuali, non si rinvengono modifiche o integrazioni ai principi di capitalizzazione e di corrispettività, sebbene essi non siano espressamente richiamati, e in ciò differentemente dal d.lgs. n. 124/1993 (cfr. il previgente art. 7, co. 5), ma comunque intrinsecamente rinvenibili dalle norme del d.lgs. n. 252/2005, che comunque li assumono a proprio indefettibile presupposto (per una riflessione sul regime finanziario della capitalizzazione, si veda Squeglia, M., Il regime finanziario della capitalizzazione nella previdenza complementare: un sistema “perfetto” per le generazioni future?, in Dir. rel. ind., 2019, 81 ss.).

La collocazione costituzionale dei fondi pensione

La collocazione dei diversi pilastri previdenziali nel sistema generale di sicurezza sociale prefigurato dall’art. 38 Cost., ha alimentato un corposo dibattito dottrinale e giurisprudenziale che ha visto contrapporre due ipotesi interpretative tuttora in conflitto. Ciò per la sostanziale «assenza di nozioni condivise» che costituisce il portato dei perduranti dissensi sulla collocazione costituzionale del pilastro pensionistico integrativo. In dottrina si è osservato che «i dissensi sull’inquadramento costituzionale della previdenza complementare sono a loro volta un portato – forse il più rilevante, oggi, per i suoi riflessi pratici ed applicativi – delle diverse concezioni di fondo del sistema di sicurezza sociale nella Costituzione italiana» (Giubboni, S., Appunti in tema di prestazioni pensionistiche complementari, in IPrev, 2009, 3, 608 ss.; Sigillò Massara, G., Sul fondamento costituzionale della previdenza complementare, in La previdenza complementare in Italia, a cura di R. Pessi, I, in Le fonti normative e negoziali della previdenza complementare in Europa, a cura di A. Tursi, Torino, 2011, 5 ss.). Difatti come è noto, dalla cornice costituzionale emergono due diverse letture dell’art. 38 Cost., che originano dalla differenziazione, non meramente terminologica, tra il concetto di previdenza e quello di assistenza sociale.

La prima delle due concezioni (Pessi, R., Lezioni di diritto della previdenza sociale, cit., 570; Id., Corrispettività e solidarietà nel nuovo sistema previdenziale, in La riforma del sistema previdenziale, a cura di R. Pessi, Padova, 1995, 48 ss.) inquadra l’art. 38 Cost. in un modello, emblematicamente rappresentato in quattro cerchi concentrici (per una sintesi: Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», cit., 135 ss.), nel quale la previdenza assolverebbe alla funzione specifica di tutela dei lavoratori in quanto espressione di una solidarietà imposta esclusivamente ai loro datori di lavoro, presentandosi limitata sia con riguardo ai soggetti protetti, sia con riguardo agli eventi previsti, mentre l’assistenza sociale risponderebbe ad una generica funzione di tutela dei «bisogni soggettivamente esistenti ed oggettivamente accertati al cd. minimo vitale per tutti i cittadini e per una esistenza libera e dignitosa» (Pessi, R. La collocazione funzionale delle recenti innovazioni legislative in materia di previdenza complementare nel modello italiano di sicurezza sociale, in AA.VV., Scritti in memoria di Massimo D’Antona, Milano, 2004, III, 3, 203 ss.).

La seconda (Persiani, M., Diritto della previdenza sociale, Padova, 2006, 26 ss.), ricostruisce in modo unitario il sistema previdenziale, dal momento che «i termini nei quali, di solito e tradizionalmente, si pone la distinzione tra previdenza e assistenza sociale non sono più idonei a comprenderne l’effettiva portata»; è invece «l’idea della sicurezza sociale a trovare riscontro nell’estensione delle funzioni sociali dello Stato ed è destinata ad influenzare non la previdenza sociale, ma in genere ogni attività pubblica a scopo sociale».

Nell’ambito di queste due diverse ricostruzioni una prima dottrina, confortata da alcune sentenze della Corte costituzionale (C. cost., 13.7.2000, n. 393; C. cost., 13.9.1995, n. 421, in Mass. giur. lav., 1995, 535 con nota di P. Sandulli), ritiene che «le prestazioni pensionistiche di base e quelle complementari concorrono alla realizzazione del comune obiettivo di realizzazione di mezzi adeguati secondo le indicazioni della carta costituzionale» (Sandulli, P., Il decreto legislativo n. 124/93 nel sistema pensionistico riformato, in Dir. e prat. lav., 1993, IV, suppl. n. 35, V ss.) a causa di un progressivo retreatment della previdenza obbligatoria in termini di risorse disponibili, con la conseguenza di assegnare spazi e campo di azione a quella complementare, che ha visto in questo modo arricchire la sua funzione, finendo per occupare essa stessa un’area di bisogni socialmente rilevanti. Precisamente, sarebbe ravvisabile «un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e complementare», o se si preferisce «una identità di funzione, ancorché destinata a realizzarsi con strumenti di natura giuridica diversi» (Pessi, R., La nozione costituzionalmente necessitata di previdenza complementare, in La previdenza complementare in Italia, a cura di M. Messori, Bologna, 2006, 325 ss.; cfr. anche Sandulli, P., Riforma pensionistica e previdenza integrativa, in Dir. lav. rel. ind., 1991, 201 ss.) che subordini quest’ultima alla realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla prima. Il risultato è la riconduzione della previdenza complementare nell’alveo del co. 2 dell’art. 38 Cost., sul presupposto della condivisione, tra previdenza pubblica e previdenza complementare, del comune obiettivo della tutela previdenziale adeguata.

Siffatta ricostruzione non troverebbe riscontro nell’elaborazione di un’altra autorevole dottrina, secondo cui il sistema della previdenza complementare andrebbe ricondotto nell’alveo dell’autonomia privata (ancorché collettiva), della quale l’ultimo comma dell’art. 38 Cost. garantisce la libertà, in quanto realizza «esclusivamente la soddisfazione di interessi privati, mediante la destinazione a fini previdenziali di una quota della retribuzione» (Persiani, M., Previdenza pubblica e previdenza privata. Relazione al XIII convegno dell’AIDLASS, Ferrara 11-13 maggio 2000, in www.aidlass.it, 15 ss.). E ciò ponendo a mente che «sono i lavoratori ad avvertire, da tempo, l’interesse a mantenere, quando saranno pensionati, il tenore di vita consentito dalle retribuzioni percepite mentre lavorano» (Persiani, M., Diritto della previdenza sociale, cit., 342). D’altronde il mantenimento del principio di libertà, che è caratteristico della previdenza privata, rende assai problematico ritenere che le manchevolezze della previdenza pubblica debbano essere necessariamente coperte da quella privata, si che «i livelli aggiuntivi di copertura previdenziale» rappresentino l’oggetto irraggiungibile in modo autonomo, ma raggiungibile attraverso la previdenza complementare (Cinelli, M., Diritto della previdenza sociale, 1996, 58). Il che conferma la presenza di sottili, ma significative contraddizioni nel complessivo intervento legislativo (Cester, C., La riforma del sistema pensionistico, cit., 28).

Si tratta di conclusioni che, certamente, meritano di essere condivise, anche considerando che il carattere transitorio della premessa giustificativa dell’istituzione di un legame funzionale tra previdenza pubblica e previdenza complementare avrebbe fatto perdere, con l’evoluzione del sistema di welfare, attendibilità alla prima prospettazione ricostruttiva. Così, «il problema dell’inquadramento costituzionale della previdenza complementare non può a rigore dirsi concluso, a causa di interventi, o al limite, di inerzie legislative, che lasciano incompleto il disegno delineato dalla Corte costituzionale, e che non consentono di distinguere la funzionalizzazione della previdenza complementare  alla realizzazione dello stesso interesse pubblico di cui alla previdenza obbligatoria, della funzione di risparmio individuale» (Persiani, M., La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, cit., 715).

Ciò è indiscutibilmente vero, in quanto occorre riconoscere che la riforma del 2005, giungendo all’assimilazione delle forme pensionistiche complementari collettive e individuali, in termini di funzioni ed obiettivi, e all’introduzione del conferimento tacito, parrebbe confermare la tesi di chi riteneva corretto sostenere la sussistenza di livelli “gerarchici” ben delineati, nel senso di promuovere al “rango superiore”, di cui al co. 2 dell’art. 38 Cost., l’intero sistema negoziale della previdenza complementare. Il d.lgs. n. 252/2005, abrogando il provvedimento del 1993, apre il mondo della previdenza occupazionale a quella “commerciale” (ovvero «alle libertà delle opzioni individuali e dunque all’apertura al mercato finanziario ed assicurativo con la connessa incentivazione del pluralismo concorrenziale dal lato dell’offerta»: Giubboni, S., La previdenza complementare tra libertà individuale ed interesse collettivo, Bari, 2009, 44), riconoscendo a quest’ultima pari dignità nell’ambito del processo di valutazione sia per i soggetti in condizione professionale ma privi della possibilità di aderire a forme collettive, sia per i soggetti in condizione non professionale (Squeglia, M., La «previdenza contrattuale», cit., 124 ss.).

Una differente impostazione che svuoterebbe sostanzialmente di contenuti il co. 5 dello stesso art. 38 Cost., ma che si presenterebbe in linea con «la volontà – come emerge dai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente – di non attribuire rilevanza costituzionale all’assetto organizzativo ed istituzionale della previdenza e dell’assistenza sociale e … di non predeterminare alcuna regola di funzionamento, lasciando così spazio al legislatore ordinario … allo scopo di determinare le misure concrete e gli assetti normativi idonei a realizzare le finalità di protezione sociale» (Hernandez, S., Lezioni di storia della previdenza sociale, Padova, 1972, 89 ss.).

I dibattiti non si esauriscono nell’ambito di queste rigorose ricostruzioni. All’evidenza, traspare l’idea che il problema della rilevanza costituzionale della previdenza complementare non sia tanto «come conciliare la necessità costituzionale della previdenza sociale con la sua facoltatività, quanto come rendere effettivo un pilastro di previdenza ‘sociale-privata’», posto che «la soluzione adottata dal nostro ordinamento è ibrida o addirittura ambigua dal punto di vista sistematico» (Treu, T., La previdenza complementare nel sistema previdenziale, cit., 3 ss.; Tursi, A., La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001, 65 ss., secondo cui più che nella “funzionalizzazione” il proprium della previdenza complementare dovrebbe cogliersi «nella ‘previdenzialità’ dal momento che comporta un collegamento, diversamente graduabile, con gli eventi e la tipologia delle prestazioni del regime di base senza che ciò ne contraddica la natura privata»).

Come si avrà modo di rilevare, un approccio alla rilevanza costituzionale della previdenza complementare declinato in termini di “effettività” della tutela consente di inquadrare correttamente i problemi di qualificazione e di trattamento giuridico della prestazione complementare, specie ove si considerino la tipologia e i requisiti delle prestazioni di base ovvero l’assimilazione al regime obbligatorio in tema cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità.

Libertà e volontarietà dei fondi pensione

Lo scopo dei fondi pensione, o se si preferisce delle «forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio» è di assicurare «più elevati livelli di copertura previdenziale». Si è già riferito che è sulla base di questa scelta, enunciata sin dalla l. n. 421/1992, e confermata – sia pure con qualche contraddizione – con il d.lgs. n. 252/2005, che il legislatore ha inteso realizzare un «collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare», collocando quest’ultima nel sistema dell’art. 38, co. 2, Cost. (si rinvia alla già citata C. cost. n. 393/2000). E questo onde far sì che la tutela dell’interesse individuale dei lavoratori ad usufruire di forme di previdenza complementare non vada disgiunta, in misura proporzionata, da un «dovere specifico di cura dell’interesse pubblico a integrare le prestazioni previdenziali, altrimenti inadeguate, spettanti ai soggetti economicamente più deboli» (cfr. C. cost. n. 421/1995; C. cost. n. 292/1997; C. cost. n. 178/2000). Semmai, occorre domandarsi, nell’apprezzamento complessivo dell’intera vicenda, se dopo la riforma del 2005 quel collegamento funzionale si presenti meno intenso, specie sul versante del nuovo regime delle prestazioni e delle anticipazioni.

Sia il d.lgs. n. 124/1993, sia il d.lgs. n. 252/2005 confermano comunque la scelta di completare il sistema previdenziale del nostro Paese sulla base di un modello “multipilastro”, ciascuno dei quali in grado di garantire l’autonomia del fondo pensione, la distinzione dei ruoli dei diversi soggetti coinvolti, il coinvolgimento degli attori sociali, l’adesione alle forme pensionistiche individuali, pur in presenza di fondi pensione negoziali di riferimento, destinandovi non solo i contributi a proprio carico ma anche il TFR e il contributo datoriale nei limiti e secondo le modalità previsti dalla contrattazione collettiva.

Uno dei punti più significativi riguarda l’adesione alle forme pensionistiche complementari: l’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 252/2005 non opera alcuna modifica all’assetto generale: l’adesione è (e resta) «libera e volontaria». Il principio della libertà di scelta del singolo, espressamente richiamato anche nell’art. 3, co. 3, del medesimo decreto, resta aspetto centrale anche nel riformato sistema, a cagione poi se il risultato è di riconoscere alle diverse forme pensionistiche complementari una dimensione concorrenziale nel segno dei più recenti indirizzi comunitari formulati in sede legislativa (cfr. dir. 2003/41/CE e dir. 2016/2341/UE) e giurisprudenziale (cfr. l’analisi di Giubboni, S., Fondi pensione e competition rules comunitarie, cit., 110 ss.).

Non è dunque seguita dal d.lgs. n. 252/2005, al pari del testo previgente, la scelta invece adottata da altri ordinamenti europei (come, ad esempio, la Francia, la Svezia, l’Olanda, la Svizzera) che stabiliscono l’accesso obbligatorio alla previdenza complementare (cfr. Vianello, R., I fondi pensione nelle esperienze nazionali europee, in La previdenza complementare, cit., 134 ss.; Gallo, R.-Piatti, L., La previdenza complementare in Europa, in La previdenza complementare in Italia, cit., 103 ss.). Anzi, è confermato il sistema della “doppia volontarietà” operante, come si è già anticipato, su di un duplice livello (sull’opportunità del mantenimento di tale scelta, v. anche Squeglia, M., Il regime finanziario della capitalizzazione nella previdenza complementare, cit., 106 ss.). Sul piano dell’autonomia collettiva, le parti sociali restano libere nell’ambito di un contratto collettivo di inserire o meno lo strumento del fondo pensione tra gli istituti che regolano il rapporto di lavoro con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di legittimazione sostanziale, di efficacia e di possibile conflitto fra più fonti collettive. Certo è che nella misura e nella parte in cui regolano i rapporti di lavoro, eventuali pattuizioni del contratto collettivo che prevedano meccanismi, per l’appunto negoziali, di adesione tacita ai fondi pensione di fonte contrattuale non potrebbero ritenersi inefficaci e tanto meno nulle, dal momento che la libertà di adesione individuale del lavoratore non ne risulterebbe affatto compromessa (cfr. Pessi, R., Lezioni di diritto della previdenza sociale, cit., 370; Tursi, A., La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, cit., 244; Ferraro, G., La problematica giuridica dei fondi pensione, in La previdenza complementare nella riforma del welfare, a cura di G. Ferraro, Milano, 2000, 34). Una soluzione questa che non ha tuttavia storicamente ricevuto l’avallo delle parti sociali, presumibilmente a causa del timore di dover rinunziare al flusso di auto-finanziamento costituito dal TFR.

Sul piano dell’autonomia individuale, una volta definita la cornice che istituisce il fondo, stabilite le regole per il funzionamento, operata la materiale costituzione, è il soggetto che liberamente sceglie di aderire o di rinunciare al piano previdenziale tanto di fonte collettiva quanto individuale. Tale si rivela l’art. 3, co. 3, d.lgs. n. 252/2005 che si limita a ribadire che la libertà di adesione alla previdenza complementare è in ogni caso “individuale” nel senso che si realizza in capo a ciascun soggetto singolarmente considerato, «quand’anche ad esso si applichi iure communi il contratto collettivo concluso ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a)» (Bollani, A., Fonti istitutive e autonomia collettiva nella riforma della previdenza complementare, in La nuova disciplina della previdenza complementare, cit., 600).

Il d.lgs. n. 252/2005, nell’ambito di questo sistema che trascina con sé profili critici non ancora pienamente condivisi in dottrina, introduce per via legislativa una sorta di «adesione collettivamente imposta» che si presenterebbe condizionata al «mancato dissenso individuale» (Tursi, A., La terza riforma della previdenza complementare in itinere, cit., 529).

Precisamente è individuato un termine (sei mesi) entro il quale il soggetto è chiamato ad esprimere liberamente la sua volontà di aderire o di rinunciare alla forma pensionistica complementare. Decorso inutilmente il predetto termine senza che sia stata manifestata alcuna volontà, il soggetto è tacitamente iscritto al fondo pensione con conseguente devoluzione del TFR maturando.

Ebbene, come considerare la “modalità tacita di conferimento” (impropriamente indicata come cd. silenzio assenso nella terminologia corrente)?

Qualche autore parla dell’introduzione di una «una deroga meramente formale» (Pandolfo, A., Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare, a mo’ commento del d.lgs. n. 252/2005, in Prev. ass. pubbl. priv., 2006, 186). L’analisi delle norme del decreto, che riconoscono al lavoratore il diritto di ricevere un’adeguata informazione «affinché operi una scelta libera e consapevole» nel segno di un consenso che ora è informato, è segnale dell’inequivocabile intendimento della fonte eteronoma di equiparare sul piano sostanziale il silenzio al «consenso esplicito» del lavoratore. Peraltro, l’art. 4, co. 4, d.lgs. n. 252/2005, riprendendo la previgente disposizione di cui all’art. 4, co. 4, d.lgs. n. 124/1993, stabilisce che i relativi statuti dei fondi pensione costituiti nell’ambito di categorie, comparti o raggruppamenti, sia per lavoratori subordinati sia per lavoratori autonomi «devono prevedere modalità di raccolta delle adesioni compatibili con le disposizioni per la sollecitazione al pubblico risparmio». Il richiamo è al d.lgs. 24.2.1998, n. 58, che impone la consegna di uno specifico prospetto informativo, redatto e approvato sulla base di uno schema predisposto dall’autorità di vigilanza, al potenziale aderente.

Se di deroga allora si tratta, essa non è comunque “piena”, posto che, come si avrà modo di rilevare in seguito, essa non opera per i lavoratori già iscritti ad un fondo pensione e occupati alla data del 28.4.1993, per i quali non vi era (e non vi è neppure dopo il d.lgs. n. 252/2005) l’obbligo di devoluzione del TFR per effetto della previsione contenuta nell’art. 18, co. 7, d.lgs. n. 124/1993.

In questo contesto pare convincente la ricostruzione della dottrina (Sandulli, P., Il conferimento, tacito e non, del tfr al sistema di previdenza complementare: riflessioni critiche, in La previdenza complementare in Italia, cit., 176 ss.) che ritiene il conferimento tacito come «come l’effetto di una, più o meno forzata, estensione dell’efficacia delle fonti istitutive intese in senso oggettivo»:  in questa prospettiva, la forma pensionistica complementare andrebbe intesa come «un trattamento di origine contrattuale costituente un segmento di un più ampio e complessivo contenuto contrattuale riferito a fattispecie di lavoro dipendente».

La conclusione in ogni caso è conseguente alla premessa: parlare di una deroga che interviene sull’efficacia negoziale del contratto collettivo (trattandosi di un negozio giuridico assunto come fatto normativo) allorquando clausole di cd. silenzio assenso potrebbero comunque intervenire per via negoziale, come si è anticipato supra, in forza del potere di disposizione dell’autonomia collettiva, senza che sia necessario il ricorso ad una fonte eteronoma, conferma «l’eccessiva valorizzazione riconosciuta alla libertà individuale di adesione nel nostro ordinamento» (v. Tursi, A., Autonomia contrattuale e contratto collettivo di lavoro, Torino, 1996, 27 ss.). In questo caso, davvero, la previsione dell’adesione tacita è prova dell’attribuzione di “efficacia normativa” del contratto collettivo e di promozione legislativa che incontra nella garanzia dell’art. 39, co. 1, Cost. il limite del necessario rispetto della rilevanza giuridica degli atti di autonomia collettiva: la fonte istitutiva resta, e non scompare come, atto negoziale di autonomia.

Fonti normative

Artt. 12, 36, 38, 39, co. 1, 47 Cost.; artt. 2117 e 2123 c.c.; d.lgs. 13.12.2018, n. 147; d.lgs. 21.6.2018, n. 88; art. 1, co. 156, 157, co. 173 ss., l. 27.12.2017, n. 205; art. 1, co. 26, l. 23.12.2014, n. 190; d.lgs. 5.12.2005, n. 252; art. 1, co. 1, lett. c), 2, lett. e), h), i), l) e v), 44, 45 e 46 l. 23.8.2004, n. 243; art. 15 l. 8.8.1995, n. 335; d.lgs. 21.4.1993, n. 124; art. 2, co. 26, d.lgs. 30.12.1992, n. 503; art. 3 l. 23.10.1992, n. 421; d.m. 2.8.2014, n. 166; d.m. 7.12.2012, n. 259; d.m. 15.5.2007, n. 79; d.m. 10.5.2007, n. 62; d.m. 21.11.1996, n. 703, d.m. 14.1.1997, n. 211; provvedimento ISVAP 10.11.2006, n. 2472.

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