FORI

Enciclopedia Italiana (1932)

FORI

Giuseppe Lugli

Per il concetto di foro, le sue specie e i suoi usi vedi foro. Qui la trattazione si limita alla descrizione di Fori di Roma.

Il Foro Romano.

La tradizione fa risalire la fondazione del Foro Romano all'epoca dei re, quando gli abitanti primitivi dei sette colli si riunirono sotto un solo capo, con un'unica costituzione, e diedero origine alla città di Roma. Certamente, prima ancora di giungere alla definitiva unione di tutti i sette colli, il Foro fu destinato dai popoli con esso confinanti, e cioè i Latini del Palatino e i Sabini del Campidoglio, ai quali poco dopo si aggiunsero gli abitanti dell'Esquilino, a sede del mercato comune, delle pubbliche adunanze, delle cerimonie religiose. La valle che era al di fuori dei tre pagi si chiamò forum. Il Foro Romano non appartiene quindi alla primitiva fase della città, cioè alla città Palatina, la quale aveva il foro tra il monte e il fiume, nel sito chiamato poi Foro Boario, ma ad una fase più avanzata. Infatti per sistemare la valle paludosa fra i tre colli fu necessario eseguire opere di bonifica. Inoltre, sulle pendici orientali esisteva un sepolcreto antichissimo, che fu forse alle dipendenze del pagus suburanus, e che si mantenne in efficienza dal sec. IX a. C. fino al VII. Del sepolcreto si rinvennero una quarantina di tombe, di due tipi: le più antiche erano in forma di pozzo, con i cadaveri cremati e le ceneri racchiuse entro un'urna avente non di rado la forma di capanna; le più recenti erano invece a inumazione col cadavere deposto o semplicemente nel terreno, oppure in una cassa di legno o di tufo. La suppellettile in ambedue i riti era molto povera. Dello stato paludoso della valle del Foro abbiamo ricordo in uno stagno o fonte, che rimaneva ancora in epoca tarda nel punto più profondo, detto Lacus Curtius: perché, secondo la spiegazione più diffusa, un nobile sabino, Mezio Curzio, si gettò a cavallo nella voragine per salvare col sacrificio della vita la patria in pericolo. I saggi fatti da G. Boni presso il Comizio hanno dimostrato una stratificazione abbondante sotto il pavimento imperiale; fra tutti questi strati vanno notati: quello del Foro primitivo, cioè dell'alta repubblica; quello dell'età sillana, quello dell'età cesareo-augustea e quello dell'età domizianea.

Nei tempi più antichi, nel Foro si tenevano soltanto mercati, pubbliche adunanze, discussioni giudiziarie e processioni religiose. Alle adunanze era particolarmente adibito il Comizio, piazza in origine distinta dal Foro, ma ad esso immediatamente adiacente verso N. tanto che nell'impero, venuto meno il suo uso primitivo, finì per unirsi con esso. Di fronte al Comizio era la sede del Senato, la Curia (v.); e lì presso il monumento più insigne e vetusto del Foro, il Lapis Niger. È questo una piccola area lastricata di marmo nero, donde il suo nome, che par certo sia stato un monumento commemorativo: la leggenda vi localizzava la tomba di Romolo, o quella di Ostilio, avo del re dello stesso nome. Al tempo di Varrone la presunta tomba, che era ornata con due leoni accovacciati, era ancora visibile; il lastricato in marmo nero deve perciò attribuirsi all'epoca di Cesare. Gli scavi hanno rimesso in luce avanzi, che possono essere quelli di un sepolcro, e con essi una stele piramidale, tronca, con iscrizione bustrofedica, che è la più antica iscrizione latina conosciuta; l'interpretazione ne è incerta, ma pare si tratti di una legge sacra del sec. VI a. C. circa.

Le processioni religiose, provenendo di solito dalla Velia, attraversavano tutta la valle lungo una via, che si chiamò perciò Sacra, e quindi risalivano sul Campidoglio fino al Tempio di Giove. In età più recente si tennero nel Foro anche spettacoli gladiatorî, preghiere e sacrifici pubblici, grandi funerali e assemblee politiche. Quivi si radunava il popolo durante le elezioni, per udire i discorsi dei nuovi consoli e prendere conoscenza degli editti dei magistrati. Qui i tribuni della plebe raccoglievano il popolo; i censori leggevano l'albo dei senatori; i generali eseguivano la leva in massa; qui si tenevano dinnanzi al pubblico i processi per alto tradimento e per le frodi contro l'amministrazione dello stato. Ogni anno, il 15 luglio, scendevano nella piazza, contornati da grande turba, i nuovi cavalieri con l'abito di parata (trabea), provenendo dal Tempio di Marte sulla Via Appia e diretti al tempio dei Dioscuri, loro protettori, dove offrivano un solenne sacrificio. Tra le più celebri laudationes funebres vanno ricordate quella in onore di Silla, di Marco Antonio in onore di Cesare, quelle di Augusto per i proprî parenti e quella di Tiberio in onore di Augusto. L'oratore parlava dai rostri, cioè da un podio ornato coi rostri tolti alle navi di Anzio nel 338 a. C.; essi erano prima nel Comizio, poi da Cesare furono trasferiti sul lato settentrionale del Foro e adorni con colonne e statue onorarie. Ai rostri pare appartenessero i due rilievi detti plutei di Traiano, che ora si trovano a poca distanza e rappresentano due fatti della vita di quell'imperatore.

Adiacente al Foro, ma distaccato da esso era il Carcere, o Tullianum. Il nome pare derivi da tullus "polla d'acqua"; era costituito da due sale, una superiore, trapezoidale, costruita con blocchi di tufo, e una inferiore, quasi circolare, che doveva essere in origine una cisterna a tholos. La prima era riservata al corpo di guardia, nella seconda avevano luogo le esecuzioni capitali: tra le più famose si ricordano quelle di Giugurta, di Vercingetorige e di alcuni dei congiurati di Catilina. In età cristiana fu chiamato carcere Mamertino e vi si localizzò la tradizione della prigionia di S. Pietro.

Soltanto in età relativamente recente furono costruiti nel Foro alcuni templi e i primi furono quelli di Giano e di Saturno, le divinità in relazione con la mitica età dell'oro.

Secondo la nota tradizione, il tempio di Giano si chiudeva in tempo di pace e rimaneva aperto solo in tempo di guerra; esso sorgeva fra la Basilica Emilia e la via dell'Argileto, ma al presente non ne rimangono più tracce. Il tempio di Saturno fu eretto secondo la tradizione dagli ultimi re per custodirvi il pubblico erario. L'edificio fu restaurato nel 42 a. C. da Lucio Munazio Planco, ma nel terzo secolo dell'impero rovinò in seguito a un incendio, tanto che il senato e il popolo lo restaurarono a spese dello stato usufruendo in gran parte del materiale precedente. Questo spiega perché le colossali colonne di granito siano di più pezzi, non bene combacianti tra loro.

Altro tempio antico della regione del Foro è quello dei Dioscuri, Castore e Polluce, detto comunememe dei Castori.

La fondazione si ricollega con la leggenda dei due giovani eroi che apparvero, rifulgenti come dei, in aiuto dei Romani, mentre questi combattevano contro i Tarquinî al Lago Regillo, e che poco dopo furono visti comparire nel Foro ad abbeverare i loro cavalli, alla fonte di Giuturna, raccontando ai Romani la vittoria riportata da Aulo Postumio. Per questo miracolo il dittatore medesimo dedicò ai Dioscuri presso la fonte un grande tempio, che, iniziato nel 499, fu ultimato 15 anni dopo. Anche questo tempio fu in seguito ricostruito, nel 117 a. C., da Cecilio Metello, e nel 6 d. C. da Tiberio ancora principe. A quest'ultimo restauro spettano le tre svelte colonne corinzie, che appartengono al lato orientale del periptero, tutte le altre essendo cadute.

Circa un secolo dopo, per opera di Furio Camillo (367 a. C.), fu innalzato il tempio della Concordia ai piedi del Campidoglio, per commemorare la fine delle lunghe lotte fra patrizî e plebei. Questo tempio divenne nell'impero uno dei più ricchi di tutta la città, ospitando nel suo interno capolavori della scultura e pittura greca, tra cui un gruppo di Latona con Apollo e Diana, opera di Eufranore, un Ares e un Ermete di Tisicrate, e il celebre quadro di Zeusi che raffigurava il satiro Marsia.

Un tempio di origine repubblicana ma i cui avanzi pervenutici appartengono a due restauri, uno dell'età dei Flavî, l'altro del secolo IV, è quello degli Dei Consenti (v.), situato sotto le pendici del Campidoglio: era costituito da un portico a colonne, diviso in due bracci innestantisi ad angolo ottuso, dietro al quale erano dodici stanze dedicate ciascuna a una divinità dell'Olimpo.

Nell'impero ebbero un loro tempio nelle adiacenze del Foro alcuni imperatori divinizzati, e cioè Giulio Cesare, Vespasiano, e infine Antonino Pio con la moglie Faustina. È incerto se nell'elegante edificio rotondo, che fa da pronao alla chiesa dei Santi Cosma e Damiano, si debba riconoscere l'heroon del giovane Romolo, figlio di Massenzio. Altri, con più ragione, ritengono ch'esso sia il tempio Sacrae Urbis, ricostruito verso la fine del sec. III d. C. in forma di un'aula rotonda fiancheggiata da due celle absidate. Tale nome era dato finora all'aula rettangolare retrostante, che è invece piuttosto da ritenere il Tempio degli Dei Penati. Il tempio di Cesare fu decretato due anni dopo la sua morte dai triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido, e dedicato da Augusto nel 29 a. C.

Dei due templi di Giove Statore e di Venere e Roma, che si trovano sulla Velia, si dirà in seguito. Resta invece da parlare di un tempio che fu il più celebre di tutta l'antichità per l'importanza del suo culto, saldamente connesso con la vita di Roma attraverso i secoli cioè il tempio di Vesta.

Non sappiamo per qual motivo esso si trovasse alla periferia del Foro primitivo e cioè fra il tempio dei Dioscuri e la Casa delle vestali. Fu scoperto nel 1874, ed esplorato da H. Jordan nel 1884 e dal Boni nel 1898. il quale ultimo rinvenne varî pezzi della trabeazione esterna di marmo appartenenti all'ultimo restauro, eseguito a cura di Giulia Domna; oggi ne è stato rialzato circa un quarto in modo da dare un'idea dell'antica costruzione. Già prima di Giulia Domna il tempio era stato più volte distrutto e restaurato; la tradizione ne attribuiva l'origine al re Numa, e Ovidio ci rappresenta il primitivo tempio come una capanna rotonda coperta di vimini e paglia. Fu distrutto una prima volta nell'incendio gallico (390 a. C.), quindi nel 241 e nell'età di Silla, quando forse fu rifatto tutto di pietra. Augusto vi apportò miglioramenti e Vespasiano dové ricostruirlo dopo l'incendio del 64. È certo che una nuova catastrofe dovette avvenire nell'incendio del 191, sotto Commodo, perché, come si è detto, gli avanzi appartengono all'età di Settimio Severo. Il tempio si compone di una cella, con l'apertura ad oriente, contornata da un portico a giorno di venti colonne; il tetto aveva un foro nel mezzo per il tiraggio della fiamma; nella cella si conservavano alcune reliquie, tra cui il Palladio, trasferito da Troia a Roma, simbolo della eternità dell'Urbe, fatale pegno dell'impero. Le vestali, che a turno prestavano servizio nel tempio, avevano la loro abitazione vicino ad esso. La bella casa, ampia e spaziosa, in seguito ai varî restauri e miglioramenti apportati da Nerone, da Domiziano, da Adriano, da Antonino Pio e da Settimio Severo si componeva di un grande atrio centrale, contornato da un portico a due ordini, l'inferiore con colonne di marmo cipollino, il superiore di breccia corallina; le stanze di abitazione e di ricevimento si svolgevano specialmente nei lati ovest e sud, su due piani, mentre nel lato nord erano le botteghe, aventi sul dinnanzi un porticato a pilastri. Nell'atrio sono disposte alcune statue e basi onorarie di vestali massime, che meritarono la riconoscenza dello stato. Verso sud si svolgono le stanze private di abitazione, il triclinio, il larario, il forno, le cucine, ecc. Le camere da letto erano forse al secondo piano prospicienti sulla Via Nova, la via che correva a mezza costa tra il Foro e il Palatino. A levante dell'atrio si trovano sei stanze uguali che dovevano servire come sacrestia per le sacerdotesse.

Attigua al tempio di Vesta e alla Casa delle vestali era la casa del pontefice massimo, fondata nel luogo dove si dice che Numa avesse la Regia.

È un piccolo edificio, di uso solo rappresentativo, che dagli avanzi si dimostra molto antico; ha la forma di un trapezio diviso in due stanze, con pozzi rituali. La stanza più a sud ha la forma di un megaron coperto; l'altra sembra essere stata un recinto scoperto, con un colonnato lungo la Via Sacra. L'ultima ricostruzione, alla quale appartengono i frammenti architettonici raccolti lì presso, è dell'età augustea. Sulle sue pareti esterne erano affisse le lastre marmoree con i fasti consolari e trionfali.

Scendendo nel mezzo del Foro si osserva che i limiti della piazza sacra erano fissati per mezzo di una serie di pozzi, che si notano nel pavimento dinnanzi ai Rostri e lungo la Via Sacra. Nella piazza esistevano varî monumenti: il lacus Curtius; il recinto che racchiudeva i tre alberi sacri, il fico, la vite e l'olivo, insieme con la statua di Marsia; le statue equestri di Domiziano e di Costantino; alcune basi onorarie, e, fra tutte troneggiante, la colonna corinzia eretta nel 608 d. C. dal papa Bonifacio IV all'imperatore Foca per il dono da lui ricevuto del Pantheon. Lungo la Via Sacra, di fronte alla Basilica Giulia, sette grandi basi stanno a ricordare alcuni monumenti onorarî, eretti a personaggi illustri dell'età di Diocleziano.

Quattro archi delimitavano ai quattro angoli l'area del Foro sui varî bracci della Via Sacra. Ad ovest era l'arco di Tiberio, di cui si vedono ancora i cavi della fondazione; a nord, fino a tutto il sec. II dell'impero, esisteva un arco a un solo fornice, che è figurato in uno dei due plutei traianei, ma che non sappiamo a chi fosse dedicato. Esso fu danneggiato probabilmente nell'incendio di Commodo, nel 191, e fu sostituito da Settimio Severo col grande arco a tre fornici, dedicato a lui e ai suoi figli, Caracalla e Geta, nel 203 d. C., in ricordo delle vittorie riportate sugli Arabi e sui Parti. L'arte vi si mostra già decadente, e vi si nota l'imitazione dei rilievi delle colonne traiana e antonina. Ad est, fra la Regia e la Basilica Emilia, era il Fornix Fabianus, costruito dal console Q. Fabio Massimo Allobrogico nel 121 a. C. A sud era un altro arco a tre fornici decretato dal Senato e dal popolo romano nel 19 a. C. ad Augusto, in ringraziamento del ricupero delle insegne militari prese dai Parti. Di quest'arco rimangono soltanto le fondazioni fra il tempio di Cesare e quello dei Castori, mentre il Fornix Fabianus è andato interamente distrutto.

I lati lunghi del Foro erano fiancheggiati dalle due basiliche, la Giulia e la Emilia.

Nell'età più antica esistevano tre altre basiliche, che scomparvero col tempo senza lasciare traccia: la Porcia, la Sempronia e la Opimia. La Porcia, eretta nel 184 a. C. dai censori L. Valerio Flacco e M. Porcio Catone, sorgeva probabilmente fra il Campidoglio e la Curia Ostilia, e andò interamente distrutta, quando la Curia bruciò nei tumulti clodiani del 55. La Sempronia, fondata nel 170 a. C. dal censore Tiberio Sempronio Gracco presso il Vicus Tuscus, dovette scomparire quando fu eretta la nuova basilica di Giulio Cesare. La terza, la Opimia, di piccole proporzioni, fu ideata da Lucio Opimio, capo del movimento aristocratico contro i Gracchi, e situata fra il tempio della Concordia e il carcere Mamertino. Scomparve quando Tiberio ricostruì il tempio suddetto, e ne prolungò i due lati nord e sud.

Delle due basiliche superstiti la più antica era la Emilia, che i censori del 179 a. C., M. Emilio Lepido e M. Fulvio Nobiliore, innalzarono dove fino ad allora erano le tabernae argentariae novae.

Da principio portò il nome di Fulvia et Aemilia, ma in seguito si chiamò Aemilia soltanto, perché questa famiglia ne fece quasi un suo monumento particolare, e la restaurò più volte nel corso dei secoli. Alla basilica primitiva apportò miglioramenti M. Emilio Lepido che fu console nel 78 a. C.; ma nel 55 L. Emilio Paullo, fratello del triumviro, sentì il bisogno di ricostruirla completamente in base ai nuovi criterî edilizî introdotti in Roma nell'età cesariana. L'opera fu finita dal figlio nel 34 a. C. Restauri vi furono apportati nell'impero, e specialmente nel 4Io dopo il saccheggio di Alarico, quando il portico frontale fu tutto ricostruito. La facciata esterna era a due piani, rivestiti di marmi e bronzo dorato. L'aula era contornata da un portico di colonne di marmo africano, mentre il pavimento era a riquadri di marmi colorati.

La basilica Giulia prese il nome da Giulio Cesare, che la iniziò nel 54 a. C.: fu inaugurata otto anni dopo, non ancora finita. Distrutta da un incendio, fu ricostruita da Augusto con piano più ampio, con la fronte prospiciente la Via Sacra e il lato sud-orientale sul Vicus Tuscus. Era anch'essa decorata con grande sfarzo, ma purtroppo l'ingiuria del tempo non ce ne ha conservato che la pianta e qualche scarso frammento.

Sul principio del sec. IV, al Foro, ampliato fino alla Velia, fu aggiunta una terza grande basilica, che, cominciata da Massenzio nel 308, prese poi il nome da Costantino, che la finì circa dieci anni dopo. I tre suggestivi archi di mattoni che ancora si ammirano fanno parte della navata di destra, l'unica rimasta, mentre la navata opposta, e la grande vòlta che poggiava su ambedue, sono interamente cadute. L'ultima colonna che rimaneva ancora in piedi fu fatta trasportare ed erigere da Paolo V nel 1614 avanti alla basilica di S. Maria Maggiore.

Nel Foro detto aggiunto (adiectum), verso sud-est, esistevano ancora i seguenti monumenti: il tempio degli Dei Penati, oggi chiesa dei Ss. Cosma e Damiano, di forma quadrangolare, col pronao circolare, di cui si è già parlato, gli Horrea Piperataria et Margaritaria tra la Via Sacra e la Via Nova, di fronte alla Basilica di Costantino, e l'Arco di Tito innalzato in ricordo della vittoria sopra i Giudei, e della presa di Gerusalemme.

Sul versante opposto della Velia, dove Nerone aveva collocato il vestibolo della sua Domus aurea, Adriano innalzò il magnifico tempio dedicato al felice connubio di Venere e Roma, e quindi composto di due celle, con le absidi addossate l'una all'altra. Un grande porticato di colonne di granito lo circondava: anche questo fu restaurato da Massenzio o da Costantino.

Tra il Foro e il Palatino, risalendo la Via Sacra, troviamo prima un bagno privato del tardo impero, poi il tempio di Giove Statore, ridotto al solo basamento, conservato al disotto di una torre medievale. Quindi tutte le costruzioni che fanno parte del palazzo domizianeo sul Palatino e che giungono fino alla Via Nova, e infine quel grande edificio, che faceva forse da vestibolo alle fabbriche palatine, e che passa comunemente sotto il nome di tempio di Augusto: esso infatti si trova probabilmente nel sito stesso di questo tempio, che però andò distrutto nell'incendio del 64. Nella parte retrostante, che era adibita ad archivio militare (atrium Minervae), fu nell'alto Medioevo stabilita la chiesa di S. Maria Antiqua, nella quale si ammirano ancora oggi interessanti pitture.

Nella storia del Foro Romano vanno ricordati alcuni incendî, che apportarono notevoli danni agli edifizî dell'area centrale. A prescindere dall'incendio gallico del 390, e senza tener conto dei numerosi incendî parziali che ebbero luogo durante la repubblica, nel 64 d. C. avvenne il tremendo incendio neroniano che, attraversando il Foro dal vicus Tuscus all'Argiletum, distrusse o danneggiò gravemente tutti gli edifici che trovò sul suo passaggio, tra cui il tempio e la casa delle Vestali; un altro incendio si scatenò poco dopo, nell'80, dal Campidoglio al Foro, nella lotta fra i partigiani di Vitellio e quelli di Vespasiano. Nel 284 va registrato l'incendio di Carino.

Nel 608 d. C., quando fu eretta la colonna di Foca, il Foro era ancora in efficienza. La sua decadenza cominciò forse nell'851, in seguito al forte terremoto avvenuto sotto il pontificato di Leone IV: le rovine a poco a poco si accumularono, e in molti punti la viabilità fu interrotta; gli scoli delle acque depositavano nella valle i detriti dei colli circostanti, onde il livello aumentò rapidamente, mentre i cadenti edifici venivano a mano a mano spogliati dei marmi per farne calce e pietra da costruzione. Divenuto pascolo di buoi e deposito di carri, il foro di Roma fu mutato in luogo di mandre, e detto perciò Campo Vaccino. Le prime ricerche a scopo archeologico cominciarono verso gli inizî del secolo passato per opera di Carlo Fea (1801), e si svolsero fra l'arco di Settimio Severo e il tempio dei Castori. Nel 1827 ne assunse la direzione Antonio Nibby; dopo il 1870 il governo italiano ne ordinò l'esplorazione completa, che Giacomo Boni (v.) condusse a termine verso i primi anni del nostro secolo.

Fori imperiali.

Dall'età di Silla a quella di Cesare, Roma si era andata molto ingrandendo, e il primitivo centro politico e amministrativo della città, cioè il Foro Romano, non bastava più per le adunanze dei comizî e per la trattazione degli affari; per di più si sentiva il bisogno di dare al centro della città una forma nobile e corrispondente all'importanza assunta dalla capitale dell'impero.

Foro di Cesare. - Cesare, mentre apportò notevoli restauri al Foro romano, credette opportuno costruire una nuova grande piazza a non molta distanza, dove era possibile avere un'area libera di una certa estensione. Questo luogo fu dietro la Curia del Senato, verso le pendici del Quirinale, che allora si spingevano molto più vicino alla valle del Foro. Il concetto di Cesare, creando la nuova piazza, fu non soltanto quello di dare ai Romani un più ampio spazio per lo svolgimento della loro vita politica, ma soprattutto quello di erigere un monumento, la cui architettura corrispondesse meglio alle esigenze dei tempi nuovi. La piazza ebbe perciò forma di un rettangolo con botteghe nei lati nord-est e sud-ovest e un porticato tutt'intorno. Nel mezzo di uno dei lati corti era un tempio, dedicato alla protettrice della gente Giulia, Venere Genitrice. Il Foro fu iniziato nel 54 a. C. e il costo complessivo dell'opera fu di oltre cento milioni di sesterzî, pari a 22 milioni di lire. Il tempio di Venere fu dedicato nel 46 a. C.: aveva una fronte di sei colonne, ed era periptero e picnostilo, cioè con intercolunnî molto stretti. Nel mezzo del piazzale troneggiava la statua di Giulio Cesare a cavallo. Del grandioso monumento, che fu il primo del genere in Roma, erano finora visibili solo alcune arcate ma gli scavi in corso (1932) lo vanno liberando per intero.

Foro di Augusto. - L'esempio di Cesare fu seguito da Augusto, il quale, appena divenuto imperatore, iniziò la costruzione di un nuovo Foro a nord-est del precedente, dove esisteva un quartiere assai popolare. Per isolare questo quartiere e proteggere anche il Foro romano dai continui incendî che da esso si sviluppavano, Augusto circondò il suo Foro con un alto muro di blocchi di peperino e pietra gabina, decorandolo lateralmente con due grandi absidi, e addossandovi nel fondo il nuovo tempio dedicato a Marte Ultore, che fu uno dei più grandi e lussuosi di tutta la romanità. Questo tempio era stato da lui votato nel 42 a. C. durante la battaglia di Filippi.

Si componeva, alla moda italica, di una cella circondata da un portico soltanto per tre lati, con otto colonne sul fronte, di ordine corinzio. I marmi furono espressamente tagliati nei monti di Luni e scolpiti sul posto con greca eleganza e perfezione, e ad ornare la cella del dio e i portici del Foro, Augusto destinò le più cospicue opere d'arte che già esistevano in Roma, o che egli aveva fatto trasportare appositamente dalla Grecia. Si ammiravano fra i numerosi capolavori, come ricorda Plinio, due grandi quadri di Apelle, che raffiguravano i trionfi di Alessandro Magno, due statue di bronzo appartenute al celebre conquistatore, una statua eburnea di Apollo, molti vasi di metalli preziosi donati ad Augusto dalle provincie, e un cimelio sacro per i Romani, la spada che Cesare aveva portato nelle sue gloriose imprese.

Gli scavi eseguiti dopo il 1925, oltre ad aver rimesso in luce tutto il pavimento della piazza, composto di marmi policromi, hanno portato al rinvenimento, da una parte e dall'altra del tempio, di due basamenti di archi trionfali, eretti nel 19 d. C. da Tiberio in onore di Druso e di Germanico. Lo scavo ha inoltre dimostrato che i due ampli emicicli, che ornavano le pareti del Foro, avevano sul fronte un portico a giorno, che lanciava, col giuoco delle sue masse colorate, armoniosi sprazzi di luce e di ombra sul muraglione di peperino e tufo, dove, nelle apposite nicchie, troneggiavano le statue degli eroi di Roma, dei grandi condottieri e legislatori, a cominciare da Enea, Ascanio, i re di Alba, Romolo e gli altri re, i principali consoli e generali, Publicola, Camillo, gli Scipioni, i Catoni, Duilio, ecc., fino a Cesare.

Circa un secolo dopo, forse nell'età di Adriano, una statua colossale fu eretta in un'aula ricavata fra il tempio e il lato nord del recinto, tutta rivestita di giallo antico e africano, fra eleganti lesene di cipollino. Nel fondo è la base della statua, della quale si vedono ancora le impronte dei piedi marmorei, mentre un frammento di mano colossale giace lì presso. Tanto questa sala quanto i due emicicli erano separati dal resto del Foro per mezzo di una linea di colonne, anch'esse di cipollino, alte m. 9,50 e sostenenti un secondo piano a giorno, che aveva, in luogo delle colonne, svelte figure di cariatidi. Il podio del tempio è tutto in opera quadrata di tufo, rivestito di marmo bianco, decorato con lastre o festoni di metallo. Si è pensato che nella fascia situata fra le due cornici fosse inciso, sopra lastre di bronzo, il trattato di amicizia stipulato fra i Romani e i Giudei, che sarebbe stato visto ancora in posto nel sec. XII. La parete di fondo del tempio terminava con una grande abside, entro la quale, su di un basamento di cinque gradini, sorgevano le statue colossali di Marte e di Venere.

Non sappiamo quando la rovina di così grandiosa opera avesse inizio; nel sec. IX si piantarono sul podio del tempio, già ridotto presso a poco nelle condizioni odierne, i monaci basiliani fuggiti dalla Sicilia sotto l'incalzare delle orde dei Saraceni; sul pronao essi fondarono la loro chiesa e il campanile di tipo romanico; nel massiccio del basamento scavarono la cripta sepolcrale, cui si accedeva per mezzo della scala mortuorum, ricordata in un atto del 995; e nell'abside della cella ricavarono un'altra cripta semicircolare, che tagliò tutto il basamento delle statue di Marte e di Venere. Verso gl'inizî del 1200 vi presero stanza i Cavalieri di Rodi, e sappiamo che nel 1465 il cardinale Marco Barbo ricostruì la sede del priorato dell'ordine: a lui si deve la bella loggia coperta, che si ammira ancora oggi, liberata dalle aggiunte posteriori, piantata al di sopra di un'aula che fu addossta da Domiziano al lato settentrionale del Foro. Ad aumentare la rovina di questo si aggiunse verso il 1570 il convento delle monache domenicane dell'Annunziata, che si sovrappose ai fabbricati dei basiliani e dei Cavalieri, intramezzò le sale del priorato, ricoprendo le belle pitture quattrocentesche, ed eresse una nuova chiesa, priva di opere d'arte, e quindi demolita ora senza rimpianto.

Foro della Pace o di Vespasiano e foro di Nerva. - Le due nuove piazze descritte bastarono a lungo per la popolazione della città, i successori di Augusto essendosi dedicati piuttosto ad abbellire il Palatino. Vespasiano, dopo il trionfo sui Giudei, per custodire i famosi cimelî portati via dal distrutto tempio di Salomone, ideò un nuovo foro con un tempio nel mezzo dedicato alla Pace (75 d. C.); questo foro però ebbe un carattere privato e costituì una specie di grande museo, in cui vennero raccolte opere egregie dell'arte greca, in parte tolte dalla Domus aurea di Nerone e in parte trasportate da Vespasiano e da Tito dall'Oriente. Nessuna rovina resta oggi in piedi dell'edificio e forse la sua distruzione cominciò molto presto.

Il Foro della Pace fu costruito in una dorsale, artificialmente spianata, fra la valle del Foro e quella del Colosseo, lasciando tra esso e il Foro di Augusto un distacco per il quale passava una strada che dall'Esquilino scendeva al Foro Romano. Questo spazio fu sistemato da Domiziano con un tempio nell'estremità orientale, dedicato a Minerva. Data la sua funzione, di lasciare il passaggio libero lungo la via suddetta, il Foro si chiamò Transitorio; fu completato da Nerva nel 97 d. C. e per questo prese il nome di lui. L'avanzo che si vede ancora, presso l'angolo di via Alessandrina con via della Croce Bianca, chiamato volgarmente le Colonnacce, attesta della sua ricca decorazione e ci fornisce uno dei primi esempî della colonna staccata dalla parete con funzione architettonico-decorativa: altri resti stanno venendo in luce negli scavi in corso (1932).

Il Foro di Traiano. - Ultimo in ordine di tempo, ma il più bello fra tutti i fori di Roma, è il Foro di Traiano, una delle sette cose mirabili della città, come ci dicono gli stessi antichi. L'ingresso principale di esso era presso l'odierna chiesetta di S. Urbano in via Alessandrina, ed era sistemato come un arco di trionfo a un solo fornice, dedicato dal Senato e dal popolo a Traiano nel 117 d. C., l'anno stesso della sua morte. La grande statua equestre dorata dell'imperatore sorgeva nel mezzo della piazza, dinnanzi alla Basilica Ulpia.

La basilica era formata da un'aula centrale, contornata da un doppio porticato, e terminata alle estremità con due absidi. Le pareti erano rivestite di marmo lunense, le trabeazioni erano di marmo pentelico e le colonne di granito grigio, di giallo antico e di pavonazzetto. Il tetto era di lamina di bronzo dorato, che, unito al brillante colore dei marmi, dava al Foro un aspetto veramente imponente. Così la Basilica, come tutto il portico del Foro, erano adorni di statue di marmo e di bronzo dorato, di trofei di guerra, di figure di barbari, tra cui quella dello stesso re dei Daci vinti, Dembalo.

Una gradinata, lunga quanto la Basilica, ne rialzava di poco il piano sopra quello del Foro, portandolo al livello delle due biblioteche, attigue all'edificio stesso verso nord-ovest, una per le collezioni greche e l'altra per le latine; in esse erano inoltre custoditi preziosi libri di lino e di avorio. Entro una specie di cortile, formato dalle due biblioteche, dalla Basilica Ulpia e dal pronao del tempio di Traiano (non segnato nella pianta), era racchiusa la colonna istoriata, che oggi vediamo falsamente dominare nello spazio, e che in antico rappresentava invece il libro più fulgido di tutta la biblioteca, immaginato come un rotolo avvolto intorno al fusto di una colonna, in cui erano scolpite, anziché scritte, con fedeltà storica e mirabile perfezione d'arte, le vicende vittoriose delle guerre condotte da Traiano contro i Daci.

Più di 2500 figure si contano nel fregio, che è continuo, lungo più di 200 metri, e diviso in due parti uguali, una per ciascuna guerra; esso è una fedele riproduzione delle gesta di Traiano, delle battaglie da lui combattute, delle città conquistate, delle opere militari erette lungo il passaggio, tra cui il famoso ponte sul Danubio, e infine della sconfitta dei Daci, terminata con la morte del loro re, Decebalo, e con la presa della città capitale Sarmizegetusa.

Sappiamo che l'architetto di opera così colossale fu Apollodoro di Damasco (v.), al quale si debbono forse anche le due statue di Traiano, quella sulla colonna e l'altra in mezzo al Foro, e i disegni dei bassorilievi della colonna stessa.

Diocleziano, quando costruì le sue terme, portò via dalla biblioteca le opere più celebri, ma nulla toccò della decorazione del monumento, che perdurò nell'antico splendore fino al tardo impero. Anzi, quando l'imperatore Costanzo venne a Roma (356 d. C.), il Foro di Traiano fu il monumento che gli fece maggiore impressione.

Fino agli scavi eseguiti dal Governatorato di Roma, sotto la direzione di C. Ricci, si credeva che il Foro terminasse a nordest, cioè lungo il fianco addossato al Quirinale, con l'emiciclo, noto col nome di Balnea Paulli, o Bagni di Paolo Emilio, che doveva fare da quinta e da recinto alla piazza traianea, un altro emiciclo essendo supposto per simmetria dall'altra parte, cioè presso il monumento a Vittorio Emanuele. Nessuno avrebbe mai immaginato, quando i primi colpi di piccone intaccarono le pareti delle vecchie case che fiancheggiavano la via Alessandrina verso Magnanapoli, che le fatiscenti pareti moderne si sarebbero tramutate in poderose muraglie antiche, mettendo allo scoperto un intero quartiere monumentale, esteso fin sulla sommità del Quirinale. Lo scavo inoltre ha dimostrato che tanto il grande emiciclo quanto i due minori che lo fiancheggiano, non erano visibili dalla piazza centrale; non solo, ma che essi non formavano neppure parte del vero foro, il quale terminava bensì con due esedre sui fianchi della Basilica Ulpia, ma queste erano più piccole, e iscritte, almeno quella orientale, nella corrispondente più grande, tutte chiuse da un alto muro a blocchi di tufo, rivestito con lesene e scomparti di marmo. Nello spazio intermedio correva una strada selciata, la quale, oltre a servire per il rifornimento a mezzo di carri delle botteghe, permetteva anche un transito normale ai veicoli, senza che questi disturbassero il carattere raccolto e privato della monumentale piazza; al disopra corre un secondo piano con un corridoio in facciata e altre botteghe più nell'interno, che si addentrano fin nel cavo del colle. Su questo piano, in seguito alla demolizione delle case moderne che si erano appollaiate sulle antiche mura, è venuto fuori un nuovo corpo di fabbricato della stessa età dell'emiciclo, intramezzato da una strada che passava a mezza costa del Quirinale, nota nel Medioevo col nome di Via Biberatica. Anche qui, in basso si trovano botteghe per la vendita al pubblico, mentre nei piani superiori sono uffici per la direzione dei mercati, e fra tutti notevole è una grande aula di forma basilicale, coperta con una magnifica vòlta a sei crociere impostata su mensoloni sporgenti di travertino: i fianchi sono divisi in due piani, a guisa dei matronei delle chiese cristiane, e sono anch'essi forniti di botteghe. Numerose scale collegano fra loro i varî piani permettendo un facile accesso ad ogni parte del vasto edificio.

Si sono fatte varie ipotesi per spiegare questo complesso monumentale, completamente ignorato fino a pochi anni fa e degno di stare a fronte ai grandiosi palazzi del Palatino; la più probabile è che si tratti di un grande mercato ufficiale, gestito direttamente dall'imperatore o dallo stato, per la rivendita a prezzi di favore dei generi di prima necessità per il popolo, e cioè soprattutto di grano, vino e olio. La merce, conservata in appositi magazzini (horrea) in varie parti della città, veniva portata sempre fresca e in piccole quantità nel foro, cioè in un luogo centrale, dove i prodotti potessero essere distribuiti contemporaneamente e rapidamente; è probabile che avvenissero qui anche i congiaria (v.). La grande aula sopra descritta doveva essere una specie di borsa per la trattazione delle forniture all'ingrosso con i produttori delle provincie, ed era situata perciò un po' discosta dal resto del mercato, e con l'accesso diretto su di una via che dal Quirinale scendeva verso la via Flaminia. La denominazione, dunque, di Mercati di Traiano per questo edificio corrisponde in massima al vero, e distingue la parte monumentale delle costruzioni traianee da quella commerciale. In seguito ai recenti scavi si è potuto altresì accertare che per la costruzione del Foro avvenne effettivamente il taglio di una sella del monte Quirinale, onde chiaro appare finalmente il significato della famosa iscrizione della colonna, la quale fu posta "a dimostrare per quanta altezza il monte e il luogo siano stati scavati con così ingenti lavori".

Notevoli avanzi della decorazione marmorea del Foro propriamente detto, della Basilica e delle Biblioteche, sono venuti in luce nello sterro, tra cui capitelli colossali di ordine corinzio e composito, rocchi di colonne di marmi rari, ecc. Si sono anche ritrovati due torsi di statue virili, di cui uno con corazza, alcune teste di fine lavoro, e vari frammenti di fregi, che vanno ad aumentare il prezioso materiale già rinvenuto negli scavi eseguiti nel 1816 sotto il governo francese e che si conserva ora in parte sul posto e in parte nel Museo Lateranense. (v. tavv. CXLVII-CLVI).

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