Fortuna

Enciclopedia Dantesca (1970)

fortuna

Federigo Tollemache

Voce frequente nelle opere volgari (2 occorrenze nella Vita Nuova, 3 nelle Rime, 7 nel Convivio, 10 nell'Inferno, 3 nel Purgatorio, 5 nel Paradiso, 7 nel Fiore, 2 nel Detto), ma presente anche in quelle latine (una volta nel De vulg. Eloq., 5 nella Monarchia, 2 nelle Epistole). Va notato, però, che, per cogliere le sfumature che questa voce assume via via, occorre tenere presenti i vari significati che f. aveva presso gli scrittori latini classici e cristiani.

Non è possibile, purtroppo, tracciare un quadro completo della storia di questa voce presso i Romani, sia perché, specie nei periodi più remoti, le indicazioni sono piuttosto scarse, sia perché sono talvolta malsicure anche le notizie forniteci dagli stessi storici latini.

Per i primi Latini pare che la F. fosse la divinità che presiedeva all'elemento incalcolabile nella vita umana. La stessa parola f. era forse un epiteto esplicativo del sostantivo fors col quale si trova quasi costantemente appaiata. " Fortuna et fors hoc distant: fors est casus temporalis, fortuna dea est ipsa ", sentenzia Nonio (V 15). Né perse forse mai interamente il significato di un potere che presiede al caso, e che può essere propiziato dagli uomini e da loro aiutato (si veda il discorso di Cesare ai soldati dopo la sconfitta di Durazzo: Bell. civ. III 73 " fortunam esse industria sublevandam "). Sotto la repubblica la f. appare connessa con la virtus e la pietas e significa per lo più " condizione prospera ", significato che non perse mai interamente. Catone il Censore, che pure non rammenta la f. nel De Agricultura, ammonisce nelle Origines che gli dei concedono al soldato " fortunam ex virtute ". Anche in Plauto e Terenzio, dove f. e derivati significano " caso ", non si esclude l'idea dello sforzo umano. Un concetto analogo si trova in Livio, il quale attribuisce alla virtus e alla pietas lo stesso sviluppo di Roma: " fortes fortuna iuvat " (VIII XXIX); la " Fortuna Populi Romani " viene in aiuto allo sforzo umano (I XLVI, II XL, VI XXX, VII XXXIV). Bisogna arrivare all'eclettico Cicerone per trovare il concetto (di provenienza greca) della f. volubile, incostante, cieca.

Nell'Eneide la voce f., che vi ricorre assai spesso, s'identifica con il fato, la volontà di Giove; è un concetto a cui si risponde con ubbidienza e fede, in una parola con la pietas. " Nate dea ", dirà il vecchio Naute a Enea, " quo fata trahunt retrahuntque sequamur; / quicquid erit, superanda omnis fortuna ferendo est " (V 709-710). Si vedano pure V 22-23, VIII 333-335, X 48-49. Solo quando non parla del pio Enea, Virgilio potrà usare f. nel senso di caso.

Sotto l'Impero, e per influsso greco, f. ha comunemente il significato di " caso ". L'uso frequente del termine in Seneca, Giovenale e Tacito riflette la mentalità comune. Plinio il Vecchio, in particolare, ci ha lasciato una descrizione vivacissima della popolarità del culto della dea F., considerata dai più volubile, cieca, incostante e fautrice degl'immeritevoli (Nat. Hist. II 5).

Gli autori cristiani, com'è chiaro, rigettano esplicitamente, o per lo meno implicitamente, il concetto pagano di f., ammettendo la parola solo come sinonimo di " caso ". Di essi vanno ricordati soprattutto Lattanzio, s. Girolamo, s. Agostino e Boezio (gli ultimi due, com'è ben noto, hanno esercitato molto influsso sul pensiero di Dante).

Lattanzio attribuisce all'ignoranza delle vere cause dei fenomeni la credenza pagana in una dea F., e accetta il termine f. solo come " accidentium rerum subitus atque inopinatus eventus " (Divin. Instit. III 28, 29). Anche s. Girolamo condanna esplicitamente il concetto pagano di f. (Comm. in Isaiam XVIII 65). S. Agostino tratta spesso l'argomento, particolarmente nel De Civitate Dei, in cui studia le cause dello sviluppo e della decadenza dell'Impero romano. Il suo pensiero si può sintetizzare così: è da rigettarsi come falsa la dottrina pagana della f., specie se considerata come divinità cieca. La prosperità dell'Impero romano va attribuita all'aiuto dell'unico vero Dio (tema che sarà sviluppato da D. in Mn II). Il concetto di f. va distinto accuratamente dalla felicità: la f., infatti, può essere anche sfavorevole; la voce f., insieme con gli altri derivati di fors, può essere ammessa per indicare gli avvenimenti che a noi sembrano casuali perché ne ignoriamo le cause; contro i flutti e le procelle della f. occorre lottare con tutte le forze, invocando anche l'ausilio divino. Va notato, inoltre, che in Contra Acad. II 2, III 2 f. è usata nel senso di " circostanze favorevoli ". Anche Boezio, ricordato da D. proprio perché fu tanto bersagliato dalla f. (Cv II XII 2, Pd X 124-129), tratta spesso della f., adoperando espressioni e immagini chiaramente riecheggiate nella Commedia. Si notino soprattutto In topica Ciceronis Commentaria V (la voce f. va riferita solo agli avvenimenti di cui ignoriamo le cause), VI (le ricchezze sono in balia della f.) e Cons. phil. II I 5, 7 e 12 (la f. si prende gioco degli uomini e non ode i loro lamenti), II VIII 3-4 (è più giovevole agli uomini la f. avversa che non la prospera).

S. Tommaso tratta della f. in più luoghi. Considerata dal punto di vista umano essa è o una causa preterintenzionale o l'effetto favorevole parimenti preterintezionale. Perciò in non pochi passi delle sue opere f. si trova appaiata a casus' (v. soprattutto Sum. theol. I 116 1). L'Aquinate osserva, inoltre, che, poiché Iddio non esclude dalle cose né il male, né la contingenza, né il libero arbitrio, si deve dire che " ordo divinae providentiae exigit quod sit casus et fortuna in rebus " (Cont. Gent. III 74).

D. presenta la sintesi più elevata della sua dottrina intorno alla f. nel c. VII dell'Inferno (vv. 67-96), sintesi nuova, personalissima. La f. è uno spirito angelico incaricato dalla Provvidenza di distribuire tra gl'individui e i popoli i beni esterni (ricchezza, onori, bellezza, forza, potenza, gloria, ecc.) e di trasferirli di quando in quando secondo i disegni imperscrutabili di Dio. Appunto per questo risultano vane le opposizioni degli uomini, i quali, per non rendersi conto della natura divina della f., talvolta inveiscono ingiustamente contro di lei. Ma lei, incurante delle calunnie umane, anzi sempre lieta perché esegue la volontà di Dio, continua a svolgere il compito che le è stato assegnato (la voce f. ricorre due volte in questo passo, ai vv. 62 e 68). Nella composizione di questi versi D. aveva certamente presenti le pagine di s. Tommaso, come si vede, fra l'altro, dall'accostamento della f. con la Provvidenza. Ma ha svolto l'argomento poeticamente (" E, in questa parte, l'autore, quanto più può, secondo il costume poetico parla ", Boccaccio), avvicinando la f. alla concezione classica: essa, pertanto, è una dea (cfr. Cv II IV 6), che gira la sua sfera o ruota. È notevole, del resto, che questa sia la prima digressione teorica di una certa lunghezza messa in bocca a Virgilio, il quale per l'appunto nell'Eneide, come già abbiamo rilevato, ricorda continuamente la f., identificandola praticamente con la volontà di Giove. Non per nulla il mantovano dice al discepolo: Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche (v. 72). Né mancano nella descrizione le reminiscenze virgiliane (per es. l'immagine dell'angue da Ecl. III 93). La dottrina dantesca, per ciò che riguarda le nazioni e le famiglie (v. 80), riceve il suo compimento in Pd XVI 34-154. Con una ricca esemplificazione Cacciaguida documenta l'opera della f. nella vita di alcune città italiane e, con più minuti particolari, in quella di Firenze, mettendo bene a fuoco la sua disquisizione nei vv. 82-84 E come 'l volger del ciel de la luna / cuopre e discuopre i liti sanza posa, / così fa di Fiorenza la Fortuna. Anche in Mn II IX 8 D. identifica la f. con la Provvidenza: ‛ Heram ' vocabat [Pirro] fortunam, quam causam melius et rectius nos ‛ divinam providentiam ' appellamus, e il medesimo concetto della Provvidenza è chiaramente contenuto in Pd XXVII 145 la fortuna che tanto s'aspetta (l'avvento del veltro). Il concetto, poi, della f. distributrice dei beni si trova anche in Rime CVI 85-92 Come con dismisura si rauna, / così con dismisura si distringe: / questo è quello che pinge / molti in servaggio; e s'alcun si difende, / non è sanza gran briga. / Morte, che fai ? che fai, fera Fortuna, / che non solvete quel che non si spende ? / se 'l fate, a cui si rende?

È parso ad alcuni commentatori recenti contrastare con questa dottrina della f. - Provvidenza un passo importante del Convivio (IV XI 7) intorno alla distribuzione dei beni materiali in cui, a dire di D., nulla distributiva giustizia risplende (§ 6): Che se si considerano li modi per li quali esse [le ricchezze] vegnono, tutti si possono in tre maniere ricogliere: ché o vegnono da pura fortuna, sì come quando sanza intenzione o speranza vegnono per invenzione alcuna non pensata; o vegnono da fortuna che è da ragione aiutata, sì come per testamenti o per mutua successione; o vegnono da fortuna aiutatrice di ragione, sì come quando per licito o per illicito procaccio. In realtà cambia solo la prospettiva, in quanto in questo passo la f., anziché essere presentata come ‛ ministra ' della Provvidenza, è considerata rispetto agli agenti particolari che concorrono nel fatto della distribuzione e dell'acquisto delle ricchezze e, rispetto a questi agenti, ha luogo veramente il giuoco della fortuna. Si noti, poi, che in IV XI 9 disse Aristotile che " quanto l'uomo più subiace a lo 'ntelletto, tanto meno subiace a la fortuna ", la citazione non è di Aristotele, bensì di s. Tommaso (v. Busnelli-Vandelli, ad l.). La stessa prospettiva si ha in Cv IV VIII 9 costoro, che così giudicano, non giudicano se non per quello che sentono di queste cose che la fortuna può dare e torre.

Il tema della f. riveste in D. un'importanza speciale per il fatto che spesse volte s'intreccia con quello dell'esilio. Citiamo anzitutto due passi del Convivio: I III 4 per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata...; IV 10 è da sapere che l'uomo è da più parti maculato... quando è maculato d'alcuno disconcio membro; e quando è maculato d'alcuno colpo di fortuna. In entrambi i passi f. significa " sorte ". Si confronti, poi, con l'ultimo membro del primo passo (che suole... imputata) Pd XVII 52-53 La colpa seguirà la parte offensa / in grido, come suol.

Dello stesso tenore, poi, delle due citazioni del Convivio è il seguente passo dell'epistola scritta in occasione della morte di Alessandro, conte di Romena (II 3): Doleat ergo, doleat progenies maxima Tuscanorum, quae tanto viro fulgebat, et doleant omnes amici eius et subditi, quorum spem mors crudeliter verberavit; inter quos ultimos me miserum dolere oportet, qui a patria pulsus et exul inmeritus infortunia mea rependens continuo cara spe memet consolabar in illo.

E passiamo alla Commedia. Nell'affettuoso colloquio tra Brunetto Latini e D. il vecchio maestro predice per il discepolo l'ostilità aperta dei suoi concittadini: If XV 70-72 La tua fortuna tanto onor ti serba, / che l'una parte e l'altra avranno fame / di te: anche qui f. significa " sorte ". Nella sua risposta D., dopo avere affermato che chiederà a Beatrice la spiegazione di quella profezia e anche delle altre che riguardano la sua vita futura, aggiunge: a la Fortuna, come vuol, son presto. / Non è nuova a li orecchi miei tal arra: / però giri Fortuna la sua rota / ... e 'l villan la sua marra (vv. 93-96). Questi ultimi versi, fondati sul già ricordato insegnamento di Virgilio (Aen. V 709-710) come su quello di s. Agostino (Contra Acad. II 1) intorno alla necessità di resistere alla f. avversa (nota psicologica importante che mancava nei passi riportati del Convivio e delle Epistole), riecheggiano pure il passo di s. Tommaso da D. stesso esplicitamente citato, anche se erroneamente attribuito ad Aristotele (Cv IV XI 9 quanto l'uomo più subiace a lo 'ntelletto, tanto meno subiace a la fortuna). La f., poi, è chiaramente la general ministra e duce di If VII 78, e la rota richiama la spera di VII 96 (in Pg VIII 18, XI 36, XIX 63, XXX 109, Pd I 64, IV 58, VI 126, X 7, XVII 81 e 136, XXVIII 47 D. chiama ‛ rote ' le sfere celesti).

Quanto alla seconda parte del v. 96, c'è chi ha voluto vedere nel ‛ villano ' un'allusione al fortunato villano' della Falterona di Cv IV XI 8, ma il contesto, caratteristicamente paremiografico, suggerisce d'interpretare anche questa frase in chiave proverbiale. Proprio per lo stesso motivo non ci pare accettabile la pur lusinghiera interpretazione di If XV 99 (Bene ascolta chi la nota) avanzata dal Pagliaro (Ulisse 161-184), secondo cui si dovrebbe leggere Bene ascolta chi l'ha nota (il pronome ‛ la ', sempre secondo il Pagliaro, si riferirebbe alla f. e D., nel dettare questo verso, avrebbe avuto presente Boezio Cons. phil. II I 2). Pare, invece, che, come aveva già osservato il Di Benedetto (Antica prosa, pp. 32 ss.), il verso sia una parafrasi di una risposta di Amore in forma di massima nel Roman de la Rose (vv. 2051-56) e ciò conferma la lezione del testo critico. Si veda anche quel che ne dice il Petrocchi (ad l.). D., che già teneva a mente la profezia di Farinata intorno al suo futuro esilio, ricorderà quella di Brunetto e vi aggiungerà più tardi quelle di Vanni Fucci (If XXIV 140-151), di Currado Malaspina (Pg VIII 133-139) e di Oderisi (Pg XI 139-142) per chiederne poi al trisavolo nel cielo di Marte la spiegazione: Pd XVII 25-26 la voglia mia saria contenta / d'intender qual fortuna mi s'appressa. Anche qui, com'è chiaro, f. vale " sorte ". Immediatamente prima (avvegna ch'io mi senta / ben tetragono ai colpi di ventura, vv. 23-24) è evidente il richiamo a If XV 91-96 - ma qui l'intrepidezza di D. è ancora più marcata - e l'espressione colpi di ventura pare riecheggiare volutamente il già ricordato colpo di fortuna di Cv I IV 10.

In alcune occorrenze, poi, cosa d'altronde abbastanza naturale, vi è una reminiscenza classica, per lo più virgiliana: If XV 46 Qual fortuna [caso] o destino / anzi l'ultimo dì qua giù ti mena ? (Aen. VI 531-534); XXX 13 E quando la fortuna [è la F., ministra della Provvidenza] volse in basso / l'altezza de' Troian che tutto ardiva (Aen. III 53, OvID Met. XIII 404); Pg XXVI 36 così per entro loro schiera bruna / s'ammusa l'una con l'altra formica, / forse a spiar lor via e lor fortuna (Aen. IV 402-407, OvID Met. VII 624; f. significa la loro fortuna nel trovare cibo); e ci pare proprio di potere aggiungere, nonostante la cauta riserva del Marigo (p. 99), VE I XII 4 Siquidem illustres heroes, Fredericus caesar et bene genitus eius Manfredus... donec fortuna permisit, humana secuti sunt (Aen. III 15 " dum fortuna fuit "). In Ep VI 19, invece, f., come già presso gli scrittori classici, significa " buona fortuna ": Nec ab inopina Parmensium fortuna sumatis audaciam, qui malesuada fame urgente murmurantes invicem " prius moriamur et in media arma ruamus ", in castra Caesaris, absente Caesare, proruperunt. E qui, pertanto, trova il suo posto l'aggettivo ‛ fortunato ' che ricorre in vari luoghi, in alcuni dei quali vi è anche la reminiscenza classica: If XXXI 115 la fortunata valle / che fece Scipïon di gloria reda, Pg II 74 quelle / anime fortunate tutte quante, III 86 quella mandra fortunata, Pd XII 52 la fortunata Calaroga, XV 118 Oh fortunate! ciascuna era certa / de la sua sepultura (Aen. XI 253, a cui accodiamo Ecl. IV 61 " Fortunate senex "). Vale forse la pena di rilevare che nei due passi del Purgatorio le anime sono dette ‛ fortunate ' precisamente perché sono state condotte a salvezza dalla Provvidenza, sicché anche qui ci si riallaccia alla dottrina fondamentale esposta da Virgilio nel c. VII dell'Inferno.

Nei passi che seguono il contesto porterebbe a vedere solo il significato di " caso ", anche se si può forse riconoscere col Marigo (p. 99) che f. è personificata " in quasi tutti i passi ". Tuttavia in alcuni, in armonia con la dottrina di If VII, si può leggere anche la " Provvidenza ", come difatti fa il Tommaseo. I passi sono: Vn XII 16 ne la terza la [ballata] licenzio del gire quando vuole, raccomandando lo suo movimento ne le braccia de la fortuna (il Di Benedetto chiosa: " rimettendo alla sorte il suo andare "); XVIII 1 e io passando appresso di loro, sì come da la fortuna menato, fui chiamato da una di queste gentili donne; If XIII 98 là dove fortuna la [l'anima feroce] balestra, / quivi germoglia come gran di spelta (Tommaseo: " non caso, ma fato di Dio "); XXX 146 se più avvien che fortuna t'accoglia / dove sien genti in simigliante piato; XXXII 76 se voler fu o destino o fortuna, / non so; Mn II X 5 in quo quidem modo decertandi cum Samnitibus fere fortunam, ut dicam, incepti poenituit; Ep XIII 5 viros fortuna obscuros.

Ricordiamo finalmente alcuni significati speciali: le " condizioni esterne determinate dalla sorte ": Pd VIII 139 Sempre natura, se fortuna trova / discorde a sé... fa mala prova; " esito ": Mn II IX 7 gentiles... iudicium a fortuna duelli quaerebant; " danaro ", " rendite " (senso comune nel latino classico e medievale e in francese antico: cfr. Du Cange): Pd XII 92 la fortuna di prima vacante; la " Fortuna Maior ", una delle 16 figure degli indovini: Pg XIX 4 quando i geomanti lor Maggior Fortuna / veggiono in oriente; " procella ", " fortunale " (come in francese antico): Rime LII 5 sì che fortuna od altro tempo rio / non ci potesse dare impedimento; Pg XXXII 116 ond'el [il carro] piegò come nave in fortuna; e v. oltre per la rima equivoca di Detto 114.

Andrebbe ricordato un passo di Rime dubbie VIII 11 Né quella ch'a veder lo sol si gira, / e 'l non mutato amor mutata serba, / ebbe quant'io già mai fortuna acerba (" sorte crudele ", Contini). Ma, secondo il Barbi (" Studi d. " I [1980] 59), le poesie del supposto carteggio con Giovanni Quirini " probabilmente sono tutte falsamente attribuite all'Alighieri ".

Nel Fiore la f. è sempre personificata. Com'è da aspettarsi, essa s'avvicina, come concetto, alla capricciosa dea pagana (XXXV 8 e 12, XXXVI 13, XXXVIII 12, XLI 10, XLIV 5, XLVIII 4). Nel Detto f. ricorre due volte con la solita rima equivoca: 113-114 Lo dio dov'hai credenza / non ti farà credenza / se non come Fortuna. / Tu se' in gran fortuna / se non prendi buon porto / per quel ched i' t'ho porto. Nella prima occorrenza f. è la dea, nella seconda vale " fortunale ".

Per le osservazioni dei commentatori antichi sulla dottrina dantesca intorno alla f., si veda anche DESTINO. La questione è stata studiata accuratamente anche da V. Cioffari (op. cit.). Della dottrina di D. così scrisse polemicamente Cecco d'Ascoli: " In ciò peccasti, o fiorentin poeta, / ponendo che li ben della fortuna / necessitati sieno con lor meta. / Non è fortuna cui ragion non vinca; / or pensa, Dante, se pruova nessuna / si può più fare che questa convinca " (Acerba I 1).

Bibl. - V. Cioffari, The Conception of Fortune and Fate in the Works of D., Cambridge Mass. 1940; ID., Fortune in Dante's Fourteenth Century Commentators, ibid 1944; The Function of Fortune in D., Boccaccio and Machiavelli, in " Italica " XXIV (1947); Zingarelli, Dante II 954 (con bibliografia).