Francesca da Rimini

Enciclopedia Dantesca (1970)

Francesca da Rimini

Antonio Enzo Quaglio
Matilde Luberti

Figlia di Guido da Polenta il Vecchio, signore di Ravenna, F. (o Franceschina) andò sposa, intorno al 1275-1282, a Gianni Ciotto (" zoppo, sciancato "), o Gian Ciotto, Malatesta, signore di Rimini, dal quale ebbe una figlia, Concordia. Innamoratasi di Paolo Malatesta, suo cognato (che aveva moglie, Orabile Beatrice contessa di Ghiaggiolo, e due figli), fu con lui uccisa, tra il 1283 e il 1286, dal marito, che intorno al 1286 si risposò con la faentina Zambrasina di Tebaldello Zambrasi e visse fin oltre il 1300.

Queste sono le pochissime, e generiche, notizie storiche ricavate con grande sforzo dagli studiosi sulla traccia, pressoché esclusiva, della rievocazione compiuta da F., punita con Paolo nel secondo cerchio dell'Inferno dantesco fra i lussuriosi, nel canto V (vv. 82-143). Ad esse si potrà soltanto aggiungere, come probabile, la presunzione che D. possa aver conosciuto personalmente Paolo Malatesta, durante il periodo, dal febbraio del 1282 al febbraio del 1283, in cui ricoprì a Firenze la carica di capitano del popolo. Il racconto dantesco resta l'unica testimonianza antica intorno al dramma di adulterio e di morte consumato alla corte malatestiana, ignorato dalle cronache e dai documenti locali coevi o posteriori. Gli aneddoti e le informazioni di alcuni antichi esegeti derivano sostanzialmente, attraverso una rete visibile di deduzioni fantastiche, dalla casta versione di Dante. Tanto è vero che né Pietro Alighieri (che soggiornò a Ravenna), né i bolognesi Graziolo Bambaglioli e Iacopo della Lana vanno oltre l'identificazione storica degli adulteri protagonisti della rappresentazione infernale. La tradizione leggendaria, che liberamente rielabora il dettato dantesco, ricamandone i rari ed esili dati storici, sembra nascere a Firenze a opera dell'autore dell'Ottimo Commento, il quale tenta di svolgere in pietosa novella il riservato silenzio della protagonista intorno ai dettagli della sua storia, attraverso un paio di modeste precisazioni (la prima, in chiave di circostanza attenuante, che il matrimonio tra F. e Gianciotto fosse stato contratto per " più fermezza di pace ", cioè per pacificare le famiglie rivali dei da Polenta e dei Malatesta; la seconda, di tono novellistico, che della notizia dell'adulterio tra i due cognati Gianciotto fosse stato informato " per alcuno familiare "). Questi accenni confortano la fortunata amplificazione narrativa compiuta dal Boccaccio nelle sue Esposizioni con l'aiuto di altri ingredienti, di natura più propriamente letteraria, quelli desunti dai cicli romanzeschi di Brettagna. La versione si dilata nei dettagli narrativi e in forza patetica: non solo F. fu sposata per ragioni politiche a un uomo sozzo, ma addirittura venne ingannata nella promessa di matrimonio, nel senso che credette di sposare il " bel Polo ", del quale si era già innamorata, mentre questi era solo il ‛ procuratore ' matrimoniale del fratello. In questa cornice da romanzo cavalleresco tristaniano, la scena dell'adulterio e della strage si colora di movimento cronachistico e di pietà melodrammatica. Con ogni probabilità, in assenza di altre notizie, il Boccaccio si è servito per la sua tela (" l'ultima novella composta dal grande certaldese ", Torraca) delle ambages arturiane; ma anche se si fosse limitato ad adornare di qualche fiore letterario le tradizioni orali ravennati, è indubitabile che si tratti di affabulazioni discese dai versi danteschi, e probabilmente (le intuizioni del Foscolo e di C. Ricci capovolse e chiarì E.G. Parodi) da un'equivoca, favolosa interpretazione deduttiva dell'oscuro emistichio e 'l modo ancor m'offende del v. 102. Comunque sia di ciò, il silenzio di Benvenuto (che traduce, senza altro aggiungere, la stringata annotazione dell'Ottimo) e dei più rigorosi cronisti romagnoli antichi e recenti conferma che si tratta d'incrostazioni fantasiose che a loro modo denunziano, in forma sgargiante e pericolosa, il successo riscosso, fin dal suo apparire, dall'episodio dantesco. In verità, prima ancora della morte di D. e in proporzione via via crescente lungo tutto il Trecento, la figura e le parole di F. avevano largamente incontrato i favori della sensibilità medievale. Ne fan fede non solo le forzature esegetiche, ma anche le imitazioni, i riecheggiamenti, le modulazioni di quei versi danteschi, che dalle rime di Guido Novello da Polenta (il protettore di D.) trascorrono ai romanzi giovanili del Boccaccio, si diffondono nell'Africa e nel Canzoniere del Petrarca sino alla consacrazione dei due lussuriosi nel Triumphus Cupidinis. Ma non si creda per questo che l'episodio uscisse dalla Commedia per vivere autonomo, anticipando la drammatizzazione teatrale compiuta dalla cultura romantica: esso attraeva per il colore della ‛ storia ' violenta non meno che per il linguaggio amoroso della confessione, con i quali D. affrontava il primo scontro con il peccato infernale. Così che, tanto per addurre l'esempio più significativo, quel Boccaccio che sviluppa in novella i magri accenni danteschi, senza indulgere so da D. nei riguardi dei lussuriosi, precisando che la pietà che l'invade non è rivolta ai dannati ma a noi stessi, come un invito morale alla compunzione onde evitare quelle colpe, e commentando la più famosa terzina (vv. 100-102) con una lunga chiosa sulla " materia d'amore ", estratta dal commento di Dino del Garbo a Donna me prega del Cavalcanti (e tradotto, ovviamente, in volgare). Alla fine si ha l'impressione che l'indulgenza narrativa verso il romanzo di F. piuttosto che da intenti assolutori della colpa (come avvenne nella critica romantica), muova dall'esigenza di completare con quella dell'esempio recente le storie, già narrate con abbondanza di particolari, degli eroi, classici e medievali, che precedono F. e Paolo.

E tuttavia l'invenzione del Boccaccio, filtrando attraverso le non rilevanti attenzioni prestate all'episodio dai lettori successivi, fu raccolta e strumentalizzata per altri fini dalla critica ottocentesca che di essa si servì per conferire alla protagonista un profilo eroico di donna peccatrice incolpevole, sconosciuto alla creazione dantesca, sollecitando una serie di proposte interpretative del dramma che forse non hanno l'eguale nell'esegesi degli altri canti della Commedia. Ripercorrerle, sia pure lungo la linea essenziale che conferisce loro una precisa direzione critica (e, quindi, omettendo vari numeri della sterminata bibliografia), significa non solo seguire da vicino lo sviluppo della nostra civiltà e storiografia letteraria, ma anche, per via di successive approssimazioni, attraverso un bilancio tuttora aperto, avvicinarsi alla ricchezza problematica della raffigurazione dantesca, che puntando su una vicenda in sé comune, se non banale, racchiusa entro termini sentimentali elementari (passione, morte, dannazione, pietà), risolve l'incontro con i lussuriosi nella ricchezza morale e poetica del proprio mondo.

L'atto critico di nascita del ‛ nuovo ' personaggio sorto dai versi danteschi è rappresentato dalle poche pagine del Foscolo, tanto carenti nell'imprecisa impostazione storica dell'episodio (alla trasformazione in mito della leggenda boccaccesca si aggiungono le lacune d'informazione sui rapporti tra D. e i da Polenta), quanto grondanti di pregiudiziali e sovrapposizioni autobiografiche e psicologiche, nelle quali si urtano l'idealismo e il realismo romantico-borghese. Eppure, tra le sfasature novellistiche e le causali aneddotiche, affiorano da questa lettura rapsodica talune felici intuizioni, le quali più che da un'attenzione disinteressata al testo dantesco si sviluppano da una partecipazione ortisiana, in chiave drammatica, all'amore dei due cognati, narrato da D. " con arte attentissima a non lasciar pensare all'incesto. La colpa è purificata dall'ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti que' versi la compassione pare l'unica musa ". Con l'esegesi il Foscolo, polemico nei riguardi dei commentatori precedenti (per es. il Magalotti), mira a salvare della rapprentazione dantesca l'immedesimazione tra finzione e verità, tra ideale e reale, a cogliere nella tramatura stilistica e metaforica e immaginifica l' " armonia soane innamorata ", esaltante l'anima femminile sopra ogni volgarità; di fronte alla quale persino la giustizia divina sembra flettersi, permettendo ai miseri amanti di rimanere eternamente uniti. Accostata per i suoi immortali attributi femminili all'ideale romantico delle grandi donne del passato (Saffo, Eloisa, Ghismonda, Giulietta), la creatura di D. " non si giustifica, né si pente "; chiama " felice il tempo del suo passato e gode della sua bellezza "; tinge di eroico il suo amore, tanto è vero che, pur dannata, non si sente indegna d'inviare " preghiere e lagrime a Dio ". In lei, perché donna, la profondissima passione si tragicizza, in Paolo si scioglie, per ragioni artistiche, in pianto: " il sublime scoppia da quel silenzio, nel quale sentiamo profondo il rimorso e la compassione di Paolo per lei che tuttavia nella miseria gli ricordava ‛ il tempo felice ' ". La storia dei due sfortunati amanti lievitò nell'anima e nella fantasia di D., " il primo, unico, vero protagonista " della Commedia, suscitandovi un'immensa pietà per quel destino infelice, al punto che piuttosto che denudare tragicamente la storia, intese riscattare con il conforto della poesia la sciagura dei Malatesta.

L'intervento del Foscolo coincideva con il lancio, compiuto dalla nostra cultura protoromantica, di una F. eroina di un amore travolgente e passionale, interprete psicologizzata delle istanze borghesi, delle rivendicazioni ideologiche del tempo. La letteratura romantica s'impossessò del personaggio e lo estrasse con decisione, mitizzandolo, dal poema dantesco, forzando la mano alla critica ottocentesca che pur si affaticava con maggiore obiettività storica a ritagliare una figura concreta e sensibile di eroina. Allontanata dalle ragioni morali e strutturali del testo, la F. del Foscolo usciva indenne dalle prime dissezioni aneddotiche della critica erudita e positivistica, tutte, più o meno, dipendenti criticamente dall'impostazione foscoliana, e approdava al saggio di F. De Sanctis, condizionandolo nelle premesse (si pensi all'accostamento con Ugolino) e sovente anche nelle risultanze critiche, che qualche volta si spingono a coincidere verbalmente. Il saggio desanctisiano storicizza il mito romantico della donna nella poesia, partendo da un'analisi della figura dantesca che preliminarmente rifiuta le causali esterne e biografiche care a un Foscolo o a un Ginguené (anzi quei " perché ", quei " forse " sono ridicolizzati) e si concentra tutta su F., " la prima donna viva e vera apparsa sull'orizzonte poetico de' tempi moderni ", in quanto " è donna e non altro che donna, ed è una compiuta persona poetica, di una chiarezza omerica. Certo, essa è ideale, ma non l'ideale di qualcos'altro, è l'ideale di se stessa, ed è ideale compiutamente realizzato ". A questa caratterizzazione poetica assoluta, metastorica del personaggio, si affianca un'osservazione che riconduce acutamente al testo della Commedia: " Francesca non è nata se non dopo una lunga elaborazione nelle liriche de' Trovatori e nella stessa lirica dantesca ", attraverso la trasformazione degli epiteti usuali nella poesia del tempo (" amore, gentilezza, purità, verecondia, leggiadria ") in " vere qualità di persona messe in azione ". Le predilezioni romantiche del lettore ottocentesco si spiegano nell'istituzione di un parallelo F.-Beatrice, che si risolve in un contrasto favorevole poeticamente alla prima, " essere fragile, appassionato, capace di colpa e colpevole ", e conchiude con la convinzione che D. ha trovato nell'Inferno la donna che cercava in Paradiso.

Quanto alla caratterizzazione psicologica del personaggio, pur echeggiando, talora letteralmente, le intuizioni foscoliane, il De Sanctis piuttosto che nobilitare in F. la coscienza della colpa vi sottolinea il contrasto tra l'ardenza della passione e la consapevolezza del peccato, dal quale si genera irresistibile la pietà di Dante. Ella personifica in assoluto, senza interferenze di altra natura, l'onnipotenza e la fatalità della passione amorosa che la travolse e travolge come " fragile fiore ": archetipo delle eroine-vittime del mondo moderno, è donna nella misura in cui è vinta da questa passione, e la confessa senza attenuanti e ostentazioni, purificandola con il candido pudore e la gentile delicatezza del sentire. La terra e l'Inferno si mescolano nel suo racconto " entro un'aura di tenerezza e di dolcezza che alita per morbidezza e direi quasi mollezza femminile ": al centro del ricordo si legge, tra la splendida motivazione dei vv. 100-107, l'" eterno romanzo dell'amore ", esposto con una castità, una misura (" non un lamento, non un rimprovero, non un rammarico, non disdegni, non movimenti patetici "), che se vela " le nudità del cuore " provoca, non solo in D., partecipe meditazione. Al di sotto di quello stile lapidario freme la voluttà del " piacere ", entro quel ricordo c'è un'anima che " ha amato ed ama ed amerà e non può non amare ". La vera protagonista, e unica, del canto ha nel cuore e dinanzi agli occhi Paolo, che è l'espressione muta dello stesso sentimento, " la corda che freme quello che la parola parla ": l'arte dantesca ha sensibilmente rappresentato la forza di questo amore, ponendo eternamente l'uno accanto all'altro i due attori. Ma soltanto nella donna che rievoca è viva la coscienza del peccato che drammatizza l'innamoramento in fatale tragedia con fremiti e gridi sensuali: " È gioia ed è dolore, è amore ed è peccato, è terra ed è inferno, è l'amarezza dell'amore che ha per dote l'Inferno, è la voluttà dell'Inferno che ha per soggiorno l'amore: è un sentimento complesso che non ha parola. È la contraddizione, è il cuore nei suoi misteri, è la vita ne' suoi contrasti, è paradiso ed inferno, è angiolo e demonio: è l'uomo ". Di questa tragedia, folta di silenzi e di misteri, " musa è la pietà, pura di ogni altro sentimento, corda unica e onnipotente, che fa vibrare l'anima fino al deliquio ", è D. stesso, che assorto inizialmente in una fantasia dolce e amara, è commosso dalla delicata e struggente figura sino a svenire.

Così, con la felicità smagliante di un suggestivo formulario critico, il De Sanctis condizionava non pure le mediocri appendici dei lettori immediatamente seguenti, ma l'intero arco della critica idealistica e decadente, influenzando decisamente anche le impostazioni moderne. Mentre la critica erudita si affaticava modestamente al ricupero dei termini storici dell'episodio, F. avanzava, protetta dalla giustificante simpatia scorta nell'atteggiamento del suo ideatore, in prima fila tra le peccatrici redente ed espianti, fragili e celestiali della letteratura ottocentesca (Manon, Violetta, Madame Bovary), abbandonando la matrice trecentesca per la dialettica amore-morte, sostanziata delle antinomie più tipiche e sgargianti del costume moderno (peccato-innocenza, assoluzione-condanna, angelo-demonio).

Nelle proposte immediatamente successive colpiscono gli elementi preterintenzionali delle conclusioni psicologistiche: come, nell'interpretazione di A. Ròndani, che trasforma F. in una creatura " passiva e serena ", priva di ire e sdegni, l'osservazione che il " color locale " dell'episodio è opera della citazione della canzone guinizzelliana, addotta da una gentildonna del Duecento che filosofeggia amabilmente sfoggiando la propria cultura erotica e boeziana, ed espressa in forma grave e tranquilla come un articolo di codice amoroso. Altri (L. Morandi) intravvedeva nell'accusa al libro traditore l'intenzione da parte di D. di scagionare o almeno attenuare la colpa dei due cognati, anche se poi attribuiva la grave condanna infernale al proposito del poeta di far così " perdonare e quasi dimenticare la colpa ". Insieme alle esasperazioni romantiche in direzione desanctisiana (basti rinviare all'inno del Romani e all'apoteosi del Donadoni) si affacciavano tra le maglie delle sovrapposizioni arbitrarie, deformanti o convenzionali, impressioni e indagini sul sottofondo culturale della storia di F.: il Cipolla accostava la F. di D. alla Didone di Virgilio, accomunate, pur in forma diversa, da una morte violenta che suona " punizione all'insulto della pudicizia "; e C. Ricci, benché accecato dallo " splendore psicologico " dell'eroina, che illumina con la sua indefinita verecondia il misterioso incontro con il poeta, dal quale esce moralmente " compatita e scusata " nella colpevolezza, sottolineava nel racconto dantesco la prevalenza della fantasia artistica sulla realtà storica dell'evento luttuoso, i cui particolari sfuggono alla nostra indagine. Oltre procedevano su questa strada, sia pure con indagini indipendenti e tra loro diverse, V. Crescini e F. D'Ovidio, per vari lati anticipando direzioni critiche moderne. Il primo, nell'enfasi di una celebrazione sentimentale, provvedeva a collocare il dramma di F. " nel giro della vita signorile italiana della fine del dugento ", sottraendolo alla leggendaria versione del Boccaccio, sospettata di " falsità e inverosimiglianze ", e ad ambientarlo nel ciclo ideale del libero amore medievale, di marca tristaniana. Entro il gusto della sensiblerie del tempo, D. altera, forse ad arte, la versione del Lancelot nell'applicazione alla storia di F., addebitando a Paolo il primo gesto d'amore che nel romanzo brettone era riferito a Ginevra. Su questa divergenza tra la ricostruzione dantesca e le sue fonti medievali, che ribadiva l'importanza dei legami sotterranei con la tradizione cortese, il Crescini tornava una ventina d'anni più tardi, tesaurizzando le indicazioni offerte dal Torraca, dal Morf e dallo Zingarelli, con un'indagine comparativa d'indubbio peso nell'avvenire della critica. Quasi contemporaneo cadeva il rapido intervento del D'Ovidio, che lucidamente segnalava nella raffigurazione dantesca il proposito d'inserire il libro di Lancillotto e il suo autore nelle circostanze fatali della tragedia di F., onde additare i potenziali effetti moralmente deleteri della letteratura cortese. Il ripensamento, in chiave etico-dottrinaria, di D. ha il significato di un invito a non confondere la bellezza della letteratura con l'immoralità del comportamento illecito e dell'ideologia erronea.

Con l'interpretazione desanctisiana fecero i conti ai primi di questo secolo due specialisti di D. come F. Torraca ed E.G. Parodi. Al primo va il merito di aver fatto implacabile giustizia dell'antica aneddotica, sezionata nelle sue trame letterarie, e di aver sintetizzato e discusso i pochi dati storici e cronistici in nostro possesso relativi ai personaggi implicati nel fosco dramma di Romagna. Ma non meno interessanti appaiono i rilievi più propriamenti critici sul tessuto stilistico del canto, sui suoi interpreti, sulle idee-forza di Dante. Nel ritmo succinto, scavato di parentesi, del discorso pronunciato all'inizio della sua pudica confessione dalla vereconda F., egli non solo metteva in luce la lezione stilnovistica del Guinizzelli, già accolta da D. nelle rime giovanili, ma sottolineava nell'assunzione da parte di F. a causale della colpa, una modifica sostanziale a quella teoria: la peccatrice oppone all'iniziale coesistenza di amore e gentil core l'evento improvviso (ratto) che come una scintilla fece divampare l'incendio della passione adultera. Il linguaggio di una scuola letteraria, trasportato oltre il recinto della convenzione poetica, si allarga cioè a siglare la storia di un amore incestuoso, condannato non solo dalla Chiesa ma anche dalla tradizione cortese. La terzina centrale della professione amorosa di F. denunzia così il pensiero dominante della peccatrice, la fatalità irresistibile e universale di questo sentimento. Dietro a quella parte brevissima, precedente la colpa, della storia passionale che F. espone su richiesta di D., il Torraca colloca la tradizione cortese e cavalleresca nella quale si situa il romanzo arturiano letto dai due cognati, " la chiave magica, la quale le aprì i tesori, a lei prima ignoti, dell'amore ". La scena letta e la scena vissuta comunicano nella rievocazione sino a coincidere in alcuni particolari; ma sono le divergenze tra il libro e il fatto che danno piena la misura della rielaborazione compiuta da D. sul patrimonio della convenzione transalpina, ultima, e più importante di tutte, la sfacciata Ginevra contrapposta alla pudica e succuba Francesca. D. non giustifica, come s'è creduto, la passione dei due cognati, ma invita a comprendere le debolezze e i traviamenti della natura umana, dei quali soffre, insieme al lettore, con umana pietà, quando assiste alla drammatica rievocazione della dolce e passionale F. e al lagrimevole, muto contrappunto di Paolo. Alla radice dell'episodio sta l'impressione personale di D. giovane alla notizia della tragica morte subita dai due amanti: ma negli anni quell'emozione lievitò con la meditazione attraverso letture classiche (l'Eneide, che ne fissa i confini rappresentativi) e medievali (i romanzi di Lancillotto e di Tristano, che governano la scena del repentino innamoramento tramite la lettura). Nel rielaborare sapientemente questo difforme materiale, D. infuse alla ricreazione poetica quella " infinita pietà, che gonfia il cuore mentre la ragione s'inchina alla legge morale e religiosa, e assegna alla colpa la pena ". Al di là di ogni intento moralistico, egli ha combattuto e vinto le formule della convenzione cortese, la loro volgarità e freddezza, con l'arma della passione e della verecondia, creando un tipo nuovo di donna tra l'ideale (Beatrice) e la volubile (Briseida), F. appunto, capace d'immolare la vita e ogni altro affetto in nome di un amore passionale ed eterno, provvista di nuova coscienza della colpa commessa, ricca e varia nel carattere, che dalla gentilezza, dalla riconoscenza, dalla misericordia trascorre al desiderio di vendetta, bruciante quanto l'amore.

Concordando con il Torraca nel ripudio della leggenda boccaccesca, il Parodi verifica sul testo il personaggio di F., presentandolo come un demone di lussuria e di odio, una " creatura parziale e violenta " nella misura in cui è " donna… donna ", in quanto ama " con tutta se stessa e per sempre ". Contro quella che ritiene una pregiudizievole riduzione di F. a donna tenera e soave (De Sanctis), egli propone una donna gridante nell'odio e nell'amore, ardente ed eccitata, affannata e convulsa, invasa e posseduta da un tormento caro e terribile, impetuosamente dominata da quell'amore struggente che invoca tre volte con crescente foga. Al parossismo dei sentimenti F. perviene attraverso la rievocazione raffinata e un po' convenzionale, quale s'addice a una dama di corte, della vita " elegante e gioiosa, vissuta... nei palagi eterni, dove si leggevano i romanzi di Tristano e di Lancilotto, e si cantavano le canzoni d'amore ". Ma quando parla di sé, allora la passione che l'incatena esplode in versi voluttuosi e angosciosi insieme, che ben poco ritengono della verecondia femminile; e la sua voce, al ricordo della tragedia, s'incupisce di paura, di odio e di orrore, si precisa in una furente condanna del marito omicida. Alla selvaggia, parossistica confessione succede la trepida rievocazione dell'innamoramento, situato alla piccola corte di Rimini, " la divina scena del bacio ": sul solco dell'apprezzamento desanctisiano intorno alla viva modernità di F., il Parodi sottolinea la lotta segreta che strazia l'anima della donna, e considera la domanda di D. (che " non perde mai di vista l'alto scopo umano e morale del suo viaggio di espiazione ") un mezzo per penetrare una verità più profonda, che gli consenta il raggiungimento dell'alto scopo etico e umano del simbolico cammino di espiazione. Laddove F. " ripete ancora, laggiù nell'Inferno, coll'incoscienza di un'eco, la massima appresa nelle eleganti conversazioni di corte e nelle melodiose canzoni d'amore ", senza avvedersi " che la raffinata massima trovadorica rende un suono stridente, come di maligna ironia, nel confronto colla terribile realtà della vita, che l'aveva afferrata e travolta ", D., che da saggio e pietoso comprende e scusa anche se giudica, intende il mistero e l'abisso di una perdizione dovuta a " un solo istante, un libro, un nulla ".

Quanto di nuovo contengono questi due saggi non promosse una svolta decisiva nella tradizione ermeneutica. Tanto più che le poche pagine dedicate all'argomento da B. Croce finirono per riproporre l'interpretazione desanctisiana. Ribadita esplicitamente l'assoluta separazione tra la rassegna dei lussuriosi antichi e recenti (un catalogo estraneo alla poesia) e l'incontro D.-F., il Croce riproponeva al centro dell'episodio il sentimento dell'" umana fragilità " dell'eroina in preda a un amore " pieno, reale: brama, senso, soavi e delicate fantasie, estasi di beatitudine, languore, abbandono, perdizione ". Se da un lato avverte nell'idealizzazione dell'amore compiuta dalla letteratura occitanica e dallo Stil nuovo, con i loro eroi e le loro massime, l'insidia che danna F., dall'altro sottolinea di questa storia amorosa gli elementi sensuosi e terreni, in apparente contrasto con " il sentimento dell'aristocratica finezza, con quella cultura che alla fine è complice della passione ". Così che il giudizio intorno all'atteggiamento del poeta (" Dante, come teologo, come credente, come uomo etico, condanna quei peccatori; ma sentimentalmente non condanna e non assolve: si sente interessato, turbato, gli occhi si gonfiano di lagrime, e infine vien meno dalla commozione ") ripresenta la frattura aperta dalla critica ottocentesca, elevando la tragedia dell'amore-passione a significato lirico-drammatico dell'episodio, eccezionale anzi unica denunzia, nel poema dantesco, di un'" ebbrezza dei sensi e della fantasia " che D. subisce " affascinato e prigioniero nella cerchia di Eros ". Sull'altro versante si svolge quasi contemporaneamente la polemica ingaggiata da G. Busnelli contro questo tipo d'interpretazione: alla quale egli oppone una F. impenitente che proclama con l'aspro gusto della disperazione e della vendetta le ragioni del suo pervertimento razionale e morale, in forza del quale D. la condanna secondo i precetti dell'etica aristotelico-tomistica tra gl'incontinenti. Dalla sua storia di amore, morte e dannazione il moralista con foschi lampi di esecrazione ricava una lezione etica.

Era questo del Busnelli un chiaro segno d'insofferenza verso il cliché del personaggio, che conteneva per l'attenzione prestata alla moralità del canto i germi di un rinnovamento critico. Al mondo etico e religioso di D. si richiamerà di lì a poco anche la polemica di G. Trombatore contro la deformazione dell'episodio a un " trionfo d'amore ", di F. confusa tra storia e arte, dell'atteggiamento di D. limitato a pietosa partecipazione. La più felice intuizione del suo saggio è costituita dall'esigenza di riportare l'episodio nell'orditura generale del poema, stabilendo preliminarmente che nel canto dei lussuriosi F. non può che essere l'esperienza concreta di un errore umano, e la sua tragedia una tappa nella storia della redenzione umana percorsa da Dante. Per verificare questo assunto nello sviluppo del canto, il Trombatore, scontento delle proposte del Torraca e del Parodi, segue una strada interpretativa affatto nuova nell'esame delle professioni amorose di Francesca. In esse egli coglie una patente contraddizione tra la nobilitazione dell'amore celebrato dalla filosofia del tempo e i funesti effetti denunziati dalla stessa interprete. Per scioglierla, occorre, secondo lui, distinguere tra l'amore di Paolo (espresso dallo stilnovistico v. 100) e quello di F. (segnato dal passionale v. 103). All'amor gentile del primo corrisponde l'amore terreno, fatale della seconda, che di prepotenza vince sul mite sentimento. Il dubbio di D., perplesso dinanzi alla soluzione, sorge dal fatto problematico di come il peccato possa vincere la virtù, in quale modo e perché un sentimento onesto si possa, per umana debolezza, mutare in illecita passione.

Da una simile impostazione il personaggio di F., attraverso l'esame della biografia erotica abilmente notomizzata dal critico, esce rafforzato nella fisionomia peccaminosa, di seduzione e di colpa. Alla F. svenevole del De Sanctis il Trombatore finisce così per sostituire una donna-demone, non martire ma eroina di amore, prodotto della letteratura ascetica medievale assunto da D. in antitesi alla virtù non con scopi didattici, ma per motivi poetici strettamente inerenti al suo cammino di redenzione morale. All'altro capo, D. Vittorini tende a idealizzare F. e il suo amore, incolpevole perché troncato dalla morte cruenta al momento della rivelazione. D. celebrerebbe con la pietà un amore obbediente ai canoni stilnovistici, redento sentimentalmente per la nobiltà del suo sentire dalla condanna del moralista.

I tempi erano ormai maturi per una revisione critica radicale: che venne, almeno per via metodologica, dagli appunti di M. Barbi, intesi, piuttosto che a fornire una nuova interpretazione dell'intero canto, a diradare i più gravi equivoci che ingombravano, con la varietà delle tesi e delle opinioni, la già sterminata esegesi sull'argomento.

Nell'esame delle più celebri interpretazioni, il Barbi distingue nel Foscolo e nel De Sanctis gli errori d'impostazione dalle intuizioni più felici meritevoli di approfondimento e di sviluppo. Né più convincenti gli appaiono i tentativi posteriori (del Bartoli, del Parodi e del Levi) di caricare di eroica passione la figura di F., fino a giustificare l'intero episodio come una rivalsa dei diritti " umani " contro le leggi religiose (Romani, Corradini). Le salutari reazioni a tali indirizzi in nome del sentire etico di D., riportato alle concezioni del tempo, finiscono per irrigidire la figura di F. in schemi e intenti esclusivamente moralistici (Busnelli), o per forzare la lettera del messaggio dantesco (Trombatore, Vittorini). Al Barbi sembra essenziale, per una retta comprensione dell'episodio, rinunciare a ogni tesi aprioristica (glorificazione delle leggi naturali, esaltazione dell'umano sul divino, rivendicazione della donna nell'arte) e procedere a un'esegesi più cauta e puntuale del testo, a una lettura più attenta e articolata di riscontri testuali. In questa verifica l'esaltazione drammatica della passione adultera cede il posto a una considerazione più distaccata dell'incontro di una donna gentile, che sconta eternamente l'errore di aver sottomesso la ragion al talento, con un rigido, seppur umano, giudice. La dolorosa condizione degli amanti cognati offre la nota fondamentale del canto, canto non dell'amore ma della pietà, quella che coglie D. quando ripensa al male che hanno sofferto e patiscono, al loro breve tempo felice, alle cause, alle circostanze, alle attenuanti della loro perdizione.

Nella rievocazione del passato, che va dai toni appassionati dell'amore a quelli strazianti del dolore, la gentile protagonista si mostra consapevole della colpa e quasi rassegnata al destino, se non fosse che desidera giustificare il suo peccato, chiamando in causa amore, piuttosto che con sentenze dantesche con spiegazioni tramate di fatti e di causali relative, e concluse da un lamento turbato che promuove la pietà, resa ancor più intensa dalla concordanza intima di quelle proposizioni amorose nel pensiero di D. e nella formulazione della peccatrice. Appunto perché richiamano la dottrina cortese e cavalleresca cantata in gioventù, quei paradigmi turbano D., che si ripiega meditabondo in sé a considerare il problema umano e morale dell'errore e della perdizione. Qui s'innesta la seconda parte, strettamente congiunta al resto del canto dalla volontà dantesca di scrutare sino in fondo, per comprenderla, i modi e le forme della sciagurata storia. Nella quale, più che gridi di passione o di gioia disperati avverti lo sgomento di F. che, senza rinnegarlo, sente il peso e la dolcezza di quanto è avvenuto, senza inebriarsene, ché a lei, peccatrice, la miseria del presente, sottolineata dal disperato pianto di Paolo, vieta simili slanci, ma tentando di giustificare il proprio fallo, di addossare al libro e al suo autore una parte non secondaria della sua colpa. Anche nella seconda parte dell'episodio il sentimento fondamentale è " una grande commiserazione della fragilità della natura umana ", illustrato dal contegno triste e pensieroso del poeta.

Spento il " trionfo d'amore " nelle note dolenti della pietà, M. Casella s'affatica a precisare il sentimento dantesco come ansia di comprendere il dramma dei due cognati e come dolorosa esperienza personale nel mobile tessuto del canto che segna la prima conoscenza del poeta dell'anima umana nella sua individuale concretezza. La storia di F. è il mistero di un'anima che sfugge alle cronache curiose e pettegole, restando tutto affidato, nel disperato tentativo di giustificazione da lei compiuto, alla pietosa tenerezza di Dante. All'origine dell'oscuro e inestricabile nodo di contraddizioni nel quale si avviluppa la sua difesa sta un principio universale, trasmesso dal pensiero scolastico alla poesia stilnovistica, la fatale necessità della legge di amore, dal piano religioso degradato su quello mondano. D. si china turbato e tenero a ritrarre una creatura povera e infelice, che malinconicamente sospira e piange ripensando al bene perduto, e attesta nell'ansia della rievocazione la tragica disperazione che la consuma. La genesi drammatica è costituita da solo un punto, laddove coincidono vita e letteratura, e la protagonista rivive la personale vicenda di passione entro l'intreccio del romanzo di Lancillotto, dal quale ha " colto l'aspirazione fondamentale di ogni anima femminile: il compiacimento della propria bellezza, quando sia assunta a movente di vita spirituale da un cuore nobilmente generoso e audace e forte ".

Lo " scempio di Francesca " (Romagnoli) continuava dunque tra gl'incerti passi delle nuove proposte e le resistenti reazioni conservatrici della corrente tradizionale. Si riveda il profilo del personaggio, disperato, sanguigno e passionale disegnato con linee marcate da M. Rossi nel suo esame del canto dell'amore-rimorso, dove la problematica affacciata dal Croce intorno alla catarsi morale dell'episodio è affrontata e configurata entro le categorie della poesia (costituita dalla tragedia dell'amore-passione) e della non poesia (nella quale è collocata l'estrinseca e astratta condanna del teologo-moralista). Le puntate polemiche contro l'impostazione del Barbi, reo di aver rinchiuso la poesia di F. negli schemi strutturali, è il risvolto negativo di una decisa valorizzazione del personaggio poetico che mette in ombra la struttura e vince con la sua concretezza sull'astratto della costruzione dantesca. Stentatamente procedeva anche la critica specialistica sulla via dei rinnovamento critico: utilmente B. Nardi concludeva il suo saggio intorno alla filosofia dei rimatori italiani del Duecento (tra essi D.) con l'esame delle proposizioni teoriche allegate dall'adultera della Commedia, che si difende e accusa filosofeggiando con serrati sillogismi riecheggianti concetti guinizzelliani e cavati dalla teorica amorosa della lirica d'arte, inclusa quella dantesca. Nonostante premetta che D. ha compreso il doloroso dramma d'amore che in lui ridesta il ricordo della giovinezza poetica, il critico non esce dal circolo della tradizione ottocentesca mediata attraverso il Croce: ci presenta un D. dilaniato tra opposti sentimenti, responsabili del carattere tragico dell'episodio (" una storia di passione e di peccato "), e una F. ardente della passione cantata dai poeti e meritevole della pietà che si concede a chi ha errato per debolezza umana. Il tentativo di approfondire il carattere della raffigurazione dantesca, urtando di fronte al contrasto interno a D. tra il sentimento della pietà e la nuova coscienza morale, al quale corrispondono insieme la compassione e la dannazione degli amanti, non va oltre l'intuizione conclusiva, che il poeta insieme a F. e Paolo " dannava quanto v'era d'insidioso nella dottrina della fatalità dell'amore, di cui s'ammantava quella raffinata sensualità ".

Ancor meglio riflette questa situazione critica incerta e contrastante il più pregevole commento del tempo, quello curato da A. Momigliano, tra i primi e più sensibili lettori attenti all'unità tonale del canto, allo spettacolo " minaccioso, rapido, di ritmo tragico " con il quale si apre, e all'atmosfera tempestosa, di paura e pietà, che avvolge il cammino dei due poeti. Al catalogo degli amanti lussuriosi, toccato dalla patetica partecipazione di D., egli riconosce soltanto una funzione pittorica, come " uno sfondo indefinito " dal quale poi si staccano le figure dei due amanti moderni, vittime dell'amore per le quali D. sente un " fascino " di tipo romantico. Il problema, a suo dire troppo " ricamato " dalla critica precedente, dei rapporti tra la punizione e la pietà dantesca viene sostanzialmente eluso con la motivazione che " Dante nell'Inferno è insieme giudice e uomo, che capisce quanto sia male peccare e insieme quanto sia difficile non peccare ". Al suo finissimo gusto non sfugge la bellezza dei vv. 88-96 (" il preludio di tutta la storia "), che " sono come la mozione degli affetti, l'inconscia seduzione femminile che Francesca esercita su Dante "; ma nelle tre famose terzine (vv. 100-108), velate dall'esaltazione romantica nella loro natura oratoria, egli vede proiettarsi all'esterno, su uno sfondo un po' scenografico, le note dominanti dell'incontro, " la dolce e la tragica ". F. campeggia come grande e autentico personaggio soltanto " per una parte della sua storia ", accarezzata dalla simpatia di D. (un segno palese sarebbe nella sua eterna unione con Paolo), che la tratteggia con segni gentili e pietosi, fino a stingerla, quando ella sentenzia e stilnoveggia, con " lirismo enfatico ", con qualche " fiorettatura ". Ella emerge poeticamente nelle parole di morte e di passione, intrecciate indissolubilmente con il procedere epigrafico e sentenzioso del suo racconto; e si anima quando le sue parole risuonano della delicata pietà di Dante.

Altre letture si potrebbero affiancare a questa, di tono romantico, ma tutte inferiori di gusto e di sensibilità. Conviene perciò accennare almeno al tentativo compiuto da P. Carli di sondare il segreto dell'assorta meditazione di D. di fronte ai ricordi e ai rimpianti di F., raccolti al culmine dell'episodio intorno ad Amore inteso nell'accezione guinizzelliano-stilnovistica. Il problema che assilla D. è quello per il quale egli reinterroga F.: come un sentimento così alto e puro abbia potuto condurla alla dannazione. Ed è qui che F. si fa personaggio, allorché dipinge con i colori del costume borghese del tempo la dolorosa vicenda che doveva condurla dal tempo felice dei dubbiosi disiri alla loro rivelazione, che li tramuta in passione e in miseria. Per quanto mantenuta sul piano lirico-drammatico della tradizione, la lettura del Carli si raccomanda per lo sforzo di verificare sul testo l'intuizione del Barbi, seguendo dall'innocenza del segreto alla colpa dell'adulterio il personaggio di F., costruito dal giudizio pietoso e giusto dell'uomo-D., " attore e spettatore nel gran dramma da lui medesimo creato ".

S'inaugura ora un'indagine più complessa del canto e della protagonista, per un ricupero dei loro tratti problematici alla ricerca dei rapporti multipli ricorrenti tra arte e moralità e dei legami interni, per provvedere all'inserimento dei motivi ideativi e figurativi nel vasto mondo della Commedia. È indicativo in questo senso che le proposte critiche del Pagliaro e del Caretti siano apparse indipendentemente quasi allo stesso tempo, e si siano concretate, nel primo caso, in una nuova proposta esegetica al più tormentato verso e in una lettura del canto; nel secondo, in due letture, tra loro intervallate da una quindicina d'anni. Entrambi seguono l'episodio passo a passo, dall'apertura del canto fino alla sua drammatica conclusione, sui vari piani dell'ideazione dantesca, cercando di discuterlo punto per punto alla luce delle antiche e più nuove proposte.

Il Pagliaro insegue la tematica della passione amorosa accompagnata dalla morte, incarnata, secondo il gusto di un medievale romanzo d'amore, nelle donne antiche e nei cavalieri, e parallelamente il crescere della pietà del poeta-uomo nei riguardi del castigo inflessibile inflitto dalla giustizia divina ai peccatori di lussuria. In tale cornice si presenta, personaggio liricamente atteggiato alla gentilezza, F., quest'eroina da romanzo dugentesco, che concentra i tre momenti della sua vicenda sentimentale in una terna di terzine, che in tanto svelano l'amore eterno dei due cognati e il loro rimpianto per la vita terrena come età felice del loro rapporto, in quanto situano la passione nell'ambito delle dottrine accolte dalla poesia stilnovistica. La perfetta simmetria di queste terzine definitorie si ottiene solo interpretando rettamente il discusso emistichio e 'l modo ancor m'offende: che il Pagliaro (su un'intuizione del Buti e del Landino; e meglio ancora sulle orme del Moschetti, che si era appoggiato al commento del Venturi) spiega con una chiosa (" e la violenza di tale amore fu tale che ancora mi vince "), che inquadra in nuova luce l'episodio, in quanto chiarisce il proposito da parte di F. di affermare la forza irresistibile e la continuità del suo amore per Paolo, vittoriose su ogni altro affetto umano. Escluse le deviazioni romantiche del De Sanctis e del Momigliano, l'unione dei due amanti nell'Inferno è spiegata dall'eternità del loro amore, che li inchioda come una ferrea necessità: entro tale legge F. propone la giustificazione della lussuria come conseguenza fatale di Amor, incatenando in un ferreo sillogismo le tre terzine. Nemmeno quando predice il castigo del marito omicida la protagonista esce dalla " sua fisionomia di donna perduta nell'amore ", viva e vera secondo le regole del codice cortese medievale: in lei non alberga odio, ma soltanto il desiderio di chiudere, quasi spersonalizzando e disumanizzando la tragedia, l'infelice vicenda di amore e morte. La stessa pietà dantesca non implica né condanna né assoluzione: la raffigurazione dei due amanti uniti insieme per sempre trova in sé stessa la propria logica poetica, contrapposta com'è a ogni legge umana e divina. Essi si trovano insieme in quanto recano oltre la tomba il marchio dello stesso destino che li ha accomunati nella vita felice e nella morte cruenta. D. ha ricostruito il segreto dramma dei due cognati, a lui noto solo nella catastrofe finale, attraverso la propria concezione dell'amore, nella cornice dei costumi, dei gusti, dei moduli della convenzione cavalleresca. Ma insieme ha resuscitato la maniera letteraria alla vita, intrecciando i motivi filosofici e intellettualistici dell'amore con le forme cortesi del rapporto sentimentale in una sintesi lirico-psicologica. La sua pietà si accompagna a una sorta di " perplessità intellettuale ", prodotta ancora più che dalla severità del castigo divino, dalla forza travolgente che ha vinto i due cognati: il dramma si svolge infatti tra i poli opposti " dell'amore colpevole e della sanzione inevitabile ". Di qui la domanda del poeta intorno all'amoris accensio, prevista dalla casistica medievale, riscaldata di umana simpatia, di partecipazione affettiva, che quasi condiziona la risposta di F., fine e gentile come l'ambiente signorile nel quale avviene la scena dell'innamoramento. Il vero pericolo, la molla della seduzione è il romanzo di Lancillotto, aperto su una sua celebre pagina: e il desiderio di F. si scarica su quella lettura. Ma l'analogia tra letteratura e vita cede alle divergenze, non solo contenutistiche, tra la figurazione brettone e la ricreazione dantesca: dalla scena galante e avventurosa del romanzo si passa a un evento più vibrante e in sé fatalmente definitivo per la vita terrena e oltremondana. La drammatizzazione della scena d'amore compiuta per volere di D. da F. respinge l'istanza intellettualistica che l'aveva promossa. Segnatamente sulle risonanze dell'episodio nei propositi teologico-morali del viaggio dantesco, punta anche l'analisi di L. Caretti (soprattutto nella seconda lettura del canto), particolarmente attenta allo studio della struttura architettonica, della distribuzione delle scene all'interno del canto. Dall'esame tonale prendono rilievo le note essenziali della scena squallida e allucinata nella quale D. scopre per la prima volta nel suo viaggio, con orrore ed emozione, l'implacabile realtà dell'eterna pena, che sono " l'impotenza dei dannati e l'ineluttabilità del giudizio divino ". Ancor prima dell'incontro con gli amanti di Romagna, scoppia in D. la crisi interiore dell'uomo posto dinanzi all'oscuro abisso in cui precipita l'umana fragilità, e si produce il fondamentale contrasto tra il personaggio-peccatore e il poeta-giudice. Attraverso la rassegna degli antichi amanti il poeta acquista difatti conoscenza specifica, ossia chiarisce a sé stesso, dei termini dell'opposizione tra l'amore sensuale e il dolore che fatalmente ne consegue, sfociante cioè nella giusta punizione divina, ma non per questo immeritevole di compassione. Sotto il segno di " amore e morte " sfilano i rappresentanti-idoli di quella letteratura cortese che con le sue gentili lusinghe, le sottili blandizie, i leggendari e splendidi miti, denunzia " la fragile trama e il precario destino delle sue eleganti invenzioni, si raggela nel suo impeto passionale e si smaglia all'urto tragico del sangue ". In questa cornice dorata di cortesia e listata di peccato s'iscrive la luttuosa storia dei due amanti medievali, nella quale D. scopre, fuori di ogni illusione, nella piena della pietà che l'invade, " l'amara verità delle passioni umane " nelle forme ambigue e lusinghevoli e il funesto esito del loro dominio. F. alterna nella sua professione amorosa sentenze eleganti e dottrinali ad accenti intensi e vibranti quasi a commento del divario tra lo splendore del passato e la miseria del presente. Nel suo stringato riassunto letterario echeggiano le argomentazioni delle dottrine erotiche medievali, assunte da D. deliberatamente nel loro linguaggio di scuola affinché nell'attrice risaltassero il divorzio tra vita sentimentale e vita intellettuale, il dissonante accostamento di realtà e finzione e lo sforzo disperato di " razionalizzare... quanto in realtà fu soltanto impeto dei sensi, debolezza e abbandono ". Per questo F., tanto viva e naturale quando rammenta l'avventura dei sensi, risulta fredda e artificiosa laddove cerca di fornire un alibi giustificativo alla sua colpa e spiegare la fatalità dell'errore. Non c'è dunque contraddizione nella creazione dantesca, sibbene l'intento di riflettere nel tessuto stilistico del discorso la " logica dissociata " di F., di assicurare alla protagonista, tanto incapace di accettare il castigo quanto sinceramente tesa a difendersi con quella letteratura che fino all'ultimo sarà invece strumento di perdizione, la coerenza di personaggio contraddittorio, intellettualmente equivoco e confuso. L'artificiata professione amorosa, addotta a scusante della colpa, nasce sentimentalmente dalla disperazione dell'interprete, costretta alla fine all'amara confessione della propria natura corrotta. Qui D., chiuso in pensoso raccoglimento, partecipa con la pietà che dolorosamente si frange contro la realtà della tragedia, allo scontro tra la forza lusinghevole e il funesto esito della passione amorosa. Attratto ma non convinto dall'argomentare di F., intuendo oltre quelle giustificazioni il penoso " groviglio di sentimenti generosi e di istintive debolezze, di sublimi accensioni e di irreparabili cedimenti " nel quale si avviluppa il cuore umano, D. desidera conoscere la prima radice della passione, la sorgente di quel male. Anche il personaggio femminile si modifica allora nella rievocazione del passato, si ammanta, commosso e dolente, di rimpianti e tristezza, depone il tono ebbro e disperato della giustificazione e si ripiega dolcemente nella memoria del tempo felice, assaporando in tutta la sua amarezza il gusto dello scacco e dell'errore.

La parabola del personaggio F. in favore del personaggio D. era ormai fatalmente segnata dall'attenzione alle polivalenze del testo. Ma del tutto intempestivo, nella sua violenta rapidità, giungeva di lì a poco l'intervento di P. Baldelli nelle discussioni via via più fervide e avvedute intorno all'episodio. Vero è che la polemica eversiva nei confronti di tutta l'esegesi critica precedente muove da preoccupazioni sostanzialmente estranee alla critica dantesca e governate da intenti di genere scenico-spettacolare: tanto è vero che il discorso su F. è la prima puntata di un esame tecnico di personaggi del teatro e del cinema moderno. Quando il Baldelli giudica la storia di F. come un romanzo fantastico, un " idillio medioevale di aristocratica finezza ", è evidente che non intende semplicemente sdrammatizzare l'interpretazione tradizionale, facendo leva sui richiami libreschi (Guinizzelli, Andrea Cappellano, il Lancelot) di marca cortese, ma addirittura distruggere la consistenza del personaggio, sciogliendo i suoi lineamenti in favola, leggera e incantevole per il tratto affascinante " verecondo e carnale ". Sono questi i sintomi di un processo di rinnovamento critico, intuito in forme incerte e discutibili anche dal breve saggio di F. Catalano, che al centro del canto identifica un contrasto tra l'amore sensuale (gridato da F.) e l'amore spirituale da lei teorizzato con dottrine stilnovistiche, benché sorto dal primo per via di sottili suggestioni letterarie.

Si tratta di tentativi, non più che tali: che maturano nella proposta di G. Paparelli (aggiornata dopo circa un quindicennio), debitrice per più lati agli spunti della critica precedente, ma complessivamente rivoluzionaria. Al centro della ricerca egli assume il famoso verso Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse, il quale illumina il significato complessivo del canto ove la pietà e la condanna espresse da D. verso F., piuttosto che urtarsi tra loro, risalgono entrambe all'intenzione del poeta di costruire un personaggio umanamente attraente, per ricavare dal suo destino più validi insegnamenti. All'origine del peccato di F. è lo stilnovismo della sua concezione amorosa, così come alla radice della condanna è la denunzia da parte di D. della poetica di amore e cor gentil, inoltrata tramite l'assegnazione a quella letteratura cortese di una funzione " galeotta ". La vicenda di F., iniziata nell'incanto di una lettura in apparenza innocente e conclusa nel sangue e nella dannazione degli attori, concretizza figurativamente lo scontro tra la vecchia e la nuova poetica di D., significa da parte sua la polemica sconfessione dello stilnovismo giovanile. La fisionomia del personaggio di F., tanto meno eroica e ribelle quanto più cosciente del castigo eterno e delusa della filosofia amorosa che propaganda, è sapientemente prefigurata dalla rassegna degli antichi peccatori di lussuria, evocati nelle loro passioni dalla trasfigurazione della fama e inchiodati al loro destino peccaminoso dalla giustizia divina. D., nel prendere coscienza di questo conturbante contrasto, espia le ideologie di un tempo nell'esemplificazione massima, in F., vittima consapevole degli effetti rovinosi che possono suscitare in anime fragili e gentili le dottrine dell'amor cortese, delle quali, mentre continua a esaltare la virtù, proclama il disinganno. Piuttosto che celebrare o giustificare, ella confessa la colpa attraverso l'amara enunciazione delle leggi d'amore nelle quali ciecamente continua a credere, quale peccatrice incapace di rendersi conto come non quell'amore che lei rende responsabile, ma l'assoluta credenza nell'ineluttabilità delle sue leggi ha deciso del suo destino.

Dei nuovi indirizzi critici si fa interprete equilibrato il fortunato commento di N. Sapegno, che stringe il significato dell'episodio in una rete di complesse osservazioni intorno all'atteggiamento di D., la cui pietà, intesa antiromanticamente nel significato più sfumato di commozione implicante perplessità morale e intellettuale, di " turbamento " originato dalla contemplazione dei funesti esiti dell'errore, avvertita da D. con " una sfumatura di sofferenza e di segreta tormentosa inquietudine ", tuttavia non attenua la sua condanna morale. Con pari equilibrio critico il Sapegno esamina il sottofondo culturale e gli aspetti formali e letterari della spersonalizzazione compiuta con materiali libreschi da F. in una serrata trama sillogistica. Discusse, accolte o respinte le principali tesi esegetiche della tradizione antica e recente, le chiose del Sapegno si dispongono su linee molteplici in un discorso critico che tiene conto della varietà problematica della poesia inserita nell'unità concettuale del poema, e s'industria a restituire all'episodio i suoi valori etici, le intenzioni riposte, deprimendo la statura eroica di F. a favore del personaggio D., che dall'incontro con i due lussuriosi " è condotto a riesaminare e misurare la validità di tutta una posizione sentimentale e culturale, della quale anch'egli ha lungamente accolto le ambigue soluzioni ". La complessità della situazione drammatica impedisce di ridurre il significato dell'episodio allo stato d'animo dei singoli attori, incoraggia a recuperarne il senso più riposto e dolente nel contrasto tra un'anima passionale vinta dal peccato e un'anima protesa a superarlo attraverso un'amara esperienza, impostato dal poeta D. con fini impliciti e sottintesi di " giudizio etico ".

Mentre scende il diagramma della fortuna di F. come personaggio romantico, la figura di D. risale, sdoppiandosi nettamente nel personaggio e nel poeta, per opera di R. Montano. Per rappresentare il proprio cammino sulla via della restaurazione morale e intellettuale, D. mette in scena sé stesso, pellegrino, quando rivive con F. le tentazioni di quel mondo peccaminoso che dagli eroi classici ai cavalieri brettoni si ricollegava, attraverso la letteratura erotica importata dalla Francia in Italia, alle teorie stilnovistiche professate in gioventù, nelle quali l'identità di Amore e cor gentil (affermata da Guinizzelli e ripetuta, sulla sua scia, da F.) avevano creato intorno alla passione amorosa il fascino illusorio della nobiltà e dell'eleganza del sentire. L'incontro drammatico con il male, con F., che ne è l'incarnazione infernale, coinvolge non il poeta ma il viaggiatore D., ancora irretito nei lacci di quell'errore, e perciò invaso da una pietà, ossia da una complice partecipazione al male, che lo conduce allo svenimento, senza tuttavia coinvolgere nella crisi il giudizio morale del poeta. L'autore della Commedia respinge senza esitazioni, condannandola, la letteratura peccaminosa dell'epopea erotica accarezzata in gioventù sotto l'influenza del Guinizzelli e del Cavalcanti, quel mondo leggendario e falsamente ideale di cui F. è vittima e nel quale ella continua a credere come a una valida scusante della colpa commessa. Il pellegrino invece solidarizza con il peccato, ne rivive, attraverso le puntuali citazioni delle fonti, il fascino sottile e ambiguo, ascolta, partecipe, la vicenda ingannevole di un amore cavalleresco che si conclude con l'adulterio, l'omicidio, la dannazione di tutti i protagonisti. Di fronte a F., creatura della gentilezza, la vittima e insieme il simbolo di un mondo d'amore e cortesia, d'illusione che è perdizione, proprio quando ella addita nella letteratura cavalleresca l'origine e la causa del suo tragico destino, il pellegrino sviene perché il poeta intende farlo rinascere a nuova vita.

I nuovi interessi etico-morali che reggono l'interpretazione coerente del Montano sembrano disperdersi nella prospettiva tradizionale dalla quale F. Matarrese guarda alla componente letteraria dell'episodio, nel quale scorge la successione in tre fasi distinte dell'esperienza umana e poetica dell'ideatore: quella dell'amore spirituale, cantato dal giovanile stilnovismo, che rientra nel più capace alveo della tematica cortese, quella dell'esaltazione passionale dei sentimenti, affiorante nelle rime poststilnovistiche (dalle ‛ comiche ' alle ‛ petrose ') e infine quella del rinnovamento cristiano culminante nella finzione della Commedia. Attraverso questi tre momenti F. interpreta e rievoca una storia d'amore sofferta da D. con pensosa partecipazione personale, così che alla fine egli resta umanamente e moralmente colpito dai funesti esiti ultraterreni ai quali conduce un sentimento apparentemente ideale.

La novità del contributo di G. Contini, e la sua importanza, intorno all'annosa questione, non risiedono nella messa a fuoco letteraria e formalistica dell'episodio di F., quanto nell'angolatura critica e nella prospettiva storica secondo le quali vengono collocati i materiali libreschi esplicitamente o nascostamente sottesi al canto. Il discorso del critico s'inquadra infatti in una proposta di lettura più ampia della Commedia, che tenga conto, per quel che concerne D., giusta le sue distinzioni nell'Epistola a Cangrande, dell'agens e dell'auctor, cioè del doppio ‛ io ', l'autore e il personaggio dell'opera e della finzione in essa racchiusa, e conferisce nuova consistenza alle tesi moderne che scorgono nella confessione di F. un'occasione per D. di un riesame contro luce della propria poetica. L' ‛ io ' dantesco che compie l'esperienza esistenziale del viaggio oltremondano è un viaggiatore di eccezione, è un uomo di lettere, un poeta che ha già compiuto svariate esperienze artistiche. In diversi incontri della Commedia, e tra questi quello con F., attraverso la loro dissezione culturale e letteraria, il Contini utilizza questa nozione di D. personaggio-poeta al fine di rinvenire, al di là delle citazioni esemplari e delle regole retoriche, opportunamente messe tra loro in comunicazione, i segni e le trame di polemiche letterarie e professioni critiche. Anche la storia di F., come già avevano sottolineato i lettori più attenti alle dimensioni ‛ retoriche ' del canto, riflettenti il costume erotico della società cortese, è regolata dai finissimi intenti letterari che presiedono ai dialoghi tra D. e i poeti antichi o recenti. Ma a differenza di questi ultimi, F. non è una letterata, bensì un'intellettuale di provincia, una lettrice che coltiva, non produce, poesia, alla quale D. assegna la parte di esporre sul copione retorico d'illustri citazioni un fatto personale. Ella sa con chi parla: citando all'inizio della sua letteraria professione d'amore l'incipit della più impegnativa canzone guinizzelliana, parla ‛ ad hominem ', si rivolge cioè a quel D. stilnovista che aveva riecheggiato la dottrina del Guinizzelli nella Vita Nuova, traendo dal sonetto Amore e 'I cor gentil sono una cosa la legge che codifica la sua avventura terrena e la sua situazione infernale. In bocca sua il libro di Galeotto " diventa strumento di biografia ", approdo a una collana di sentenze, anaforicamente ritmate, con le quali la nobildonna di Romagna situa abilmente la propria colpa al riparo della morale stilnovistica, giungendo a motivarla con proposizioni cavate dalle sue letture dilettantesche d'impronta ovidiana, appunto il De Amore di Andrea Cappellano. F. appare così nella sua natura d'interposta persona: il suo comportamento, il linguaggio e la dialettica dell'argomentare rinviano a D., nel quale si assommano la " complicità affettiva " del viaggiatore e la condanna del letterato moralista, creando la tensione che attraverso pietà e tenerezza si risolve nello svenimento finale. A sciogliere, a spiegare questo processo di " identità e differenziazione " rispetto alla peccatrice e alle sue ragioni provvede proprio la definizione di D. personaggio-poeta: l'uomo di lettere, procedendo nell'Inferno, il luogo dove vince i propri peccati e allontana da sé le tentazioni risorgenti, distacca, contempla e giudica, attraverso F., il vizio della lussuria, supera le dottrine dell'amore cortese e passionale divulgate dallo Stil nuovo e accolte nel libello giovanile, riscatta da ogni suggestione mondana, storicizzandone le tappe, la propria poetica. Dell'itinerario che conduce a Beatrice, all'assolutizzazione dell'esperienza amorosa in Dio stesso, F., nelle vesti di personaggio compassionevole e dannato, è un passaggio obbligato, se non proprio una figura nella quale si concreta la letteraria palinodia amorosa di Dante.

Diverso il cammino critico percorso sulla strada letteraria da F. Montanari, che collega alla raffigurazione di F. la giovanile canzone Lo doloroso amor, nella quale D. assolutizza il sentimento amoroso, esaltato con paradossale " rivalsa " contro la morte e l'Inferno oltre ogni rapporto razionale. Questa concezione dell'onnipotenza trionfante di amore, filtrando attraverso la Vita Nuova, è incarnata nella situazione di F., la quale nella sua sfida lanciata all'Inferno tutto rivive " il disperato estremismo della canzone giovanile di Dante ". Ma egli non si limita con altra maturità a rappresentare la logica interna del peccatore, di colui cioè che assume a divinità un dato umano: riesce anche a raffigurare, attraverso l'assolutizzazione di un sentimento, " con tutto l'abissale mistero che le è proprio la realtà teologica del peccato non come puro errore di calcolo, ma come mysterium iniquitatis ". Il personaggio ardente e passionale di F. è dunque " la teologica rappresentazione di un assurdo, cioè del disamore con il quale la creatura risponde all'amore di chi l'ha creata, utilizzando per vie errate le forze largite da Dio ".

Le nuove tendenze critiche, nonostante le resistenze della tradizione antica o recente, che ripresentano ammodernate le tesi foscoliane (G. Del Vecchio), desanctisiane (N. Veltri, F. Politi), barbiane (B. Curato, C. Jannaco), riecheggiano in esasperazioni variantistiche di varia natura: così, ad esempio, A. Henry esamina il linguaggio e lo stile del colloquio D.-F. come una partitura musicale suggestiva per varietà ritmico-tematica, e R. Dragonetti ritaglia l'episodio come la prima puntata di una polemica dantesca non solo contro l'errore dottrinario dell'amore cortese ma anche nei riguardi del linguaggio amoroso stilnovistico, cioè della Vita Nuova, sconfessato da Francesca.

Nell'analitico bilancio di M. Marcazzan l'intento di storicizzare il cammino della critica e di salvare in una nuova sintesi i suggerimenti del passato e del presente s'inizia dal riesame dell'impostazione romantica, bloccata dal preconcetto che D. riscatti per virtù poetica quanto condanna per via dottrinale, così da contrapporre, anziché conciliare, a vantaggio dell'una o dell'altra, la dottrina e la poesia. Eppure ai suoi maggiori esponenti risalgono intuizioni, a detta del Marcazzan, criticamente fondamentali, quali l'assunzione della pietà dantesca a nota dominante del canto: sia Foscolo sia De Sanctis colgono il carattere passionale di F., anche se alla lettura lirica del primo sfugge la dinamica tra la colpa del personaggio e la pietà del pellegrino, e alla sdrammatizzazione del secondo, eseguita in nome del mito romantico della femminilità, rimane estraneo il problema etico. Dato il peso che queste proposte hanno esercitato, il problema fondamentale, già avviato dal Barbi, della critica moderna consiste nel risolvere in unità il dualismo della tradizione, divisa tra una lettura sentimentale e umana e una lettura etica e religiosa dei personaggi e dei motivi del canto. Dal momento che il tentativo di conciliare l'indagine culturale con l'indagine poetica (effettuato, pur con diversi esiti, dal Baldelli e dal Paparelli) rischia di ridurre il giudizio dantesco a un'operazione logica, il senso dell'episodio a compiti esclusivamente dimostrativi, risolvendo la vibrante forza del canto a palinodia di trascorsi teoretici, il Marcazzan ribadisce la forte intensità passionale infusa da D. ai personaggi perché si offrisse ampia materia alla sua dolente meditazione di accettare la giusta condanna divina con quella tensione che autorizza verso di loro accenti di delicatezza e di soavità. La pietà dantesca non si risolve semplicemente in un bisogno di far proprie e comprendere le ragioni dell'altrui sventura: " è il complemento d'una disponibilità interiore nella quale si riflette la distanza tra la verità soprannaturale e la realtà dell'uomo ". D. si apre all'umano, confortato dalla conoscenza del divino: dall'incontro dell'esperienza religiosa con l'esperienza penitenziale prende corpo lirico la perplessità del poeta, che si riflette nell'alternanza di tragedia ed elegia, di melodramma e concitazione, di virile e femmineo, punto di partenza delle difformi interpretazioni avanzate dalla critica. Egli prende coscienza con le lacrime di quel mondo di tentazioni e illusioni che offende con il peccato ed esige partecipazione e rinunzia. Nell'atteggiamento di perplessità sentimentale e insieme di coerenza etico-religiosa che innerva anche altri episodi infernali disposti lungo il processo di purificazione che conduce il poeta a Dio, circola qui con maggiore intensità lirica il sentimento dell'umana fragilità, commisurato da D. anche in relazione a sé stesso: lo svenimento fisico rileva l'angosciosa difficoltà di distinguere e delimitare l'errore e la colpa, diventa la condizione necessaria alla rigenerazione spirituale. Tale tematica è affrontata da D. per la prima volta nell'incontro con i lussuriosi: dal colloquio con F. egli attende la risposta decisiva, la certa soluzione. Ed è proprio con il suo racconto che F. mette in crisi l'esperienza umana e poetica dell'autore, in quanto capovolge le illusioni terrene nella dannazione divina, chiedendo indirettamente a chi l'interroga, oltre ogni indulgenza personale, una sentenza inappellabile di condanna. La raffigurazione del castigo di Dio risalta per opera di D. in tutta la sua fermezza, nella " traduzione oggettiva e cruda della condanna giusta di Dio ", s'inarca liricamente nell'ebbrezza vittoriosa di Francesca.

La logica inflessibile della protagonista è quella di una passione oggettivamente raffigurata con forza risentita, fedele sino in fondo al codice dell'amore pagano e ostile al castigo divino. Ne sorte, nei movimenti condizionati del racconto in due puntate, ora ardenti ora dolorosi, di F., un dramma di amore e morte, secondo il realismo medievale, non l'idealismo romantico. Per questo il Marcazzan ritiene che nella considerazione del canto ci si debba mantenere su una " dimensione severa e inesorabile ", per quanto riconosca la possibilità e l'utile complementarietà di " proporre un modo di lettura non più pesante, bensì blando e sfumato, per non dire soave e carezzevole ". In questa seconda direzione l'ambientazione dell'incontro in atmosfera stilnovistico-cortese, sotto il segno delle fatali leggi d'amore consacrate dai sillogismi della filosofia erotica, è come un segno dell'attrazione di D. verso F., prodotta da " un risentirsi della sua affaticata umanità ", quale " evasione dall'Inferno dell'Inferno stesso " " in un inganno della memoria, in un ritorno d'illusione assurdo ". Qui trovano posto l'affetto e la pietà dei due protagonisti, D. e F., che svelano la reciproca simpatia umana nell'attenuazione del linguaggio e delle immagini. La pietà di D. è tanto più accorata quanto più netta è la coscienza dell'impossibilità di medicare il dolore di F.; e perciò sfugge a ogni complicità con la colpa della peccatrice. Nel momento in cui si scioglie in affetto teneramente irrazionale, si dispiega come movimento sentimentale, rifiuta una partecipazione etica vietata dalla giustizia di Dio. Ma la storia di F. non va confusa con una bella eroide medievale per il fatto che rinvia alle concezioni filosofico-intellettualistiche della poesia cortese, né accolta sbrigativamente come una sconfessione dantesca della poetica stilnovistica. Vero è che D. nel modularla risalì al mondo ideale della Vita Nuova e delle esperienze giovanili per recuperarlo a distanza nella severa concezione della Commedia, per riqualificarlo, discriminandone " gli aspetti insidiosi e fallaci " in un nuovo clima morale e religioso; e colse l'occasione offertagli da F. per utilizzare in forme nuove i modi della poesia amorosa romanza, piegandone gl'interessi tecnici e psicologici di maniera alla ricerca delle responsabilità per separare " l'amore dal peccato, l'innocenza dalla colpa, il paradiso dall'inferno ". Piuttosto che di palinodia conviene, a detta del Marcazzan, parlare di mediazione letteraria intesa a riscattare l'antica poetica entro l'errore di F. e a penetrare così nel vivo di un bruciante problema morale. Nella concezione dell'amore D. distingue nettamente sé stesso dalla donna che ha dinanzi: conosce i pericoli della dottrina cortese e non si perita di condannarne le vittime gentili e passionate; rinnova la dolente esperienza di quei miti e di quelle illusioni sul piano della moralità. Ma come non ripudia in sé l'ideale dell'amor cortese, così non rinnega l'antico mondo della retorica giovanile, al punto che la problematica teologica ed etica s'accompagna a una tematica letteraria che tocca il poeta e il rimatore. La discussione va situata nel moto di rinnovamento, non di rivolta, rispetto alla tradizione cavalleresca compiuto da D.-poeta in numerosi incontri della Commedia: entro questi confini la proposta del Contini appare al Marcazzan, più che accettabile, necessaria a intendere la turbata meditazione di D., esistenzialmente insidiato dalle tentazioni tesegli dal linguaggio stilnovistico di F., e la sua ansia di riesaminare e correggere l'autobiografia poetica con rinnovato impegno morale e penitenziale. In essa il Marcazzan scorge dunque la possibilità di un'interpretazione unitaria del canto, che permette di collegare D. poeta e D. personaggio, di storicizzare nel secondo la difficile ascesi del primo, senza rischiare di tradurre l'episodio in exemplum e il personaggio in pretesto.

Il Mattalia collega la drammatica contemplazione dei funesti effetti della lussuria, eseguita da D. in F., con la teorizzazione dottrinaria dello stesso problema presentata in chiave intellettuale di discussione nei canti XVI-XVIII del Purgatorio. La distinzione nel colloquio con F. di un D.-ideatore e di un D.-personaggio, salvando l'autonomia fantastica dell'episodio, consente a D. di raffigurare sé medesimo in preda a una smarrita pietà umana sulla quale vince l'idea della condanna rilasciata dal lettore dell'etica aristotelico-tomistica, e di elaborare artisticamente e retoricamente il più prestigioso tema della letteratura aulica. D. completa con miti e richiami allusivi la vasta tradizione letteraria intorno ad amore con un nuovo personaggio-esempio che conchiude con la sua modernità la serie delle donne antiche e dei cavalieri prima passati in rassegna. La molla tragica dell'episodio, a fondamento della sua ideazione, scatta dalla condanna, cioè dall'elemento etico-morale che va inserito nella poesia come " supporto dell'ordito intellettuale " su cui essa opera, se non si vuole, relegandolo, come un'ovvia didascalia, all'esterno, smarrire il significato dalla lezione dantesca. Perciò occorre spiegare il processo di conoscenza che si sviluppa nel divenire del canto (dalla rassegna all'incontro con F.) attraverso la dimostrazione ‛ esemplare ' del modo in cui dall'amore si genera la dannazione, giusta i principi aristotelici per i quali il peccato dipende da un pervertimento della volontà conseguente a una confusione intellettuale. Il canto di F. rappresenta da questo lato la prima battaglia, risolta figurativamente, combattuta da D. contro la concezione fatalistica della passione e l'equivoca formula di ‛ amore-gentilezza ': e come tale essa si conclude all'altro capo nei canti del Purgatorio (XVI-XVIII, ma anche XXVI-XXVII e XXX-XXXI), nei quali la teoria implicita nel discorso di F. ricompare esposta e vagliata in termini di dibattito dottrinario. D. anticipa figurativamente il contenuto morale delle soluzioni delineate nella seconda cantica, avvalendosi sì di materiali storico-letterari, risuscitandoli però in un personaggio che ne mette in luce il vero e il falso. Esso è tragificato attraverso la pietà - una ricerca di attenuanti - al fine di promuovere intorno al rapporto amore-dannazione un'inchiesta più approfondita alla ricerca del vero errore determinante la soggezione della ragion al talento. Ed ecco che il racconto di F. identifica via via i moventi, secondo l'etica aristotelico-tomistica, nella confusa degradazione della formula guinizzelliana a giustificazione di un amore sensuale. Si comprende pertanto come, irretita nella falsa logica dell'amor cortese, ella ignori la colpa, il pentimento e il perdono, e colmi la lacuna morale con la realtà della dannazione, tanto tristemente contrastante con una vicenda al contempo meravigliosa e cruenta. Dietro a lei, come dietro agli antichi eroi che la precedono, stanno le autorità letterarie: Andrea Cappellano dà la mano alla poesia illustre d'Italia. Di qui l'atmosfera irreale e romanzesca che circonda la scena del bacio, al centro della confessione. Giovandosi di materiali figurativi e dottrinari, antichi e moderni (dall'Eneide alle Eroidi, all'Etica aristotelica commentata da s. Tommaso), D. ha costruito un personaggio-esempio che esalta irresistibilmente la passione dei sensi denunziando in modo flagrante con il suo errato argomentare i valori negativi del proprio credo, dapprima enunciato in proposizioni teoriche, verificato poi concretamente nella sceneggiatura di atti ed eventi.

Anche nell'indagine di V. Russo premono le istanze etiche del messaggio dantesco, che egli vede affiorare nel significato antico della pietà, intesa, sulla scia del Boccaccio, fuori di ogni vaneggiamento moderno, nell'accezione etico-dottrinale di contrizione morale di fronte al peccato. Eccezionalmente D. non prova soltanto compassione per il male altrui, ma acquista in questo primo scontro con il peccato consapevolezza del male proprio e misericordia verso i due cognati travolti alla colpa da circostanze ed elementi - gl'ideali di amore e gentilezza centrali alla poetica stilnovistica della giovinezza - che hanno sopraffatto la loro volontà. La pietà è illuminata dalla tristizia di D.: e in quel rapporto egli acquista consapevolezza della propria crisi, prodotta dalle parole di F. che gl'illustrano le insidie funeste che minacciano la sua esperienza umana e poetica. La misericordia del poeta verso F. e verso sé stesso nasce dalla contrizione delle colpe; e giunge all'acme nel raccoglimento (vv. 112-114) che segna l'esito vittorioso e positivo della crisi medesima. Così, nel secondo colloquio con la dannata, si assiste alla condanna della letteratura ruotante intorno all' ‛ amor cortese ' compiuta impersonalmente da una F. assurta al ruolo di personaggio esemplare di una vicenda peccaminosa. Lo svenimento finale di D. suggella questo primo scontro con il peccato e la difficile affermazione del bene sul male.

Sul versante opposto le lezioni del Paparelli e del Contini lievitano in indagini formali e culturali, che pretendono di smontare il meccanismo compositivo dell'episodio. E così nelle rapide battute di E. Sanguineti la polemica letteraria di D. esce precisata come opposizione alla poetica del Cavalcanti: la creazione di F., " una Bovary del Duecento, che sogna i baci di Lancillotto, e fruisce, in tragica riduzione, degli abbracciamenti del cognato, cercando di procurarsi, a colpi di anafora, l'alibi dello stilnovismo più ortodosso ", muove dalla sconfessione, dalla demistificazione, dal ripudio della donna cavalcantiana, passionale e angelicata insieme. Ancora più spinte appaiono le risultanze critiche alle quali perviene A. Jacomuzzi che tenta di dar corpo alla " bivalenza " e alla " perplessità ", acquisite dalla critica recente come note fondamentali del problematico canto, a scapito del personaggio di F., privato, a suo dire, di qualsiasi coerenza psicologica dalla " ricca polisemia del testo ", del quale " il vero, impersonale protagonista " si può riconoscere nel " calcolo strutturale, nel gioco drammatico e sottile degli elementi che lo costituiscono, nella rigorosa convenzione che costringe la lettura; o, se si vuole, in Dante stesso, ma tutto presente per forza di struttura, mai assimilato alla immediatezza dei dati lirici o narrativi ". La convenzionalità letteraria nella quale sono costretti gl'ingredienti lirico-narrativi della storia, dall'atmosfera cortese della narrazione allo stilnovismo artificioso di F., domina la struttura puramente contenutistica dell'invenzione - dalla passione amorosa della donna alla pietà del pellegrino - richiedendo un'indagine critica che penetri oltre l'ovvio, ma superficiale significato dell'incontro infernale.

La varia complessità delle odierne proposte critiche si rispecchia nitidamente nel commento al canto quinto approntato da G. Padoan, non perché esso manchi di una sua autonoma linea di lettura, ma perché tiene conto, anche nelle scelte personali dell'esegesi e dell'interpretazione, delle tendenze euristiche emerse soprattutto nel dopoguerra: come la discriminazione in D. dell'autore e del personaggio, la presenza nel suo faticoso travaglio etico di una sottintesa polemica contro la letteratura abbracciata in gioventù (è all'uopo citato il son. CXI delle Rime), della quale si rinvengono le filigrane letterarie nella confessione di F., l'ambientazione dell'episodio nel clima infernale e la sua assunzione ad exemplum morale che chiudendo la rassegna degli amanti antichi e moderni sottolinea l'umana debolezza, la convinzione ferma che come manca in F. la coscienza della colpa così è estraneo a D. qualsiasi intento assolutorio, il collegamento della condanna degli adulteri alle dottrine morali esposte nella seconda cantica. D'altra parte l'insistenza del Padoan su taluni connotati dei personaggi e dell'azione - la potenza della forza di amore e la dolcezza della passione lussuriosa che insieme rendono comprensibile ma non giustificabile la colpa dei due cognati, lo strazio interno alla meditazione dantesca - qualificano il suo " guardingo giudizio " che storicizza il fitto rapporto dialettico tra amore e sangue, tra la pietà di D. e il giudizio di Dio, sul quale si tende il tessuto di un episodio in cui la raffigurazione dei peccatori è artisticamente studiata al fine di provocare, con il risalto oggettivo della colpa, il lettore a mozioni di affettuosa simpatia, " perché il confronto inelusibile con il giudizio divino possa agire, fino in fondo, chiarificatore, e la pietà e il rimorso fruttino la consapevolezza ".

Dalla dolorosa istoria del Boccaccio alla plastica figura scolpita dal Foscolo, a pretesto di un giuoco strutturale smontabile dai formalisti di oggi, F. sembra dissolversi per lasciar posto a Dante. Ma la morte critica del personaggio è del tutto apparente, è anzi la prova della sua vitalità multiforme, di una ricchezza disponibile a qualunque operazione critica. Solo un punto trova consenzienti i lettori di ieri e di oggi: che la creazione dantesca, ormai classica nell'immensa popolarità della sua fortuna, è destinata a vivere anche nella civiltà del domani.

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Fortuna letteraria. - La fortuna letteraria, figurativa e musicale dell'episodio dantesco di F. è stata assai intensa nell'Ottocento, e certo non accenna a diminuire, almeno per quel che riguarda la pittura e la musica. La serie si apre con Francesco Pieracci e con Edoardo Fabbri (la cui F. da R. fu composta nel 1801, ma recitata solo nel 1831). Il Romanticismo trovò poi, nella storia passionale dei due cognati, più di un motivo consentaneo alle proprie peculiari scelte di una vicenda che soddisfacesse in pari luogo all'estrinsecazione di forti sentimenti e a un corrispondente scenario storico di torbide lotte politiche e familiari.

Fortunatissima fu la tragedia F. da R. di Silvio Pellico, rappresentata nel 1815 e pubblicata tre anni dopo; in essa gli elementi desunti dal c. V dell'Inferno sono sottoposti a un'effusa sensibilizzazione patetica, che investe persino la figura di Gianciotto, umanamente giustificato perché infelice; la fortuna drammaturgica di F. continua con La pietosa istoria di F. da R., di F. Capozzi (1840). Del 1855 è un'altra tragedia, di George Henry Boker, americano come l'autore di un altro dramma (del 1902), Francis Marion Crawford; del 1897 la rievocazione carducciana ne La Chiesa di Polenta. Ma il poeta che doveva trarre la più fortunata creazione dall'episodio dantesco, arricchendolo di numerosi particolari truculenti ed erotizzanti, è Gabriele d'Annunzio, la cui F. da R. venne eseguita nel 1901 da Eleonora Duse; tragedia d'innegabile saldezza narrativa e con personaggi, come Malatestino, scolpiti con forza, ma insidiata da una continua tensione enfatica del linguaggio, fastidiosamente indugiante in preziosismi falso-medievali e in esteriori dipinture di scene di vita aristocratica duecentesca. Di notevole rilievo letterario è la tragedia Paolo and Francesca dell'inglese Stephen Phillips (1902), e degno di ricordo il dramma La tragedia del belo, di C. Fernández Shaw (1910).

Più fitta di opere è la fortuna musicale, che s'inizia con Saverio Mercadante, Antonio Cagnoni e Pietro Generali, sensibili all'influsso dei temi affettivi e malinconici del Pellico, e prosegue fuori , d'Italia con Casimir Gide e con Hetman Götz (la cui F. da R. sarà terminata da Brahms), con Ambroise Thomas, Sergei Rachmaninov. Il Rossini, nell'Otello, utilizzò alcuni versi per la melopea del barcaiolo veneziano. Il successo della tragedia dannunziana sollecita le opere di Luigi Mancinelli (1907), di Emile Abramy (1912), e soprattutto di Riccardo Zandonai (1914), il quale segue più direttamente il testo del d'Annunzio. S'ispirano ai versi di D. la fantasia per orchestra di Pétr Čajkovskij, la cantata di Paul Gilson, il poema sinfonico di Paul August von Klenau, ecc.

Le arti figurative hanno illustrato l'episodio in ogni momento della loro storia, dalle miniature toscane, lombarde e venete dei codici tre-quattrocenteschi alla splendida miniatura del Giraldi nell'Urbinate latino 365, dalle incisioni degl'incunaboli ai quadri di Dante Gabriele Rossetti, di J.A.D. Ingres, del Cabanel, del Fouerbach, del Böcklin sino alle illustrazioni di S. Dalì, di R. Guttuso, di G. Stradone, E. Greco, R. Rauschenberg, attraverso lo Stradano, lo Zuccari, il Blake, il Flaxman, il Doré, ecc.

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