BARBARO, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 6 (1964)

BARBARO, Francesco

Germano Gualdo

Zio di Ermolao (vescovo di Treviso e Verona) e nonno di quell'ermolao Barbaro che a Padova tenne scuola di dottrine aristoteliche. Nacque a Venezia nel 1390, dal senatore Candiano morto immaturamente, per cui fu allevato dal fratello maggiore Zaccaria.

A Venczia il B., dal 1405 al 1408, frequentò la scuola di Giovanni di Conversino da Ravenna, detto il Grammatico, che destò in lui l'amore per ií latino. Proseguì gli studi a Padova, scolaro di Gasparino Barzizza, ed ebbe a compagno Ludovico Trevisan, più tardi patriarca di Aquileia e cardinale camerlengo, col quale tenne fitta corrispondenza. Magister artium nel 1410, si addottorò il 10 ott. 1412 e rientrò a Venezia. Qui si era intanto trasferito Guarino Veronese da cui il B. apprese il greco, completando così la sua conoscenza del mondo classico. Frutto di questi studi è, nel 1415, la traduzione in latino dell'Aristide e del Catone Maggiore di Plutarco. Nello stesso anno si recò a Firenze, e l'ingresso in quel circolo umanistico gli valse l'acquisto di codici ed un irrobustimento della sua formazione letteraria e spirituale. Strinse anche nuove amicizie, col Rossi, col Bruni, col Niccoli, e in particolare con Lorenzo di Giovanni de' Medici (il fratello di Cosimo), a cui dedicò, in occasione delle nozze (1416), un trattatefio, De re uxoria. Tre anni dopo sposò Maria Loredan, da cui ebbe quattro figlie e un figlio, Zaccaria, divenuto procuratore di S. Marco.

Ma gli interessi del B. si andavano ormai spostando dagli studi classici alla attività pubblica. Nel 1419 entrò a far parte del Senato della Serenissima, iniziando così una brillante carriera amministrativa e politica. La Repubblica gli affidò numerosi incarichi, uffici, legazioni, che si susseguirono quasi senza interruzione e che furono, nella maggior parte, connessi con la guerra contro il ducato di Milano. Dal 1422 al 1435 fu podestà a Treviso, Vicenza, Bergamo e Verona (di quest'ultima nel 1441 fu anche provveditore straordinario). A Vicenza fece codificare gli statuti della città e ottenne che si desse incarico a Giorgio di Trebisonda dell'insegnamento del greco; durante tale podesteria ebbe come segretario Flavio Biondo, che poi il B. invitò anche a Bergamo, offrendogli (non si sa però con quale esito) la carica di cancelliere.

Più volte provveditore al campo degli alleati, savio di Terraferma e della terre conquistate, nel 1437 fu inviato e Brescia come capitano e vi restò fino al 1440, sostenendovi un ruolo importantissimo nella vigorosa difesa della città dall'assedio del Piccinino, comandante delle milizie viscontee, e dando prova di coraggio e destrezza militare. Le sue qualità di diplomatico emersero in occasione di ripetute ambascerie, a Roma, Bologna, Ferrara, Firenze e Mantov'a, in particolare di quelle presso gli imperatori d'Oriente e di Germania, e presso i papi Martino V ed Eugenio IV. Membro, tra il 1432 e il 1445, del Minor Consiglio, luogotenente nel Friuli e quindi prefetto a Padova, fu nel 1449 preside del Senato e nel 1452 ottenne l'ambito ufficio di procuratore di S. Marco.

Visse gli ultimi anni in relativa tranquillità; ma se cessò di esercitare una parte attiva e un'azione diretta nelle vicende della Repubblica, giunto al culmine della sua posizione nello Stato e alla pienezza della sua esperienza, non poté non seguire con viva e sofferta partecipazione gli avvenimenti più gravi del tempo, tra cui in primo piano la caduta di Costantinopoli. Morì a Venezia, nella seconda metà di gennaio dell'anno 1454; il suo corpo venne inumato nella chiesa dei Frari.

Il B. è considerato tra i maggiori umanisti della Serenissima. Giovanissimo, stupì i dotti per la padronanza non solo del latino, ma anche del greco, in un'epoca in cui ancora pochi erano i cultori dell'ellenismo. Studioso di vasta e solida dottrina, scoperse e raccolse manoscritti di opere antiche, di cui collazionò ed emendò i testi. A differenza degli umanisti del suo tempo, egli non fece dello studio delle lettere classiche un fine a se stesso e si tenne lontano da tutte le contese letterarie. Fu tuttavia in relazione di amicizia con gli eruditi più illustri, i quali ricercavano la sua compagnia e la sua carrispondenza epistolare. Non di rado, nelle dispute e contese che accendevano uomini come Poggio, Valla, Niccoli, Bruni e Guarin3, egli svolse opera di paciere e moderatore, così come si adoperò con notevole impegno a incoraggiare gli studi, proteggendo le scienze e le lettere. Il maggiore dei suoi protetti fu il Bíondo, delle cui opere storico-archeologiche il B. può dirsi fautore. Il suo umanesimo è quindi alieno da ogni vanità o professionalismo; è ricchezza di cultura e di sensibilità umana che si fanno sostanza e norma di vita.

Altrettanto sincera è la sua religíosità, che non appare in contrasto col suo amore per la cultura classica. Verso l'autorità ecclesiastica ebbe un atteggiamento di rispetto e di devozione, ma non esitò a criticare con franchezza i costumi della Curia, esaltando l'ideale della povertà francescana (significative a questo proposito le sue relazioni epistolari con s. Bernardino da Siena e con Alberto da Sarteano).

Il concilio di Firenze lo ebbe tra i più tenaci assertori e propugnatori dell'unione religiosa tra Greci e Latini, e grandi speranze destò in lui l'elevazione al pontificato di Niccolò V, a cui chiese di rivolgere ogni energia per la pacificazione d'Italia, la lotta contro i Turchi e la salvezza dell'impero d'Oriente.

Umanesimo e spirito religioso stanno quindi alla base di quel profondo equilibrio ínteriore del B., che si riflette nella sua azione quotidiana. Cittadino attivo ed esemplare, mise al servizio della Repubblica le sue finissime qualità di uomo di governo, un acuto senso politico e una rara intelligenza. Spirito sostanzialmente pacifico, egli seppe tuttavia, quando Filippo Maria Visconti minacciava Venezia, esercitare con valore ed energia il mestiere delle armi. Nel quadro dell'umanesimo e della storia veneziana del '400 egli appare insomma il rappresentante più insigne di quegli uomini della classe dirigente che univano in sé, in una perfetta armonia spirituale, il soldato e l'umanista, il dotto e l'uomo di stato, e che seppero fare la fortuna della Repubblica.

Il trattatello De re uxoria, scritto in un latino scorrevole, fu opera ammiratissima daglì eruditì e dagli ecclesiastici del tempo; diffusa in numerosi manoscritti e più volte stampata, esercitò un notevole influsso in Italia e in Germania. Nel comporla il B. (che tratta prima della scelta della moglie, per giungere fino all'educazione dei figli) si valse delle vaste letture fatte e dell'insegnamento del vecchio Zaccaria Trevisan e del Guarino, intessendola di precetti pratici attinti dagli antichi; è tuttavia qualcosa di più che una semplice esercitazione retorica o un pezzo di bravura erudita. La sua originalità, nei confronti degli altri umanisti che trattarono lo stesso tema, sta nell'essersi accostato alle fonti antiche con una viva intelligenza del valore morale del matrimonio, sulla traccia di quella tradizione aristocratica veneziana che nella sanità della vita familiare e nella procreazione della prole poneva il fondamento della sicurezza dello Stato.

Ma la testimonianza più viva delle larghissime relazioni del B. con ecclesiastici, politici e umanisti, dei suoi interessi religiosi, politici e letterari è il suo epistolario in latino, uno dei più ragguardevoli del Quattrocento, che costituisce altresì una preziosa fonte di informazione sulle vicende di cui egli fu parte e sulle condizioni dello Stato veneziano.

L'epistolario è redatto in uno stile a volte freddo e composto, altre volte vivo e libero, ma sempre signorile e garbato; non nasce tuttavia da un'ambizione letteraria, bensì da concreti interessi umani, dalla partecipazione sentita ai problemi ed agli eventi più significativi del momento, di cui mostra una lucida comprensione. La spontaneità che lo regge rivela quindi più chiaramente l'animo del B., i tratti salienti della sua personalità, l'equanimità del pensiero, la sua sincerità nell'amicizia, la profondità delle convinzioni. A completare la nostra conoscenza della figura dell'uomo contribuiscono anche i numerosi discorsi pronunciati dal B. in occasione delle sue ambascerie; fra gli altri, i solenni indirizzi all'imperatore d'Oriente Giovanni Paleologo (1423) e all'imperatore Sigismondo (1433).

Fonti e Bibl.: La cronaca di Cristoforo da Soldo, in Rer. Italic. Script., 2 ediz., XXI, 3, a cura di G. Brizzolara, pp. XIII, 8, 12, 22-29; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, IV, Venezia 1896, passim; A. M. Querini, Diatriba praeliminaris ad Francisci Barbari ePistolas, Brixiae 1741; Id., Francisci Barbari et aliorum ad Ipsum epistulae, Brixiae 1743; G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori veneziani. ..., II, Venezia 1754, pp. 28-134; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 1, Brescia 1758, pp. 264-270; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Milano 1833, 11, p. 513; R. Sabbadini, Centotrenta lettere inedite di F. B., precedute dall'ordinamento critico cronologico dell'intero suo epistolario, Salerno 1884 (cfr. A - Willmanns, Besprechung..., in Góttingische gelehrte Anzeigen, XXI[18841, pp. 849-885); G. Voigt, Il risorgimento dell'età classica, 1, Firenze 1888, p. 417; V. Cian, La coltura e l'italianità di Venezia nel Rinascimento, Bologna 1905, p. 27 e passim; V.Lugli, I trattatisti della famiglia nel Quattrocento, Bologna-Modena 1909, pp. 12 s.; L. von Pastor, Storia dei Papi, I, Roma 1910, pp. 44-46, 330,4541 551; R. Sabbadini, La gita di F. B. a Firenze, in Miscellanea di studi in onore di A. Hortis, Trieste 1910, II, pp. 615-627; A. Gnesotto, I codici marciani del "De re uxoria" di F. B., in Atti e mem. della R. Acc. di scienze lettere ed arti di Padova, n. s., XXX (1913-14), VI). 105-128; Id., Dei Mediceo-laurenziani e del cod. padovano del "De re uxoria" di F. B., ibid., pp. 281-294; Id., Francisci Barbari de re uxoria liber, ibid., XXXI I (1915-16), pp. 6-105; B. Bughetti, Alcune lettere di F. B. riguardanti l'Ordine francescano,in Archivum francisc. hist., XI (1918), pp. 287-304; P. Gothein, F. B. FriA-Humanismus und Staats-Kunst in Venedig, Berlin 1932 (con ampia bibl. ed elenco dei codici, pp. 393-404); L. Lazzarini, Un libro su F. B., in Arch. stor. ital., s. 7, XX (1933), pp. 97-104; N. Carotti, Un politico umanista del Quattrocento: F. B., in Riv. stor. ital., LIV, 2 (1937), pp. 18-37; A. Pompeati, Storia della letteratura italiana, II, Torino 1950, pp. 134 s.; E. Garin, Prosatori latini del Quattrocento, Milano Napoli 1952, pp. 103, 1128; P. O. Kristeller, Un codice padovano di Aristotele postillato da Francesco e Ermolao Barbaro. Il manoscritto Plimpton 17 della Columbia University Library di New York, in Studies in Renaiss. Thought and Letters, Roma 1956, pp. 337-353; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1956, pp. 92, 129-131, 156, 163, 173 s., 222; Encicl. Ital., VI, p. 132; Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., VI, coll. 587 S.; Encicl. Catt., II, Coll. 821 s. Cfr. anche: R. Sabbadini, Le scoperte dei codici, I, Firenze 1905, pp. 36-95; II, ibid. 1914, pp. 74, 192; Id., Storia e critica di testi latini, Catania, 1914, passim; Id., Epistolario di Guarino Veronese, Venezia 1915-,9, 9, passim; B. Nogara, Scritti inediti e rari di Biondo Flavio, Roma 1927, passim; P. Gothein, Zaccaria Trevisan, in Ateneo veneto, XXI(1937), pp. 159; P. Paschini, Lodovico cardinal camerlengo (t 1465), Roma 1939, passim.

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