BENAGLIO, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 8 (1966)

BENAGLIO, Francesco

Claudio Mutini

Nacque a Treviso il 4 febbr. 1708 da Andrea e da Francesca Franceschi di Castelfranco. Nel 1717, per interessamento di Fortunato Morosini, fu accolto nel seminario trevigiano, donde passò a Brescia (1723) seguendo il Morosini che si era trasferito in quella sede vescovile. Intorno a questi anni pensò di rivestire l'abito della Compagnia ("Sono sopra modo consolato - gli scriveva Silvestro Ruzzini il 19 luglio 1725 - nel leggere i fervorosi sentimenti della sua lettera, con i quali mi conferma la sodezza della sua vocazione e la viva brama d'esser gesuita"): non se ne fece nulla - e la futura attività dei B. finirà per smentire questa giovanile aspirazione - forse per l'intervento di qualche autorevole e prudente consigliere, forse per l'indole incostante del giovane trevigiano propenso per natura a facili e intempestivi entusiasmi.

Nel 1725 passò all'università di Padova per completare i propri studi e addottorarsi in giurisprudenza (secondo i fermi propositi della famiglia), ma i corsi di Domenico Lazzarini cominciarono ad attrarlo più che le leggi, e le vivaci discussioni letterarie più che la disciplina gesuitica. Il giansenismo del Lazzarini fornì anzi l'antidoto più efficace contro le immature inclinazioni del B., mentre l'impostazione metodologica razionalista (che il Lazzarini derivava dal Gravina), l'amore per i classici greci e latini, la familiarità con le idee aristoteliche sulla poesia e sul teatro discliiudevano alla sveglia sensibilità dello svogliato legista l'orizzonte di una cultura duttile e varia, alimentata da una reciproca stima fra maestri e allievi, che poteva anche slittare sul lungo pendio della disputa letteraria (il Lazzarini stesso ne dette un esempio con le Osservazioni sulla Merope del Maffei), ma significava anche orgoglio di scuola e, nei casi migliori, incitamento a superarla.

Il futuro cittadino della repubblica letteraria è già interamente presente nello scolaro del Lazzarini: l'uomo che spenderà una vita cercando di raccogliere e pubblicare l'opera del maestro limitando la propria attività a una produzione frammentaria e occasionale, l'elegante corrispondente del Bettinelli e il ritrattista di Pompeo Batoni, il traduttore di Stay e il divulgatore entusiasta di Newton, sospettoso della scienza erudita e in genere di ogni scienza troppo orgogliosamente professata: "Ma illustri letterati hanno scritto le loro vite - confessava al Bettinelli discutendo la proposta di redigere la propria autobiografia per Gli Scrittori d'Italia - Ma le hanno scritte i medesimi santi: io venero ogni azion loro; ma siccome non ho le loro virtù e perfezioni, così né ho, né posso avere quelle cause moventi che questi ebbero. So per altro (né ardirei dirlo a persona viva, toltone voi) che più volte si è tentato di promuovere al culto dei santi uno dei più gran lumi della vostra gran società [s. Roberto Bellarmino], né si è potuto mai superare l'ostacolo, che ha fatto alla causa di lui, l'aver egli scritta la vita di se medesimo, giudicandosi questo un effetto dell'amor proprio, o della umana vanità e debolezza. Ora non so se ciò che si reputa vanità, siccome è, presso Dio, debba poi cambiar natura e diventar presso gli uomini lodevol cosa".

Continuati gli studi di diritto, il B. si laureò a Padova il 16 maggio 1730, ma, contrariamente ai desideri del padre, non cercò mai di procurarsi un pubblico impiego. Tornò comunque a Treviso (ove pronunciò nel 1731 un'orazione in lode di Alvise Priuli), mantenendosi peraltro in rapporti epistolari con il Lazzarini e in genere con i vecchi amici del circolo padovano. Quando le peggiorate condizioni della famiglia sembrarono costringerlo ad entrare nell'amministrazione, un banale incidente di carriera lo salvò ancora una volta - e definitivamente - dalla prospettiva di un pubblico ufficio: non fu ammesso nel collegio dei giudici di Treviso, ed egli per tutta risposta abbandonò la città trasferendosi a Venezia, ove trovò un impiego alle dipendenze di Gabriel Boldù, provveditore straordinario agli Ordini nuovi. Oltre al modesto stipendio l'ufficio gli fruttò utili relazioni con parecchie famiglie patrizie veneziane. Una di queste relazioni fu il rapporto di sincera amicizia che lo legò con Marco Foscarini, sì che quando questi, reduce dalle ambascerie di Parigi e di Vienna, fu inviato a Roma, ritenne opportuno condurre con sé il B. (marzo 1736). Presso il Foscarini egli rimase fino al 1740, quando il diplomatico giunse al termine del proprio ufficio e venne a sostituirlo Francesco Venier, ambasciatore presso il nuovo pontefice Benedetto XIV: il B., che aveva ottenuto nel frattempo l'iscrizione all'Arcadia (col nome di Timbreo Tinariano) e si era innamorato di una gentildonna di Poggio Mirteto, Claudia Amici, non trovò di meglio che accostumarsi al nuovo padrone, sperando nelrindole del Venier quelle doti di magnanimità che avevano favorito i rapporti col Foscarini.

Fu un'amara delusione. Nel Libro dei conti - uno strano diario ricco di annotazioni personali, destinato come gran parte delle opere dei B. a rimanere inedito - gravitano giornalmente uscite troppo ingenti rispetto ai magri guadagni derivanti dal mestiere di segretario. E c'era da salvaguardare un'etichetta, sostenere spese di rappresentanza, mantenere agli occhi del bel mondo una dignità per lo meno apparente, quale si confaceva al segretario del diplomatico veneziano: "Io - scriveva alla Amici il 31 ott. 1742 - non posso dirvi di essere turbato, ma neppure del tutto tranquillo, poiché vivo una vita troppo colma di soggezione, né mi manca che la catena al piede per potermi metter del pari colla ciurma di una galera". Le stesse lettere alla Amici riflettono però anche altri e più piacevoli aspetti della vita romana del B.: i viaggi, le avventure galanti, le suggestioni sempre nuove e fresche dell'appassionato ammiratore di bellezze artistiche e naturali, trascritte con la spontanea vivacità (tipiche le pagine sul palazzo di Caprarola) che è caratteristica della più matura epistolografia settecentesca.

Nel novembre del 1743 il Venier terminava la propria ambasceria presso la corte di Roma. In procinto di ottenere il bailato di Costantinopoli e, sembra, piuttosto soddisfatto dei servigi del B., gli offrì di seguirlo in Turchia. Il trevigiano si trattenne ancora a Roma, presso monsignor Molino, fino al 1745; dopo di che, fatti i dovuti preparativi e raccolto il poco denaro di cui poteva disporre per il soggiorno in Oriente, s'imbarcò col Venier nel maggio dello stesso anno.

Arrivò a Pera di Costantinopoli il 17 sett. 1745, dopo molte soste, qualche disappunto e molti entusiasmi, trascritti sul Libro dei conti, per le bellezze dell'Arcadia e gli eterni fasti della Troade. Sembra che sotto il cielo incantato d'Oriente anche la tradizionale avarizia dei Venier assumesse discrete caratteristiche di sopportabilità: "Qui ce la passiamo tranquillamente - scriveva da Belgrado nel 1746, durante una villeggiatura col bailo - non così però ch'io non abbia le ore della mia solita febbre, cioè della mia malinconia. Si mangia, si beve bene, si passeggia, si cavalca, si giuoca. Eccovi la nostra vita campestre. Il villaggio a me mi piace, ed ha degli aspetti, o vedute amenissime. Il bosco mi diletta oltre modo, e molto si confà - il suo grato orrore coi mio triste temperamento. Se vengono ninfe a popolarlo, ce la passeremo assai bene, ed io sarò ben volentieri abitator delle selve. Fin'ora non abbiamo che dee antiche e logorate dal tempo". Esiste naturalmente una ricantazione, ma è posteriore, e si legge sul Libro dei conti, quando ormai il viaggio era concluso e il B. godeva dei favori del cardinale Prospero Colonna.

Durante il soggiorno in Oriente: il B. aveva preparato una traduzione delle virgiliarie Bucoliche, nonché degli Amori pastorali di Dafne e Cloe di Longo Sofista. L'11 sett. 1749 era di nuovo a Venezia o, dopo un breve viaggio a Treviso, tornò a Roma, chiamato come bibliotecario da Prospero Colonna, c più degno dell'imperatore Tito Flavio Vespasiano di essere chiamato la delizia delruman genere, siccome lo è di tutto il popolo romano, e di tutte le persone di spirito e di onore s. In effetti l'ufficio di bibliotecario presso il cardinale riuscì ad assicurare al B. un discreto guadagno, mentre il prestigio dell'incarico e l'amicizia di alcuni personaggi influenti nel mondo ecclesiastico (oltre il Colonna, il futuro patriarca di Venezia Iacopo Monaco e il cardinale Passionei) gli conciliavano la familiarità di artisti e di letterati. All'ambasciatore di Francia duca di Nivernais si rivolgeva il 9 ag. 1758 per ottenere la pubblicazione in Francia degli Amori pastorali di Longo Sofista; insisteva presso il Lami perché le Novelle letterarie si interessassero alla pubblicazione delle opere del Lazzarini (del quale in realtà solo Le Osservazioni sopra la Merope del Maffei ed altre operette ... con prefazione e note di F. B. videro la luce nel 1758 in un bel volume dedicato al Colonna, mentre rimase inedita la Raccolta completa degli scritti, preceduta dalla vita del Lazzarini e accompagnata da un largo commento, che doveva rappresentare per il B. l'ultimo tributo di gratitudine e di affetto al carissimo maestro); chiedeva la collaborazione dei cugino Francesco Benaglio, discepolo di Giordano Riccati, per la traduzione del Poema sulla nuova filosofia di Newton di Benedetto Stay, e l'appoggio dell'ambasciatore straordinario di Francia alla Porta ottomana, conte Rolando Besaleurs, per la versione del Trattenimento filosofico sopra la favella dei Bruti del p. Bourgeant (rimaste inedite e conservate insieme agli altri manoscritti delle opere dei B. nella Biblioteca capitolare di Treviso); entrava in rapporti col pittore Pompeo Batoni (al quale, in cambio di un ritratto, dedicava un Abbozzo di vita, però non finito per mera colpa del pigrissimo e impicciatissimo Battoni), e ricercava soprattutto l'amicizia del Bettinelli, la cui corrispondenza col B. risale al 1756 e si protrasse sino alla morte del trevigiano, reciprocamente mantenuta ad un livello di intima e sincera familiarità.

Essa è particolarmente interessante perché riguarda gli anni della composizione delle Lettere virgiliane (stampate nel 1758), e rispecchia alcuni aspetti della polemica che l'opera suscitò all'indomani della pubblicazione. Non erano mancati fra il B. e il Bettinelli precedenti attriti motivati dalle prese di posizione più intransigenti della cultura gesuitica. A proposito del giudizio sul Lazzarini dello Zaccaria, il B. non aveva potuto esimersi dal domandare: "E tanto ostinatamente si fermentano gli odi implacabili nel petto dei religiosi? Leggete al Lib. I. Cap. 9. pag. 195 e segg. dei VI Volume dell'edizione di Modena la storia letteraria dei vostro omniscio P. Zaccaria, e sarete forzato a stomacarvi... Dice poi bugie impudentissime e dissimula notissime verità. E dovrassi tacere per una stupida e vigliacca prudenza e sopportar tanta infamia, tanta impostura e tanta offesa dei vero" (lettera del 15 febbr. 1757). Sì che il Bettinelli aveva dovuto, non senza qualche compiacimento, ammettere: "Purtroppo, egli è quasi connaturale alla condizione di religioso l'odiar troppo e senza termine i contrari partiti ed opinioni. Non parliam delle satire, che certamente fanno arrossire, se non gli autori, i lor fratelli per lungo tempo. Ma la Storia letteraria? due nomi che son sacri e venerandi, due professioni che escludono ogni passione per essenza, due titoli di nobiltà e d'onore: come sono trasformati! " (lettera del 18 marzo 1757). Ma alla comparsa delle Lettere, cioè della più coerente ed efficace strumentazione gesuitica della letteratura che il secolo avesse mai conosciuto, il trevigiano si rifiutò di attribuirne la paternità all'amico, scrivendo, forse con tutta sincerità, all'Azzoni Avogaro: "La voce che corre di Bettinelli l'ho per una mera calunnia degli invidiosi e degli emuli suoi. Io ho il libro, e l'ho letto con somma noia; né ciò mi sarebbe avvenuto se fosse cosa di lui, il cui stile è ben tutt'altra cosa... Egli poi non è così sciocco o ignorante o poco accorto o imprudente da scrivere quelle inezie con tanta imprudenza e pedanteria" (lettera del 1° luglio 1758), e, pochi giorni dopo, allo stesso Bettinelli: "Qui universalmente voi siete tenuto per autore di certe Lettere pubblicate in Venezia, le quali si fingono scritte dall'altro mondo a questi Arcadi Tiberini da Maron vostro. Io l'ho negate e le nego, né so spiegarmi a crederle cosa vostra, e ci ho disputato più che non avrebbe fatto un de' più famosi Baccilieri" (9 ag. 1758). Per dissipare ogni dubbio intervenne direttamente il gesuita, con molte raccomandazioni di riservatezza e una maldestra ma significativa precisazione: "Le Lettere di Virgilio sono un capriccio, una pazzia, uno scherzo fatto per impegno, e abbandonato intieramente alle critiche ed ai furori dei cacoetici scrittori in sull'uscire d'Italia. Ciò dico a voi, che ad alcuno per verità nol direi, e mi tengo celato, come sono pentito dell'indulgenza soverchia. Mi fido del vostro discreto animo. Potrei aver dei fastidi" (lettera da Parigi, 4 sett. 1758).

Col Bettinelli il B. si era recato nel luglio del 1754 a Napoli, ospite della duchessa di Ligneville-Calabritto, nipote del Colonna: il soggiorno napoletano, che ispirò al Bettinelli qualche verso non spregevole, fu l'ultima sua vacanza felice. Colpito da malattia inguaribile, egli trascorse gli anni seguenti nel vano tentativo di trovare in città diverse climi più favorevoli alla propria salute. Nell'estate del 1758, disperando di trovare giovamento ai propri mali sempre più dolorosi, decideva di far ritorno a Treviso (ne dava notizia al cardinale Archinto) per ricongiungersi ai familiari. Fu costretto invece a fermarsi a Padova, e in questa città egli morì il 13 apr. 1759.

Rispetto alla gran mole di opere inedite (cui vanno aggiunte una traduzione in versi sciolti del Cantico dei Cantici e le Lettere dell'abbé Le Blanc), il B. lasciava scarsa traccia nelle opere a stampa: un'orazione latina Pro solemni studiorum instauratione, recitata e pubblicata a Padova nel 1727, l'altra, già menzionata, in onore di Alvise Priuli, alcuni versi in Un volume di rime degli Arcadi, che il B. raccolse e dedicò a Marco Foscarini, nonché l'edizione dei lavori lazzariniani.

Bibl.: Giornale dei Letterari di Roma, 1743, p. 369; Novelle letterarie di Venezia, 1744, pp. 83, 122; Novelle letter. di Firenze, 1759, p. 408; F. S. Fapipani, Lettere ined. di trevigiani illustri, Treviso 1844, p. 9; L. Bailo, Tre lettere di R. degli Azzoni Avogaro a F. B. Treviso 1885; Vita dell'abate D. Lazzarini ... scritta da un suo scolaro, Macerata 1785, passim; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, p. 774; A. Marchesan, Vita e Prose scelte di F. B., Treviso 1894.

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