BIANCHINI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 10 (1968)

BIANCHINI, Francesco

Salvatore Rotta

Primogenito di Gaspare e di Cornelia Vailetti, nacque a Verona il 13 dic. 1662. Compì la propria formazione presso il collegio di S. Luigi dei padri gesuiti in Bologna, dove rimase dal 1673 al 1680. Ebbe a maestro Giuseppe Ferroni, filogalileiano. Con lui compì qualche studio della sfera. In un suo Dialogo fisico astronomico contro il sistema copernicano del 1680 il B. figura come uno dei due interlocutori. Si trattava - è quasi certo - di un espediente per esporre ai giovani allievi le linee generali del sistema condannato. Del resto, il sistema insegnato ufficialmente nel collegio non era il tolemaico ma, come rivelano le Theses discusse dal B. nel 1679, il sistema semiticonico del Riccioli. Conservò degli anni del collegio un buon ricordo, e gratitudine per i maestri gesuiti. All'uscita dal S. Luigi era stato persino tentato di entrare nella Compagnia. Fu il padre e uno dei suoi maestri di Padova a dissuaderlo. Alla fine del 1680 fu inviato a studiare teologia a Padova.

Fu qui che il B. incontrò l'uomo che marcò più profondamente la sua personalità e verso il quale egli si professò più largamente debitore: Geminiano Montanari. Non insegnava però la teologia: occupava da due anni la cattedra, espressamente per lui istituita, di astronomia e meteore. La sua fama di astronomo era soprattutto dovuta alla scoperta della variazione delle fisse. Quelle promettenti ricerche furono riprese e portate avanti dal Bianchini. Questi si distinse nei primi anni come osservatore delle comete: quella dell'84 porta il suo nome. L'amicizia stretta con il Montanari valse al B. la frequentazione degli uomini di scienza più in vista dell'ateneo patavino: Carlo Rinaldini, Stefano degli Angeli, Iacopo Pighi, Charles Patin. Tutte, in un modo o nell'altro, personalità d'avanguardia. Fu probabilmente quest'ultimo, oltre al Correr, a convincerlo della possibilità di una storiografia "scientifica", fondata, più che sulle infide fonti letterarie, sulle testimonianze archeologico-numismatiche.

Alla metà del 1684 il B. lasciò Padova e si portò iussu parentum a Roma. Il cardinale Ottoboni aveva promesso al padre di occuparsi di lui. Vi andava per addottorarvisi nei due diritti. Il B. non amava quello studio, ma riuscì ugualmente a conseguire il titolo desiderato. Una volta almeno nella sua vita, nel 1706, esercitò il mestiere di avvocato. Buone conoscenze giuridiche mostrano molti dei suoi pareri sui conflitti giurisdizionali insorti ai primi del sec. XVIII tra la Sede apostolica e il Regno di Napoli, tra la Camera apostolica e quella estense e imperiale a proposito di Comacchio. Accanto agli studi di giure, continuò con il massimo fervore le sue ricerche astronomiche. Furono probabilmente le commendatizie del Montanari a introdurlo in quel gruppo di "virtuosi" romani che si riunivano al principio di ogni mese in casa di monsignor Ciampini in S. Agnese, l'Accademia fisico-matematica, costituitasi con un programma rigorosamente sperimentale nell'estate del 1677 In essa il B. illustrò nell'85 il nuovo metodo cassiniano per misurare da una stazione unica la parallasse dei pianeti. Ma i valori trovati sono molto lontani da quelli attuali.

Accanto alla ricerca scientifica vera e propria il B. portò avanti la riflessione metodologica. Nel congresso medico romano lesse nello stesso anno un'importante dissertazione: De methodo philosophandi in rebus physicis (inedita), un entusiastico encomio delle conquiste della scienza moderna e del nuovo metodo sperimentale. Di metodologia scientifica si occuperà prevalentemente negli anni successivi allorché, portatosi a Verona per affari di famiglia, si mescolerà ai giovani medici neoterici che avevano creato in quegli anni l'Accademia degli Aletofili. Di particolare interesse la dissertazione letta nell'86 o '87 a dimostrazione dell'applicabilità ai fenomeni biologici dei principi meccanicistici. Nel 1687 compose, ma lasciò inedito, un lungo dialogo sulla gravità, nel quale si rinvengono forti tracce del sistema fisico cartesiano.

Ritornato a Roma nell'88, il B. divenne con l'elezione di Alessandro VIII uno dei suoi protetti. Sembrava promesso ad una brillante carriera in Curia. Il Leibniz, che lo frequentò alla fine dell'89, pronosticò di lui grandi cose come astronomo e cercò di impegnarlo per la riabilitazione del copernicanesimo. La morte del pontefice, lo scandalo degli "ateisti" napoletani, resero purtroppo molto difficile a Roma negli anni immediatamente successivi la situazione degli scienziati. Fu già grande successo l'essere riusciti ad evitare più gravi restrizioni e condanne. Custode della Biblioteca Ottoboniana, il B. preparò un esatto indice dei suoi manoscritti, prezioso per chi si accinge a ricostruire la formazione dei fondi manoscritti della Vaticana. La ricca suppellettile libraria che aveva a disposizione e la speranza di una custodia della Vaticana lo indussero a disertare per un quinquennio gli studi astronomici e a concentrarsi tutto nella stesura di una Storia universale.

Partiva con grosse ambizioni: "cerco di stabilire, e di ordinare, per me, e per altrui la verità delle istorie". Dalla creazione del mondo ai suoi giorni; e non limitandosi all'Europa, ma stendendo lo sguardo al mondo intero. Voleva "ben comprendere" tutto "il sistema di quella vasta Città, ch'è la terra, e di quel popolo innumerabile, che l'ha frequentata per cinquantasette secoli", formare "una idea chiara,intiera, e connessa dell'istoria del Mondo" (La istoria universale, Roma 1697, p. 97). L'America, la Cina non erano più sconosciute: le relazioni dei viaggiatori, l'opera dei missionari gesuiti avevano messo a disposizione degli studiosi un materiale prezioso. Bastava soltanto darsi la pena di interpretarlo. La conoscenza del mondo occidentale ci avrebbe guadagnato. La storia doveva promuovere nell'uomo la coscienza cosmopolitica, aiutarlo a sentirsi "cittadino del mondo, ed uno della repubblica di tutti gli uomini, nato ad estendersi, e conversare con ogni secolo per mezzo dell'animo, se bene obbligato a restringersi a vivere tra, più vicini d'un luogo, o d'una età, per l'abitazione del corpo". Storia universale, dunque: il sostantivo non è meno importante dell'aggettivo. Immensa l'opera dei cronologisti degli ultimi due secoli. Dalla lettura delle loro opere non restava tuttavia "quell'idea generale del tutto, che lasci un'organizzazione, e sistema, per così dire, de' secoli". Lo stesso difetto si riscontrava nelle pur pregevolissime raccolte degli antiquari. Il "dilicato genio del secolo" sentiva il bisogno di un "tutto", di un ampio e ordinato quadro dell'intera vicenda storica dell'uomo. Per ottenere il "sistema" non c'era altra strada da battere che quella di pensare i fatti, di afferrar la logica della storia. Il B. si accingeva dunque animosamente a trar partito, ai fini della vera comprensione storica, di due secoli di ricerche antiquarie e cronologiche: a comporre - per servirci di una sua immagine - da quelle slegate battute una musica.

Confrontata all'opera dei cronologisti, in discussione con i quali era nata, la Istoria appare in effetti dominata da una preoccupazione conservatrice: ristabilire indirettamente l'autorità storica delle Scritture. Conosce e stima, per esempio, l'opera di John Marsham; ma non condivide minimamente con lui le simpatie per l'Egitto; né affaccia con lui il minimo dubbio sulla tradizione biblica. Per vantare la propria antichità gli Egiziani calcolavano trentamila anni dalla creazione del mondo ad Augusto, quarantamila i Cinesi, quattrocentomila i Caldei: cifre vertiginose e incontrollate. A un computo più preciso, tutti quegli anni si riducevano a non più di quaranta secoli. Quattromila anni era il termine fissato dalla Volgata: Isaac Vossius, Riccioli, Pezron avevano scoperto però che la versione dei Settanta faceva il mondo più vecchio di millecinquecento anni. Il B., ben a conoscenza di quelle dispute che turbavano le coscienze di molti, si schierò con i tradizionalisti.

Se in cronologia navigava controcorrente, il B. era invece in linea con i tempi in metodologia. È tipica di questi anni la preoccupazione di fondar il racconto su una documentazione oggettiva. Ed è la prima preoccupazione del B.: "L'oggetto, più ricercato da noi nell'ordinare quest'opera, è stata la pruova delle istorie". L'attendibilità delle fonti letterarie era stata messa in dubbio dalla critica storica di quell'"esquisitissimo" secolo. Per sfuggire al "pirronismo" c'era solo un mezzo, ricorrere alle fonti archeologico-numismatiche, e per le età preistoriche non soltanto alla mitologia, ma alla etnologia, alla linguistica, all'onomastica, alla geologia. Con questi dati certi a disposizione si poteva "storicizzare" i miti, ritrovare sotto il denso travestimento favoloso l'originario nucleo di verità storica. I miti erano infatti nient'altro che finzioni consapevoli. Non c'era nel B. neppur il presagio di una nuova teoria del mito, di una nuova gnoseologia che gli consentisse di cogliere le dimensioni del mondo primitivo. È la conclusione degli studiosi che hanno esaminato l'Istoria in rapporto con la Scienza Nuova. Il B. precedette tuttavia di almeno vent'anni il Vico (che ebbe, del resto, ben presenti quelle pagine) nel tentativo di fornire una interpretazione storica dei poemi omerici. I capitoli dedicati alla ricostruzione del mondo greco arcaico sono in effetti i più riusciti dell'opera: quelli nei quali meglio si rivela l'acume del B. nell'indagare il viluppo di ragioni tutte umane che muovono la storia.

Nel momento in cui scriveva l'introduzione il B. pensava di giungere con il racconto fino ad Augusto, ma la narrazione s'interrompe alle soglie del "tempo istorico", all'"eccidio" dell'impero assiro. La ragione di quest'interruzione non è misteriosa. Il B. si affrettò a dar fuori prematuramente l'opera per farsene un titolo nel concorso alla carica di primo custode della Vaticana, vacante dopo la promozione del Noris al cardinalato: il suo vecchio sogno. Intanto andava componendo, in occasione probabilmente dell'editto imperiale di quell'anno, un trattato in tre libri de re beneficiaria dal titolo: Libertas Ditionis Ecclesiasticae a servitute beneficiaria et feudali Principum exterorum, di cui restano alcuni frammenti. In essi si fa menzione di un Opus feudale composto quattro o cinque anni prima (frammento della Istoria od opera diversa?). Nel gennaio del 1698, sempre per compiacere il pontefice, compose un'operetta sugli scavi ultimi di Anzio (De lapide Antiati epistola, Romae 1698). Pene e fatiche inutili. Il Casanata, cardinal bibliotecario, fece assegnare il 25 genn. 1698 l'incarico al suo protetto Lorenzo Zaccagni.

Un lutto familiare - la morte del padre - costringe il B. di lì a poco, verso il maggio del 1698, a un viaggio in "Lombardia". Ne approfitta per prender contatto con qualche gran letterato. Al Magliabechi - "il compendio delle Muse e delle Grazie" - lo presentò il Noris. Lo vedrà sia all'andata sia al ritorno; gli farà naturalmente dono dell'Istoria. Nel viaggio da Piacenza a Bergamo spera di poter fare una diversione a Milano per riverirvi il Muratori; altrettanto conta di fare nel partire da Lodi. Non potendo recapitargliela a mano gli invia comunque copia della sua opera. La risposta del Muratori lo trova nel settembre a Brescia. Non sperava in un'accoglienza così calorosa: "non ho già sperata all'opera tal protezione e commendazione". A Venezia nell'agosto aveva conosciuto lo Zeno; a Padova il Vallisnieri. A Pisa, nel viaggio di ritorno, prende contatti con l'ambiente universitario.

Con i letterati napoletani entrò in rapporto qualche anno dopo, nel 1702, allorché seguirà in qualità di storiografo la legazione del cardinale Barberini a Filippo V. Frequentò soprattutto Giuseppe Valletta, che gli comunicò manoscritte la sua difesa della filosofia moderna e la sua storia dell'Inquisizione. Non è escluso che in casa del celebre bibliofilo incontrasse anche il Vico. Certo è che nel 1709 questi fece recapitare "riverentemente" al B. una copia della sua prima importante opera a stampa: il De ratione. Resteràin relazione con alcuni di quegli uomini: monsignor Vidania, Matteo Egizio, Domenico Ausilio. A Roma stringerà una "amicizia germana" con Celestino Galiani.

Di nuovo a Roma nei primi mesi del 1699, il B. si rimette alacremente alla stesura della Istoria. Riprende dalla cronologia, "e mi veggo nascere - confida al Muratori - qualche pensiero non del tutto immeritevole di applicazione". Di sue "fatiche intorno alla cronologia" parla alla fine del giugno al Cassini. Sta studiando il Kanon basileion e ha bisogno di sapere con esattezza il grado dell'afelio di Venere al tempo di Tolomeo. Le molte congregazioni alle quali è tenuto a partecipare lo distolgono ben presto da quelle occupazioni. Ne è contrariato al massimo: "se non ho tempo libero temo assai che i secoli non si fermino". Per sua disgrazia, nel maggio dell'anno seguente, l'Ottoboni lo trasferisce dalla biblioteca all'anticamera, "onore poco per sé connesso al tavolino". Non vede l'ora che finisca il conclave per farsene esonerare.

Gran fortuna fu per il B. che da quel conclave uscisse eletto l'Albani, suo antico estimatore. Il nuovo pontefice gli offrì la scelta tra la nomina a cameriere d'onore e quella a secondo custode della Vaticana. Il B. avrebbe finalmente potuto realizzare la sua antica aspirazione, ma preferì rifiutare. Non voleva rinunziare alle ottime prospettive che gli apriva dinnanzi la carica di cameriere d'onore.

"È un gran vantaggio - spiegava - servire al Papa così da vicino, ed essergli tutto giorno avanti a gli occhi". Per allora puramente onorifico (gli emolumenti non arrivavano a sessanta scudi l'anno), quell'impiego era riuscito a molti "in pochi anni di vantaggio tale che ora non danno incomodo alcuno alle case loro". Un'occasione unica: "Si tratta di dar sesto a tutta la vita". Andò dunque ad abitare nei palazzi vaticani.

Benché la sua situazione economica non fosse brillante (non lo sarà mai), il B. era lusingato dagli onori che gli conferiva il pontefice: in pochi mesi l'aveva creato cameriere d'onore, segretario della Congregazione del Calendario e di quella dell'Acqua Paola e dell'Acqua Vergine, e gli aveva commissionato l'erezione di una meridiana nella chiesa di S. Maria degli Angeli, molto più grande di quella costruita qualche decennio avanti dal Cassini in S. Petronio.

Sarebbe servita non soltanto per il Sole come quella bolognese, ma per tutti i pianeti e per le stelle fisse; ed essendo costruita su un edificio vecchio di quattordici secoli (le terme di Diocleziano) c'era da sperare che non andasse soggetta ai cambiamenti che in quella si registravano. Nel settembre 1701 erano cominciate le osservazioni celesti; di lì a poco avevano avuto inizio i lavori. Subiranno una lunga interruzione nei primi mesi del 1702 per il viaggio del B. a Napoli. Ripresi nel luglio, erano a buon termine il 20 agosto: in quel giorno il papa in persona si recò a visitarli. Saranno terminati nel dicembre. Il B. ebbe compagno nella sua impresa il Maraldi, nipote ex matre del Cassini, che a Parigi la difese dalle critiche dei malevoli. I contemporanei molto ammirarono quell'opera: a cominciare dal Leibniz, che non si stancava di vantarla ai suoi amici, al Römer a Berlino, al Marinoni a Vienna. Quell'ottima iniziativa - insisteva a dire - andava imitata. Sull'esempio della romana fu eretta in effetti quella di St.-Sulpice e nel 1730quella dell'Observatoire di Parigi. Ma fino a quando se ne costruirono, rimase insuperata.

La costruzione della meridiana della Certosa era in relazione con il progetto della correzione gregoriana. Nominato nel 1701 segretario della Congregazione per la Riforma del Calendario (ne era prefetto il cardinale Noris), il B. escogitò un suo ciclo ottogrammo che gli sembrava la miglior soluzione del problema di un ciclo pasquale composto d'anni gregoriani (Solutio problematis paschalis, Romae 1703).

A quella sua proposta giunsero consensi da ogni parte, e principalmente dal Leibniz, interessatissimo a tale riforma. Tutti gli interpellati - dal Magliabechi all'Aulisio, dal Sacheri al Muratori, dall'Intieri al Mezzavacca - furono unanimi nel lodarla. L'opera della Congregazione era, dunque, ben avviata: non corrispondevano assolutamente a verità - il B. protestava sdegnato - le insinuazioni fatte dai giornalisti di Trévoux di dissensi irrimediabili tra i suoi membri. L'intesa perfetta tra il B. e il prefetto stesso della Congregazione da una parte, e il Leibniz e i suoi matematici luterani dall'altra, aveva però messo in allarme gli spiriti più fanatici di Roma. Ormai tra costoro si parlava correntemente di "calendario leibniziano". Giusto Fontanini andava confabulando con Domenico Quartironi, professore di matematica alla Sapienza, contro quei progetti: "il Leibnizio - gli diceva in tutta segretezza - è uno de' più scaltri, e maliziosi luterani, che si possa trovare". La riforma non poteva arrecare che danni. Di lì a poco la morte del Noris e lo stato di guerra generale fecero dimenticare del tutto gli affari del calendario. Solo con il ritorno della pace - affermava nel 1707senza troppa fiducia il B. al Leibniz - si poteva sperare in una ripresa di quel progetto. La morte del Noris rattristò grandemente il B.: dal 1692-da quando cioè il gran veronese era giunto, con la più viva avversione, a Roma - gli era stato molto vicino. Ne tracciò, per il voto unanime degli Arcadi romani, un affettuoso ritratto, e nel 1727, allorché il Maffei si accinse a ristamparne le opere, intervenne con autorevoli consigli.

Il B. era andato internandosi sempre più in quegli anni nelle questioni di cronologia e di computo. Alle supputazioni astronomiche alternava - come al solito - indagini storiche. Studiò con particolare attenzione un documento difficilissimo, fino allora da nessuno decifrato: le tavole e il ciclo pasquale di 112 anni che si legge inciso in lettere greche sulla cattedra della famosa statua di s. Ippolito scavata nel 1551 (oggi nei Musei Lateranensi). La riscoperta nel 1704 di un frammento marmoreo, già studiato nel sec. XVI da Manuzio, Sigonio, Gruter, Scaligero e poi smarrito, gli offrì l'occasione per una sottilissima ricostruzione del calendario giuliano. L'una e l'altra dissertazione, assieme a una descrizione della meridiana della Certosa, pubblicò a Roma nel 1705 (De Kalendario et cyclo Caesaris ... ). Una parte di quella su s. Ippolito il Fabricius ristampò nel 1716 innanzi agli Opera omnia del santo.

Il B. aveva ripreso intanto le osservazioni astronomiche, che dal 1702 in poi prese a comunicare regolarmente alla Académie des Sciences. Nominato il 4 marzo 1699 membro corrispondente, alla morte di Jacques Bernoulli, il 9 genn. 1706 diventò uno degli otto associati stranieri. Erano ancora in piedi gli affari del calendario quando nel 1703 Clemente XI lo nominò "presidente delle antichità di Roma". Il B. svolse in tal carica un'attività altamente meritoria a tutela del patrimonio archeologico della città: almeno in teoria, nessuna delle antichità scavate poteva esser rimossa senza il suo permesso scritto.

Encomiabile la sua opera di salvataggio, fortunata o sfortunata che fosse, di rarissimi pezzi antichi: nel 1724, per esempio, ritrovata la preziosa tavola marmorea rappresentante la pianta di Roma antica (Forma Urbis Romae), si adoperò perché venisse salvata dalla sicura rovina (Del Palazzo de' Cesari, Roma 1738, pp. 14 ss.; La pianta marmorea di Roma antica, a cura di G. Carettoni, A. M. Colini, L. Cozza, G. Gatti, Roma 1960, I, pp. 17, 26, 32). Nella sua veste di sovrintendente alle antichità, diresse nel 1705i primiscavi sistematici sull'Aventino. Con grande fiuto intuiva il valore dei monumenti messi in luce. Ritrovò, nel corso di questa campagna, un planisfero egizio posteriore forse al II secolo dell'era cristiana.

Stimolato dalla nuova scoperta, il B. tornò a riconsiderare l'atlante farnesiano il più antico dei tanti globi celesti costruiti nell'antichità che ci sia rimasto (oggi al Museo Naz. di Napoli). Non era un documento venuto alla luce in quegli anni: era stato infatti disseppellito al principio del sec. XVI. Ma nessuno aveva pensato di trarne profitto per la storia dell'astronomia antica. Cominciò a lavorare a un'operetta dal titolo: Globus Farnesianus, pubblicata nel 1752 dal nipote Giuseppe nel tomo IV della Historia ecclesiastica. Col calcolo della precessione degli equinozi, il B. riuscì a determinare che il globo era stato eseguito nel secolo degli Antonini (coevo dunque dell'Almagestum di Tolomeo): è la datazione oggi comunemente accettata. Il B. aveva però studiato quel globo non soltanto per se stesso, ma per trovarvi i "rudimenti" della cronologia e della storia dell'età eroica: aveva cioè ripreso e ampliato gli spunti della Istoria. Aveva ora nelle mani un filo sicuro per addentrarsi nel labirinto di quel tempo remoto: la regressione dell'equinozio di primavera. È evidente l'affinità nel tema e nel metodo delle ricerche bianchiniane con la Chronology (1728) del Newton. Il B. stesso l'aveva notata con il più vivo piacere appena gli fu comunicata da Thomas Dereham quella fatica postuma del grand'uomo. L'aver trovato le proprie riflessioni "secondate" da quelle del Newton lo aveva anzi incoraggiato a dar fuori quel suo scritto, contenente "le dimostrazioni della cronologia sulla precessione degli equinozi". Lo scritto bianchiniano merita a buon diritto una parte degli elogi che vennero fatti a quello del suo maggior contemporaneo. La ricerca di documenti più sicuri delle fonti letterarie per la storia delle epoche più antiche aveva indotto il B. ad appoggiarsi in un primo tempo alle fonti archeologiche (dal Newton invece disprezzate) e quindi a pensare (indipendentemente da lui e prima di lui) a una possibile utilizzazione dei calcoli astronomici per l'accertamento e l'emendamento della cronologia tradizionale.

Il B. era ormai in Europa un uomo celebre: il suo parere d'antiquario era ricercato e autorevole. Fu lui a condurre i primi scavi sistematici del Palatino, portando alla luce in particolare le sale della Domus Flavia e le costruzioni ad essa sottostanti. Queste fabbriche, da lui diligentemente disegnate nell'opera postuma Del Palazzo dei Cesari, andarono in seguito nuovamente ricoperte. Solo un cinquantennio dopo gli scavi furono ripresi dall'abate Rancoureuil. Su invito del Davia lavorò a un'operetta sui colombari scoperti nel 1725 sulla via Appia (Camera ed inscrizioni sepulcrali de' liberti,servi ed ufficiali della casa d'Augusto, Roma 1727). È tra le opere antiquarie del B. la più fresca di tutte, quella dove meglio appare la sua abilità nel rianimare le testimonianze archeologiche. Con poche secche epigrafi funerarie seppe far luce su un insieme di destini umani e rivelare l'alienante lavoro quotidiano dei servi, liberti e ufficiali della casa di Augusto.

Uno dei suoi primi progetti come "presidente" era stata la creazione di un museo d'antichità sacra. Il pontefice gli aveva dato la sua approvazione. Il B. non risparmiò fatica per mandare ad effetto quell'idea. Nel febbraio del 1706 credeva di esser vicino alla realizzazione. Ma la creazione di tal museo sarebbe costata troppo: ottantamila scudi. La Camera era esausta. Nel 1710 il segretario di Stato gli comunicò l'ordine di sospendere ogni cosa. Come premio di tanta attività il 10 aprile gli venne conferito un canonicato in S. Maria Maggiore. A prova della modernità delle vedute del B. si può portare l'idea della pubblicazione di periodiche "notizie degli scavi". Ne aveva parlato nel 1717 al Montfaucon: "Sto per disporre uno di questi nostri stampatori a fare ogni anno una specie di Giornale delle Antichità che si vanno cavando: e crederei che vi fosse materia per darne ogni anno un giusto volume in quarto". Purtroppo i librai romani non intrattenevano rapporti di commercio con quelli fuori d'Italia; egli temeva perciò - ed era timore, il suo, fondato - che l'editore si tirasse indietro. Ghiotto dei tesori che il suolo di Roma andava giorno per giorno restituendo, e coscienzioso com'era, prendeva di tutti quei reperti esatta nota nei suoi quaderni. Talvolta abbozzava trattatelli che poi lasciava imperfetti: come quello De clivo Citorio, utilizzato a suo tempo dallo Hülsen.

Alla fine del 1704 fu interpellato dalla Congregazione per il trasporto della colonna antonina nella piazza di Montecitorio. Era la più antica delle colonne monolitiche che si trovassero allora in Roma. Due anni prima era venuta alla luce la base istoriata e il B. l'aveva dottamente illustrata (De Kalendario, cap. VII). I tentativi per alzarla compiuti nell'ottobre non avevano avuto successo. Era ovviamente un problema di meccanica (momenti delle trazioni, resistenze dei solidi): il B. lo risolse con l'aiuto del Borelli. Non aveva fatto che una "roza applicazione" - si schermiva con il Cassini - di "dottrine, che ne' suoi fonti meritano ogni considerazione, ma derivate nel mio torbido, e disadatto canale perdono assai della nativa chiarezza, con cui sorgevano illustri dal Galileo e dal Borelli" (Parigi, Bibliothèque de l'Observatoire, AB 49). I capomastri seguirono le sue istruzioni: salutata dal suono di pifferi e tamburi, e da salve di cannone, la colonna fu issata nel 1705.

Questa passione per l'antichità il B. andava comunicando a un giovanissimo e precoce nipote del papa: Alessandro Albani, il futuro protettore del Winckelmann. In suo onore aveva creato sin dal 1700 un'accademia che aveva intitolato degli Antiquari alessandrini. La piccola accademia che si adunava nelle stanze del Quirinale non si occupava soltanto di antichità, ma volentieri anche di scienza. Fu qui che, probabilmente nel 1707, il B. rifece con successo gli esperimenti newtoniani di rifrazione prismatica della luce. Aveva avuto l'Opticks appena uscì la traduzione latina del Clarke (1706) e l'aveva trovata "bellissima". Fu senza dubbio il primo in Europa a rifare quelle esperienze: in Francia si cominciò soltanto nel 1715. Ne parlò con soddisfazione allo stesso Newton: avevano confermato "ad amussim" le sue ipotesi. Le rifece più di una volta al suo ritorno dall'Inghilterra nell'accademia che si riuniva nel 1714intorno al cardinale Gualtieri. Nel 1728al Rizzetti, che nel suo trattato De luminis affectionibus aveva impugnato le conclusioni del Newton, disse apertamente il suo disaccordo: aveva per parte sua ritrovate così esatte quelle esperienze che "o nel fatto delle pruove, o nel discorso che deduce non credo sia in istato d'essere corretto".

La fama alla quale il B. era salito in quegli anni, la fiducia che aveva in lui il pontefice indussero nell'autunno del 1704 il Muratori e Bernardo Trevisan a porlo a capo della loro "Repubblica letteraria d'Italia", e a mandare in giro in suo nome - senza averlo prima interpellato - la circolare d'invito. Il B. reagì energicamente in una lettera del 7 febbr. 1705 al Muratori (e al Bacchini) contro quella soperchieria. Più grave il dissidio di fondo. In breve: il progetto muratoriano gli pareva infetto da boria nazionale. Di fronte alle primissime manifestazioni di nazionalismo "risorgimentale" il B. si metteva in guardia: sentiva molto più vicine al suo cuore di umanista cristiano le aspirazioni cosmopolitiche del secolo nascente.

Dopo questo incidente il B. interruppe per sempre i rapporti con il Muratori, e conservò una irriducibile diffidenza per tutte le iniziative che partivano da lui o a lui facevano capo. Si mantenne freddo all'inizio verso il Giornale de' Letterati perchétemeva - giudicando dalle sue insistenti rivendicazioni del nome italiano - che fosse l'organo della "repubblica degli arconti". Mutò atteggiamento, pur continuando a disapprovare quella polemica, quando seppe dal Maffei che il Muratori non vi aveva la minima parte.

Non avrebbe però mai avvilito se stesso col farsi persecutore. Le sue riserve all'edizione del Liber pontificalis di Agnello del Bacchini non furono dettate dal risentimento: lo dimostra il semplice calcolo delle date. Le censure rese al principio del 1704dal B. in veste di qualificatore del S. Uffizio erano moderate nel contenuto e nel tono: sinceramente ammirava la perizia filologica del benedettino e vantava, in apertura, le sue molte benemerenze scientifiche. Altrettanto moderato era stato anni prima, nel 1702, nei confronti dell'epistola del Mabillon De cultu SS. ignotorum; e il Mabillon gliene era stato gratissimo. Il B. conveniva infatti sull'opportunità di quella polemica. Invitato una seconda volta a riferire il 1º apr. 1705della nuova edizione emendata di quella scottante epistola, il B., dopo pazientissimo esame, concluse che il Mabillon aveva "religiosamente eseguito quanto da lui veniva desiderato". Nessuna meraviglia invece che anni dopo, invitato a riferire sulla terza deca dell'Istoria del Giannone, concludesse, visto "lo spirito d'arroganza e di sedizione" del suo autore, per la condanna.

Il 18 maggio 1712 il B. apprese con gioia di esser stato deputato a recar la berretta cardinalizia al Rohan. Quel viaggio gli offriva la possibilità di visitare una gran corte (troverà splendida la tetra Versailles degli ultimi anni di Luigi XIV) e di conoscere di persona i confrèresdell'Académie des Sciences.

"Questo viaggio - confidava al Manfredi - mi darà occasione di apprendere colà molte belle cognizioni che mi animeranno come io spero a ripigliare gli studi astronomici". Non perderà in effetti occasione di visitare dovunque passava raccolte di medaglie e gabinetti scientifici. Al viaggio si preparò coscienziosamente: cominciò a tenere, appena gli giunse la nomina, un esatto diario dei suoi movimenti e dei suoi incontri. Non lo smetterà che al suo ritorno a Roma, il 31maggio dell'anno seguente.

Dalla Francia farà un'escursione in Alsazia, nei paesi renani, in Belgio e in Olanda. Tornato a Parigi per trascorrervi il Natale, il 14 genn. 1713 salpa per l'Inghilterra. Fu uno dei primi italiani che nel nuovo secolo, mettesse piede nell'isola: lo stato di guerra era stato, nel decennio precedente, un ostacolo insormontabile per i visitatori continentali.

Al momento che vi giunse il B. la pace era imminente. Le notizie di pace "che si offerivano di giorno in giorno" resero "tanto più grato" il suo soggiorno. Era l'annus mirabilis della cultura inglese: lo Swift, l'Arbuthnot, il Pope, l'Addison, lo Steele erano allo zenit del loro genio. Il B. avvicinerà i primi due, ma cercherà d'incontrare di preferenza gli uomini di scienza: Flamsteed, Halley, Newton soprattutto. Tre volte ebbe con lui lunghi colloqui. Il Newton stava in quell'anno ripubblicando con importanti aggiunte i suoi Principia. Da poco aveva iniziato la gran polemica con il Leibniz a proposito del calculus: le prime copie del Commercium epistolicum erano state presentate alla Royal Society il giorno stesso dell'arrivo del Bianchini. Gliene saranno consegnate cinque copie da distribuire ai matematici suoi amici (Grandi, i due Manfredi, Galiani). Erano i primi esemplari del celebre libello a varcare la Manica. Non potendo dargli i Principia, il Newton gli donò due esemplari dell'Opticks, uno per sé e l'altro per la Biblioteca Vaticana (dove tuttora si conserva), assieme alla raccolta curata due anni prima da William Jones dei suoi rarissimi scritti matematici, uno dei quali - la Methodus differentialis -fino allora inedito. In cambio ricevette dal B. il De Kalendario, la Solutio problematis paschalis e le tavole del globo farnesiano. Il Newton conservò dello scienziato italiano un buon ricordo. Parlava spesso di lui a un amico comune, Alexander Cunningham (lo storico), con "stima ed affetto". Allorché il B., ritornato in Italia, gli inviò nell'aprile del 1714 due sue osservazioni astronomiche, il Newton si affrettò a comunicarle alla Royal Society, e le fece inserire, l'una e l'altra accompagnata da parole di lode, nel numero di luglio-settembre delle Philosophical Transactions. Era stato il Newton del resto a proporre la sua candidatura alla Royal Society. Il B. partecipò a due meetings della società. In quello del 2 febbraio assistette agli esperimenti elettrici di Francis Hauksbee, che tanto gli piacquero da farsene, al suo ritorno in Italia, attivissimo propagandista. Per sua ispirazione uscirà nel 1716 la traduzione italiana dei Physicomechanical experiments, che efficacemente contribuì a divulgare in Europa quelle importanti esperienze. Fece pure la visita di rito a Oxford: delle accoglienze calorose che vi ricevette nei due giorni che vi rimase è testimonianza, oltre che nel suo Iter in Britanniam, nei diari dello Hearne.

Conservò da quel "fortunatissimo viaggio" l'immagine di un paese prospero, ricco, civilissimo. Rimase soprattutto affascinato dai modi dell'intelligenza britannica. Verso il 1720 cominciò a prendere in compagnia della moglie del pretendente - l'infelice Clementina Sobieski - lezioni di lingua inglese. Fece tali progressi da riuscire a maneggiare quella lingua non soltanto in prosa ma in versi. A Urbino e a Roma frequentò assiduamente la corte stuartiana, e divenne familiare di quell'"angelo" che era per lui Giacomo III. Nel 1719, al tempo dello sbarco di Bristol, sperò vivamente nella possibilità di un suo ritorno sul trono inglese. Giacomo era intervenuto, tra l'altro, in suo favore allorché, nell'autunno del 1717, nell'eventualità che venisse creata una nunziatura in Moscovia, era stato fatto il suo nome. Il B. non ambiva quella dignità: "Conosco almeno in parte la mia inabilità - diceva alla sorella Mattea a pericolo scongiurato - per non azzardarmi ad imprese così importanti; e se bene il Signore può fare miracoli, nondimeno l'ordine della provvidenza vuole che noi non tentiamo il Signore a farli, per così dire, per forza".

Come s'era ripromesso, il viaggio europeo gli aveva fatto nascere nuove idee, un nuovo ardore di studi. La grande meridiana tracciata, con il lavoro di sedici anni, attraverso la Francia dai Cassini gli fece nascere il desiderio di far qualcosa del genere per l'Italia: di misurare cioè tutto l'arco di meridiano dall'uno all'altro mare "onde risulta poi la cognizione di tutto il sito d'Italia, anzi di tutto il giro del Globo terrestre". Le discussioni sulla grandezza e figura della Terra (cominciavano allora ad essere e rimarranno per tutto il secolo d'attualità) avevano rinnovato lo studio della geografia. Con il maggiore di questi nuovi geografi, il Delisle, entrò infatti in rapporto attraverso il Polignac. Cominciò le proprie misurazioni nel 1717; nel 1724, nell'atto di pubblicare una parte minima dei suoi risultati, prometteva di dare al più presto fuori l'opera ultimata. Non poté mantenere la promessa. I risultati di tante costose fatiche saranno resi noti dopo la sua morte dal Manfredi, che dovette durare una pena incredibile a metter in ordine "migliaia di fogliuzzi". Benché l'opera del B. non fosse riuscita troppo esatta, era stato bene - pensava il Bottari - averla accozzata "perché i mattematici facilmente potranno farne una esattissima" (cfr. Nicolini). Sarà utile infatti a Cristopher Maire e Ruggero Boscovich quando nel 1755 si posero, d'ordine del pontefice Benedetto XIV, a riformare due gradi del meridiano attraversante gli Stati della Chiesa.

L'anno prima il B. aveva intrapreso con cannocchiale reticolato a osservare due stelle di prima grandezza (Capella e Lyra)allo scopo di determinarne la parallassi stellare. Cercava la prova astronomica del moto orbitale della Terra. Scoprì con nove anni di anticipo sul Bradley l'aberrazione della luce. Contemporaneamente aveva iniziato le osservazioni di Venere, che proseguirà fino ai suoi ultimi anni. Si servì per queste osservazioni di telescopi di lunghissima portata (dagli 80 ai 100 metri), che, con uno speciale dispositivo da lui escogitato e comunicato nel 1713 all'Académie des Sciences, era riuscito a render maneggevoli (nel 1727 comincerà però a servirsi di un telescopio a riflessione, newtoniano, e se ne dichiarerà soddisfattissimo). Con quei grandi cannocchiali si illuse di aver scoperto, dopo tanti tentativi infruttuosi di astronomi anche valentissimi come Huygens, le macchie di Venere. Le sue carte della superficie di questo pianeta non hanno però che un valore storico quanto quelle posteriori del Niessen (1891) e del Lowell (1896). Quelle macchie (estremamente labili, forse per la densa atmosfera che circonda il pianeta) rimasero a lui, e rimangono tuttora, inafferrabili. Grazie alla "scoperta" di esse poté fissare il tempo di rotazione del pianeta in 24 giorni e 8 ore. Ancor oggi non si è riusciti a ottenere valori certi: lo Schiapparelli concluse per un periodo di 225 giorni, lo Jarry nel 1928 lo ridusse a 23 ore; F. E. Ross, mediante ricerche fotografiche eseguite con filtri selettori di varia trasmissione spettrale, inclinò verso un periodo di una trentina di giorni: si riavvicinò dunque ai valori trovati dal Bianchini.

Il B. non aveva dimenticato gli studi storico-filologici. Sono di questi anni alcune dissertazioni storiche sulla Chiesa dei primi due secoli destinate a far parte di una Historia ecclesiastica concepita con gli stessi metodi della Istoria universale; ed è di questi anni la più grossa impresa filologica della sua vita: la ristampa del Liber pontificalis. Pur conoscendo e approvando le conclusioni dello Schelstrate continuò nel frontespizio ad attribuire l'opera ad Anastasio Bibliotecario.

Il progetto del B. era di pubblicare cinque volumi in folio: tre soli vedranno la luce nella sua vita, un quarto sarà edito dal nipote Giuseppe. Si tratta - è giudizio concorde di Duchesne, Mommsen e Leclercq - di un monumento di "dimensions respectables". Tuttora utilissime le prefazioni e le copiosissime note. Il B. vi descrisse tra le altre cose con maggior cura le iscrizioni contenenti le serie papali allora visibili in S. Paolo fuori le Mura e andate poi quasi interamente distrutte.

Colpito da idropisia, il B. chiuse la sua operosissima e limpida esistenza a Roma il 2 marzo 1729. Sul suo corpo fu trovato, alla morte, un cilizio.

Opere: Alle opere registrate da G. M. Mazzuchelli (Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 1172-1177) vanno aggiunte: Theses physicae, Bononiae 1679; Poetico-Astrologicum Vaticinium, in appendice a L. Bacchetti,De Angelica D. Thomae doctrina ac puritate, Patavii 1681; Giove osservato ne' segni di Leone e di Vergine gli anni 1682 e 1683...,Verona 1683; Dissertazione... (1687), in Nuova raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di A. Calogerà, XLI, Venezia 1785, n. 2; Sulle stelle cangianti ed in particolare su la stella della Balena, in Giorn. astron. ad uso comune, Parma 1841, p. 55; Rel. delle cose più erudite e rare de' Principi di Firenze e di Parma e nell'Istituto di Bologna mandata a S. M. Giovanni V Re di Portogallo, a cura di G. Giuliari, Verona 1882; Lettera... agli eccell. Provveditori della Rep. Veneta intorno alla fortezza di Guastalla, a cura di G. Giuliari, Verona 1883; Relazione della fortezza di Guastalla, a cura di G. Giuliari, Verona 1885; Observationes circa fixas, a cura di F. Porro, Genova 1902; Iter in Britanniam, in S. Rotta, F. B. (cit. in bibl.).

Bibl.: Tra i contributi più recenti sull'opera del B. sono da segnalare: I. Carini,L'Arcadia, Roma 1891, pp. 84-100; E. De Broglie,B. de Montfaucon, Paris 1891, I, p. 336; A. Spagnolo, F. B. e le sue opere, in Mem. dell'Acc. d'agricoltura,scienze e lettere di Verona, s. 3, LXXXIV (1898), pp. 81-122; B. Croce, F. B. e G. B. Vico, in Conversazioni critiche, II, Bari 1950, pp. 101-109; G. V. Callegari,L'astronomo F. B., in Garda, giugno-luglio 1929; A. Alberti Poia,La Meridiana della Chiesa di S. Maria degli Angeli, Roma [1947],passim; F. Nicolini,Un grande educatore italiano: C. Galiani, Napoli 1951, pp. 25, 29, 182 s., 222-224; H. C. King,The Hist. of the Telescope, London 1955, pp. 64 s.; A. Momigliano,Contrib. alla storia degli studi classici, Roma 1955, pp. 85-87; F. Lanza,L'"Historia Universale" del B. e la "Scienza Nuova", in Lettere ital., X(1958), pp. 339-348; S. Rotta, F. B. in Inghilterra. Contrib. alla storia del newtonianismo italiano, Brescia 1968, al quale si rimanda per più precise notizie.

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