CILEA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25 (1981)

CILEA, Francesco

Raoul Meloncelli

Nacque a Palmi (Reggio Calabria) il 23 luglio 1866 da Giuseppe, apprezzato civilista e dilettante di musica, e da Felicita Grillo. A soli sette anni fu inviato a Napoli per compiervi la sua educazione ed entrò in un convitto privato dove avrebbe dovuto essere poi avviato agli studi di diritto e seguire le orme paterne; fu tuttavia attratto dalla musica che era tra le materie d'insegnamento, e non tardò a rivelare una innata musicalità oltre che straordinarie doti di improvvisazione, tanto che dopo essere stato presentato per un giudizio a Francesco Florimo, allora bibliotecario del conservatorio di S. Pietro a Maiella, fu da questo esortato a dedicarsi interamente alla musica. Superata l'iniziale opposizione dei genitori che avrebbero preferito tenerlo lontano da una carriera giudicata troppo lontana dalle tradizioni della famiglia, nel novembre 1878 entrò come convittore a pagamento nel conservatorio napoletano avendo quali maestri Beniamino Cesi, per il pianoforte, e Paolo Serrao, per l'armonia e il contrappunto. Condiscepolo di Umberto Giordano, si distinse immediatamente tra gli allievi più dotati e diligenti. e dopo un solo anno di studio riuscì a superare brillantemente il concorso con cui gli véniva consentito di essere ammesso tra i convittori a titolo gratuito; la sua formazione musicale avvenne pertanto sotto i migliori auspici e nel termine di pochi anni, grazie ai progressi compiuti, si guadagnò la stima degli insegnanti tanto da essere nominato "maestrino" della classe di contrappunto, incarico che gli consentì di mettere in luce quelle qualità organizzative e didattiche che lo avrebbero in seguito condotto alla direzione del conservatorio napoletano. Gli venne affidata la preparazione dei saggi annuali del conservatorio in cui di volta in volta inserì sue composizioni vocali e strumentali; nel 1887 una Suite per orchestra gli procurò quale primo riconoscimento una medaglia d'oro del ministero della Pubblica Istruzione. Frattanto nel 1886, in sostituzione del Cesi chiamato a Pietroburgo, fu nominato quale suo successore nella cattedra di pianoforte Giuseppe Martucci e il C. si distinse come migliore allievo della sua classe per la padronanza della tecnica pianistica e la sensibilità interpretativa. Diplomatosi nel 1889, presentando per il saggio finale un'opera in tre atti su libretto di E. Golisciani dal titolo Gina, diede chiara prova del suo talento drammatico rivelando certi tratti stilistici ricorrenti nella parabola evolutiva della sua produzione teatrale. Il lavoro, da lui stesso diretto e concertato il 9 febbr. 1889 nel teatrino dei conservatorio, fu accolto favorevolmente dal pubblico e riportò un lusinghiero successo da parte della critica, rappresentata per l'occasione da Roberto Bracco, che in un suo articolo sul Corriere di Napoli del 13-14 febbraio preconizzò per il giovane compositore un brillante avvenire; della prima prova del C. furono elogiate in particolare "l'abbondanza e la spontaneità delle melodie, la spigliatezza del movimento scenico, l'aderenza della musica allo spirito della pièce" (D'Amico, 1960, p. 37). Le aspettative della critica non sarebbero rimaste deluse poiché il giovane compositore mantenne le promesse rivelandosi fine melodista e abile orchestratore, degno erede della grande tradizione operistica napoletana. Conseguito il diploma nel conservatorio in cui, attraverso un decennale e severo tirocinio, aveva maturato la sua personalità musicale, vi fu immediatamente chiamato con l'incarico di professore straordinario di armonia e pianoforte complementare; l'impegno assunto presso la gloriosa istituzione, ove rimase fino al 1892, non gli impedì di dedicarsi alla composizione e di dare libero sfogo alla sua vocazione teatrale. Volle cimentarsi in una nuova opera e l'occasione si offrì allorché, presentato all'editore Edoardo Sonzogno da Paolo Serrao, gli venne affidato un libretto da musicare, La Tilda, di Angelo Zanardini. La vicenda, ricca di situazioni drammatiche d'ambientazione tipicamente verista poco si adattava alle aspirazioni romantico-decadenti del giovane compositore, che tuttavia, accintosi al lavoro stimolato anche dalla fiducia in lui riposta dal celebre editore, lo portò a termine in breve tempo. L'opera, diretta da Rodolfo Ferrari, andò in scena il 7 apr. 1892 al teatro Pagliano di Firenze - avendo F. Torresella quale protagonista - e riportò un ottimo successo di pubblico e di critica che ne sottolineò gli aspetti più convincenti. L'unanime consenso riportato dall'opera, che il 23 novembre dello stesso anno apparve sulle scene della Pergola e poi in numerosi altri teatri italiani, fu sanzionato dalla rappresentazione avvenuta il 24 sett. 1892 a Vienna al teatro dell'Esposizione musicale in occasione di una stagione d'opera italiana organizzata dall'editore Sonzogno; la compagnia, guidata da L. Mugnone, fu accolta entusiasticamente dal pubblico e dalla critica che furono conquistati dagli. esponenti più significativi della "giovane scuola" italiana, rappresentata per l'occasione da Mascagni, Giordano, Leoncavallo e dallo stesso C., il quale fu partecipe dell'entusiasmo generale e trovò un sostenitore nella voce autorevole di E. Hanslick, che ne apprezzò la fluidità melodica e l'abilità del linguaggio teatrale. Tuttavia, nonostante il successo di pubblico e i riconoscimenti della critica, un profondo senso di autocritica e la consapevolezza di aver affrontato un genere di teatro musicale troppo lontano dalla propria sensibilità, indussero il C. a ritirare lo spartito contro, il parere dello stesso editore, che tuttavia continuò a sostenerlo e a credere nelle sue possibilità creative. Lasciato l'insegnamento nel conservatorio napoletano per dedicarsi completamente alla composizione, trovò nell'Arlesiana di A. Daudet il soggetto che andava cercando e per nulla intimorito dalla precedente esperienza di Bizet si accinse immediatamente al lavoro sollecitato dalle pressanti insistenze dell'editore Sonzogno. Affidata la stesura in versi a Leopoldo Aiwenco, si accinse alla composizione dell'opera che, iniziata nel 1896 e portata a termine nel 1897, fu rappresentata al Lirico di Milano il 27 novembre dello stesso anno. Accolta con esito lusinghiero, ma in genere alquanto contrastato, anche per la mediocrità della compagnia di canto - nonostante E. Caruso allora agli inizi della carriera vi sostenesse il ruolo del protagonista - l'opera in due atti e tre quadri subì poi vari rimaneggiamenti; accusato di monotonia, prolissità e mancanza di vigore drammatico il C., che aveva trovato un accanito oppositore in Amintore Galli, consigliere tecnico dell'editore Sonzogno, fu costretto suo malgrado ad impegnarsi in una nuova stesura dell'opera che, rinnovata in tre atti, fu rappresentata con miglior fortuna, ma senza il previsto successo ancora al Lirico di Milano il 22 ott. 1898; in una nuova versione con varie aggiunte, ricavate anche da musiche soppresse in una precedente stesura, l'opera fu poi ripresentata con esito favorevole il 28 marzo 1912 - protagonisti M. Fameti e R. Grassi, direttore L. Mugnone - al teatro S. Carlo di Napoli; approdò infine alla Scala di Milano, ove l'11 apr. 1936 riportò un vero trionfo, grazie anche alla partecipazione di interpreti, di altissimo livello come M. Carosio, G. Pederzini, T. Schipa e M. Basiola. Frattanto nel 1896, quale vincitore della cattedra di armonia nell'istituto musicale di Firenze, il C. aveva ripreso l'insegnamento senza tuttavia trascurare la composizione, cui dopo le amarezze seguite alle disavventure dell'Arlesiana, destinata ad essere per molto tempo incompresa, nonostante le numerose dimostrazioni di stima, tornò a dedicarsi con rinnovato entusiasmo. Voccasione gli fu ancora una volta offerta dal Sonzogno che gli propose di musicare l'Adriana Lecouvreur, un lavoro di E. Scribe ed E. Legouvé adattato per la scena lirica da A. Colautti. L'opera, diretta da C. Campanini, fu rappresentata. con grande successo al Lirico di Milano il 6 nov. 1902 con una eccezionale compagnia di canto formata da E. Caruso, A. Pandolfini, G. De Luca, E. Ghibaudo, iniziando da quel momento il suo trionfale cammino nei maggiori teatri del mondo e rivelandosi indiscutibilmente come il suo lavoro teatrale più riuscito, vivo e scenicamente efficace. Infatti dopo una prima clamorosa affermazione internazionale sulle scene del teatro dell'Opera di Buenos Aires, l'opera tra il 1903 e il 1906 apparve tra l'altro al Covent Garden di Londra, al, teatro Imperiale di Odessa, al teatro dell'Opera dì San Francisco, al teatro Sarah Bernhardt di Parigi, a Pietroburgo; poi, nel 1935, in una edizione in lingua francese, fu presentata al Grand Théâtre di Bordeaux.

Il successo riportato dalla sua ultima creatura, alla cui clamorosa affermazione avevano assistito i nomi più famosi del mondo culturale italiano come Franchetti, Giordano, Leoncavallo, Orefice, Michetti e D'Annunzio, tutti presenti alla prima milanese, lo indussero a prendere in esame la possibilità di musicare del poeta abruzzese la Francesca da Rimini, ma il progetto non andò in porto per le eccessive pretese economiche del poeta che, non avendo trovato un accordo con Sonzogno, preferì cedere i diritti del lavoro all'editore Ricordi. Abbandonato l'insegnamento nell'istituto musicale di Firenze, il C. riprese a comporre e, trasferitosi dapprima a Milano poi a Varazze, attese alla stesura della sua ultima opera, Gloria, nata anch'essa dalla collaborazione col Colautti. Il lavoro, in tre atti, fu rappresentato al teatro alla Scala di Milano il 15 apr. 1907, ma, nonostante la presenza sul podio di A. Toscanini e, il valore di interpreti quali S. Krusceniski, N. De Angelis, G. Zenatello e P. Amato, non riportò il successo sperato; miglior fortuna ebbe una successiva rappresentazione al teatro S. Carlo di Napoli nel 1909 con E. Carelli nel ruolo della protagonista e il tenore A. Bassi in quello di Lionetto. Successivamente, dopo un rmaneggiamento del  libretto ad opera di E. Moschino, l'opera tornò sulle scene del massimo teatro napoletano il 20 apr. 1932 con buon esito, ma senza riuscire a suscitare quell'entusiasmo che avrebbe potuto garantirne la permanenza sulla scena lirica. Intanto, dopo il matrimonio con Rosa Lavarello celebrato a Varazze il 26 giugno 1909, il C. era tornato ad esaminare la possibilità di tornare al teatro; fallito un progetto di collaborazione con Renato Simoni, compose l'opera Ilmatrimonio selvaggio (libretto di G. di Bagnasco, 1909) rimasta inedita, con cui si concluse definitivamente la sua attività di operista. Dedicatosi da questo momento alla composizione di musica vocale e strumentale, nel 1911, in occasione delle celebrazioni del centenario verdiano, il comune di Genova gli commissionò il poema Ilcanto del cigno su versi di S. Benelli, che fu eseguito con successo al teatro Carlo Felice sotto la direzione di L. Mugnone. Intensa. e costante al pari di quella creativa fu l'attività didattica, alla quale - fatta eccezione per alcune brevi interruzioni - il C. attese con serietà e impegno per gran parte della sua esistenza; dopo essere stato dal 1913 al '16 direttore dei conservatorio di Palermo, passò poi a dirigere il conservatorio di S. Pietro a Maiella, che, sotto la sua saggia e illuminata amministrazione durata circa vent'anni, uscì dall'abbandono in cui era caduto in seguito a una serie di errori organizzativi che avevano gravemente compromesso il prestigio e la sopravvivenza della gloriosa istituzione; tra l'altro spetta al C. il merito di aver creato il museo storico e promosso l'istituzione di un'orchestra sinfonica. Abbandonato l'incarico nel 1935 Per sopraggiunti limiti di età, si ritirò a vita privata; nominato accademico d'Italia nel 1938, dopo un soggiorno a Roma nel 1943, si stabilì a Varazze, che gli decretò la cittadinanza onoraria. Morì a Varazze il 20nov. 1950 e lasciò tutti i diritti musicali alla casa di riposo per musicisti "Giuseppe Verdi" di Milano "in riverente omaggio pel Grande che volle creare un'istituzione benefica per musicisti poveri, e in riconoscenza alla Città che accolse per prima e battezzò le mie opere..." (in D'Amico, 1960, p. 160).

La produzione musicale del C., oltre alle opere citate, comprende varie composizioni vocali e strumentali, tra cui si ricordano: per orchestra: Suite (1887)in quattro tempi, di cui due, Idillio e Alla gavotta, trascritti per pianoforte, pubblicati dall'editore Curci (Napoli-Milano); Suite in tre tempi (Milano 1932);per pianoforte: Tre piccoli pezzi: Melodia, Serenata, Danza (Napoli-Milano 1888); La petite coquette (air de danse); C'est toi que j'aime (impromptu à la mazurka), Milano 1890; Mazurka, Flatterie, Badinage, II Danza, Chanson du rouet, Chant du matin, Aria campestre, Notturno, Au village, Sérénade mélancolique, Gouttes de rosée, A la mazurka, Valse (Napoli-Milano 1890-94); Tre pezzi: romanza, scherzino, barzelletta (ibid. 1895); Berceuse (Milano 1895);tre pezzi per pianoforte a quattro mani: Chansonnette, Refrain de l'enfance, Amour joyeux (Napoli-Milano 1895); Foglio d'album (Milano 1904); Trois petits morceaux: Loin dans la mer, Feuille d'album, Pensée espagnole (Berlin 1904); Suite nello stile antico op. 42 (Milano 1915); Invocazione (ibid. 1916); Serenata a dispetto (ibid. 1916); Tre pezzi: Vorrà, Acque correnti, Valle fiorita (Napoli-Milano 1923); Due pezzi, Risonanze nostalgiche, Festa silana (Milano 1930);musica da camera: Trio in quattro tempi per violino, violoncello e pianoforte (1886, ined.: cfr. De Rensis); Sonata per violoncello e pianoforte (Napoli-Milano 1889); Tema con variaz. per violino e pianoforte (Milano 1932); Suite in mi maggiore per violino e pianoforte (ibid. 1948); Tema e variazioni per violoncello e pianoforte (ibid. 1949);inoltre le liriche per canto e pianoforte: Non ti voglio amar (Milano 1890); Lontananza (Londra 1904); Nel ridestarmi, Vita breve (Napoli-Milano 1923); Dolce amor di povertade, sutesto di Jacopone da Todi (Milano 1949);infine Tre vocalizzi da concerto e Tre vocalizzi per canto e pianoforte (ibid. 1931-32).

Artista raffinato e sensibile, seppur sotto taluni aspetti ritardatario, se si pensa che Adriana Lecouvreur, la più riuscita ed efficace delle sue opere teatrali, è coeva e pur tuttavia tanto lontana dal debussiano Pelléas, il C. fu musicista particolarmente attento alle correnti più avanzate del linguaggio musicale contemporaneo, senza tuttavia riuscire a sottrarsi a certe atmosfere di derivazione tardo romantica, ove il richiamo alla tradizione operistica italiana dell'ultimo Ottocento si stempera entro i limiti d'una sensibilità riecheggiante non già l'ultimo Verdi, ma piuttosto l'intimismo naturalistico della scuola operistica francese individuabile in certe preziosità armonico-strumentali oltre che in particolari atmosfere di stampo decadente. Figura in certo senso isolata nel panorama operistico a cavallo tra i due secoli, il C. aderì inizialmente'al melodramma vetista con l'opera Tilda, tuttavia la sua appartenenza alla "giovane scuola" se pur da più parti diversamente sostenuta, appare quanto meno discutibile per certe caratteristiche stilistiche che, almeno sotto il profilò melodico, risultano strettamente vincolate a reminiscenze belcantistiche d'impronta belliniana; inoltre il suo melodizzare ampio, flessuoso, venato di inflessioni malinconiche che si rivestono di accenti pervasi da una struggente e talora estatica liricità, rivela una naturale attitudine per particolari atmosfere d'ascendenza tardoromantica, che una personale e vigorosa incisività di fraseggio rende più penetranti ed efficaci nelle situazioni drammatiche, dominate da grandi passioni amorose destinate a concludersi tragicamente. Personalità tutto sommato conservatrice, ma non rigidamente ancorata alla tradizione, il C. nella sua produzione operistica indulse talora a strutture superate che tuttavia nei momenti più. felici furono riscattate da un innato intuito teatrale e da uno straordinario equilibrio formale: il suo linguaggio si arricchisce di volta in volta di innovazioni armoniche d'ogni genere in cui la lezione del passato si fonde mirabilmente con gli apporti dei tempi nuovi, rivelando la partecipazione del compositore alla vita del suo tempo, intesa quale consapevole tentativo di avvicinare la propria natura d'artista a quegli stilemi che, pur entro i limiti concessigli dalla sua indole timida e riservata, gli consentissero di tenersi al passo con i tempi e di rinnovare la sua maniera espressiva. Particolarmente significativo in questo senso è il ruolo rappresentato dall'orchestra in tutta la produzione teatrale del C., soprattutto per certe raffinate sonorità timbriche derivate dal sinfonismo europeo dell'ultimo Ottocento, francese in particolare, e arricchite da apporti originali che, unitamente ad un assoluto dominio della tecnica compositiva, rivelano con quanta attenzione il musicista abbia seguito le correnti più avanzate del linguaggio musicale europeo, non rimanendo insensibile alla suggestione di certi procedimenti orchestrali che, se lo avvicinano alle formule adottate dai compositori della "giovane scuola", tradiscono il fascino su di lui esercitato dalle evanescenti, raffinate e seducenti atmosfere dell'orchestra mahleriana.

Se si trascurano la Gina ela Tilda, saggio di conservatorio la prima, non più che tentativo di affrontare il teatro verista la seconda, le opere che meglio riescono a rivelare la personalità artistica del C. sono L'Arlesiana e Adriana Lecouvreur.

La prima è opera intima, raccolta, immersa in una sofferta atmosfera drammatica dalla quale sono stati volutamente eliminati gli aspetti più cupi e passionali del dramma originale; tra l'altro con un personale e indovinatissimo procedimento di grande effetto teatrale il C. non fa mai comparire in scena la protagonista, la cui presenza incombo costantemente sull'intera vicenda. In questo lavoro il C. diede libero sfogo alla sua vena elegiapa, trovando espressioni contenute e delicate soffuse di malinconia che si snodano per tutta l'opera sulla quale domina un'atmosfera di ineluttabile angoscia. Esemplari al riguardo sono alcune pagine divenute poi cpleberrime come il "Lamento di Federico" o la preghiera di Rosa Mamai "Esser madre è un inferno", in cui il C. riuscì a trovare momenti di grande incisività espressiva mediante una tavolozza orchestrale discreta e pur estremamente ricca che gli consentì di caratterizzare situazioni e personaggi della vicenda. In queste pagine, alle inflessioni tipiche del linguaggio parlato proprio della "giovane scuola" si affianca un melodizzare ampio, lineare, talora quasi primitivo che apparenta l'arte del C. non più alle movenze deldramma verista ma ad un sommesso e dolente fluire melodico, espressione tipica e genuina dell'antica cantilena' meridionale le cui origini sono da ricercarsi, oltre che nei canoni stilistici della migliore tradizione settecentesca napoletana, nel tipico melodizzare belliniano allorquando la melodia, come nel già citato "Lamento di Federico", si espande in accenti di dolorosa mestizia. In Adriana Lecouvreur che, considerata il suo capolavoro, è comunque l'opera più fortunata del C., il tentativo di riprodurre il teatro nel teatro offri al compositore l'occasione per misurarsi in una più ampia gamma di situazioni psicologiche: con mano attenta alle più sottili sfumature il C. rese abilmente con espressioni di grande verità il movimentato ambiente di un foyer teatrale in cui la vivacità delle situazioni anche verbali e la felice caratterizzazione dei personaggi minori - ove più evidente appare il ricorso a formule veriste - fa da contrasto al passionale e dolente personaggio della protagonista mirabilmente raffigurata nel trapasso dalla felicità estatica dell'amore corrisposto alla tragica conclusione. resa con toni di drammatica esaltazione, che si richiama alle grandi eroine romantiche trasferite stavolta in pieno clima veristico-decadente: l'attitudine alla caratterizzazione psicologica di particolari situazioni drammatico-sentimentali si fa più evidente nella scena del delirio e della morte dell'eroina ove l'oratoria verista è immersa in atmosfere strumentali prese in prestito dall'operismo francese oltre che dal sinfonismo finde siècle. L'opera, fin dal suo primo apparire sulle scene dei Lirico, riscosse consensi pressoché unanimi da parte dei mondo musicale europeo e fu apprezzata in particolare da J. Massenet che, in una lettera del 22 nov. 1902, così gli espresse la sua ammirazione: "Cher confrère votre pensée va à inon cocur; merci! Mercredi j'étais au Lirico, et j'ai admirè votre "Adriana": j'aime votre musique; votre instrumentation est si nette, si expressive, si colorie, quel sentiment pittoresque à coté de l'expression dramatique I Votre "Adriana" est une partiture émouvante et séduisante; et eut un grand succès..." (in D'Amico, 1960, p. 106). L'ammirazione di Massenet è anche giustificata dal fatto che il compositore francese riconosceva nell'opera del C. certe caratteristiche formali quali l'eleganza della scrittura, la raffinatezza della strumentazione e soprattutto l'attitudine al descrittivismo psicologico assai vicine alla sua sensibilità e in genere allo stile dell'"opéra-lyrique". Non diversamente dai compositori francesi il C. ebbe in dono un profondo senso della misura e dell'equilibrio formale, come osservò G. Pannain in un suo giudizio sulla figura del compositore calabrese: "Francesco Cilea tenne dietro a quel gusto neo-romantico dell'"opéra comique" rinverniciata dal Massenet. Ma, al contrario dei melodrammisti suoi coetanei, ebbe il dono dell'equibbrio e della misura. Certe volte, se gli prende la mano un sentimento troppo femmineo e lambiccato, l'occhio gli riluce di lacrimette da primo amore: ma l'accento è sicuro e il tono giusto. Riesce, senza strafare, alla sua finalità di marca essenzialmente teatrale, né ostenta pretese senza motivi. Pensate ad un Mascagni, con quel suo temperamento di piazza, che va ad impegolarsi nella tragedia dannunziana. Cilea di questi trucchi non ne conosce. Non sa mettersi la maschera, né vuole contraffare altri maggiori dì lui". In realtà, in Adriana come nelle altre sue opere teatrali, alle quali si deve riconoscere un innegabile desiderio di rinnovamento espressivo, il C. rimase legato ai grandi temi romantici, enfasi canora e retorica teatrale comprese, che tuttavia nelle mani di questo isolato compositore, abilissimo nel controllare musicalmente i suoi personaggi, sono riscattate dalla spontaneità e dalla naturalezza dell'espressione vocale; qualunque possa essere il giudizio valutativo, l'opera, sotto l'aspetto spettacolare ha tutte le carte in regola e possiede un suo ritmo scenico e discorsivo di grande efficacia. Ciò nonostante, come per tutte le altre creature teatrali del C., l'opera dopo il felicissimo esordio ha dovuto sottostare a momenti di alterna fortuna; tuttavia un rinnovato interesse l'ha ricondotta, seppure sporadicamente, sulle scene dei grandi, teatri.

Significativa a questo proposito una critica apparsa su La Tribuna del 20 febbr. 1905, all'indomani della prima romana al teatro Costanzi - interpreti d'eccezione S. Krusceniski e G. Zenatello -, in cui vengono illustrate le ragioni del successo e allo stesso, tempo della difficoltà di penetrazione tra il pubblico dell'opera ove, nonostante le reminiscenze wagneriane e il ricorso a formule postromantiche, si cela una seducente seppur non rivoluzionaria personalità teatrale: "Quest'Adriana èun'opera di non grandi pretese: facile, chiara, scorrevole, si fa sentire con piacere. Non desta profonde commozioni per passionalità di carattere musicale, né si impone per grandiosità di linea; ma vi appaga l'orecchio, vi accarezza il sentimento, e vi attira per i suoi colori e profumi di freschezza e di eleganza... Non segnerà quindi l'Adriana una nuova impronta nella storia del nostro teatro, né potrà, appunto perché essa è la sintesi delle formule teatrali oggi in uso fra noi, avere un carattere di originalità... Dove manca la poderosità creativa del genio, il Cilea sopperisce con un'arte matura e sensata, propria del suo temperamento artistico, raggiungendo lo scopo se non coll'impetuosità di una manifestazione artistica geniale, nello studio paziente e preparato dell'effetto, con un corredo di cognizioni teatrali e di coltura musicale veramente dovizioso... L'Adriana quindi, che in pochi mesi di vita, èapparsa sulle scene di tutti i teatri non soltanto in Italia, ma anche all'estero, spiega da sé, per le ragioni esposte, la lenta penetrazione che esercita sul pubblico, tale da giustificare il crescente successo che l'accompagnò e l'accompagna nella sua via... D'altra parte a questo ha concorso anche l'ambiente settecentesco in cui si svolge l'azione. Quel profumo di grazia molle e languido che avvolge ogni cosa ed ogni persona; le frivolezze, il pettegolezzo, la banalità del tempo, inducono l'autore ad un genere musicale perfettamente consono, che se toglie il modo di manifestarsi con una impronta di forza e di potenza drammatica e passionale, lascia il campo aperto alla potenza suggestiva della musica, che appunto quella morbidezza sdilinquita deve riprodurre. Soltanto il dramma di Maurizio e di Adriana si eleva su ogni cosa: perché la passione prepotente dell'amore sfugge ogni raffinatezza: preparata e studiata, si manifesta spontanea e viva" (V. Frajese, Dal Costanzi all'Opera, p. 221).

In Gloria, che pur non è priva di pagine efficaci, il C. non seppe rinnovare il successo di Adriana;ispiratosi ad una cupa vicenda medioevale ambientata in una Siena trecentesca divisa da odi di fazione, fece ricorso ad un linguaggio estetizzante d'impronta vagamente dannunziana che, troppo lontano dalle sue corde, non gli consentì di abbandonarsi alla sua naturale, intimistica vena lirica. Come ha osservato l'Abbiati, l'arte del C. "eminentemente pudica, minutamente raccolta e controllata... parve soffirire di queste sue qualità già compromesse da una produzione relativamente scarsa e già indebolite, agli occhi di un pubblico amante delle sforiature d'effetto, dalla misurata compostezza degli elementi dell'armonia, del ritmo e del colore strumentale. Alla base del teatro cileano restava sempre il vocalismo melodico ancorché assottigliato sovente fin quasi alla gracilità. E alle creature dei suoi drammi, Cilea non chiedeva altro che un brivido emotivo nella verità di cordiali non artefatti trapassi psicologici. Purtroppo, non sempre e non frequentemente il maestro si sentì con il suo teatro, e con le creature dei suoi drammi, nello stato di grazia creativo presupponente particolari condizioni spirituali. Ed è questa la ragione per cui Cilea tacque a lungo, incapace alle concessioni convenzionali o false".

Del resto un profondo senso di autocritica, derivatogli anche dalla severa formazione maturata negli anni di permanenza nel conservatqrio napoletano, e una naturale timidezza gli impedirono di schierarsi autorevolmente tra, i protagonisti più autorevoli del teatro musicale della sua generazione; insensibile alle adulazioni e indifferente verso la posterità, preferì spesso tenersi lontano dalle scene, riservando tutte le sue energie all'attività didattica, in cui rivelò un temperamento forte, instancabile e profondamente responsabile. Negli anni di permanenza alla direzione del conservatorio di S. Pietro a Maiella, che egli restituì all'antico splendore, formò schiere di allievi divenuti poi famosi come A. Curci, J. Napoli, E. Stignani, M. Caniglia, B. Giuranna, T. Aprea, R. Parodi, rivelando doti di rara umanità e di serietà professionale con quello stesso impegno che aveva manifestato nell'arco della sua carriera di compositore e che sotto vari aspetti giustifica la sua insopprimibile presenza nella vita musicale del nostro secolo.

Fonti e Bibl.: Necr. in IlCorr. della sera, 21 nov. 1950; Il Tempo, 21 nov. 1950; M. Pilati, F. C., in Boll. bibl. mus., VIII(1932), giugno, pp. 5ss.; G. Pannain, Saggio su la musica a Napoli nel sec. XIX. Da Mercadante, in Riv. mus. ital., XXXIX(1932), p. 61; E. Moschino, Sulle opere di F. C., Milano 1932; M. Incagliati, Il destino di due opere risorte, in Il Messaggero, 13 maggio 1932; R. Rossi, F. C., ibid., 25 dic. 1938; L. Aliquò-Lenzi, F. C., in Brutium, XVIII (1939), 2, pp. 25-29; Gajanus [C. Paglia], F. C. e la sua opera, Bologna 1939; A. Lualdi, Rinnovamento musicale italiano, Milano 1939, p. 87; A. Della Corte, Appunti per una biografia di F. C., in Scenario, VIII(1939), pp. 71 s.; R . De Rensis, F. C., Palmi 1950;M. Limoncelli, F. C., Milano 1951, E. A. Mario, F. C. di fronte alla critica e al pubblico, in Quaderni dell'Accad mus. Chigiana, 13 genn. 1951, pp.27-50; U. Manferrari, Diz. univ. delle opere melodrammatiche, I, Firenze 1954, p. 240; T. D'Amico, F. C., Milano 1960; G. Gavazzeni, F. C. diec'anni dopo la morte, Milano 1960; D. Ullu, Ricordo di F.C., in Idea, XX(1964). p. 5;C. Gatti, Ilteatro alla Scala nella storia e nell'arte, I, Milano 1964, pp. 345. 350, 425, 433; F. Sassanelli, F. C. maestro di musica, di virtù, di vita, Milano 1966; T. D'Amico, F. C., Roma 1967; F. Abbiati, Storia della musica, IV, Milano 1968, pp. 76-79; Storia dell'opera, Torino 1977, I, 2, pp. 499 s., 502, 568 ss., 577; II, 2, p. 403; III, 1, pp. 281 ss., 285, 288, 291 s., 296 s., 299, 420; III, 2, pp. 261, 289 s.; V. Fraiese, Dal Costanzi all'Opera, I, Roma 1977, pp. 221 s.; Die Musik in Geschichte und Gegenwart, II, coll. 1438 s.; Enc. d. Spett., III. coll. 759 s.; Encicl. della Musica Rizzoli-Ricordi, I, pp. 105 s.

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