COLONNA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

COLONNA, Francesco

Giovanni Pozzi

Nacque a Venezia nel 1433 o 1434; né il luogo né la data sono documentati per via diretta. Sulla patria non dovrebbero esistere dubbi, poiché nei documenti conventuali egli è sempre chiamato frate Francesco da Venezia; quanto all'origine della famiglia è difficile andar oltre: il cognome Colonna era diffuso nel Veneto; lo si trova anche a Treviso, cui il C. fu particolarmente legato e dove probabilmente abitava un suo fratello. Ciò potrebbe insinuare qualche dubbio sull'origine; l'appellativo dei documenti dovrebbe in questo caso riferirsi ad una costante dimora in Venezia prima dell'entrata nell'Ordine domenicano.

Sulla data di nascita fa testo l'obituario (purtroppo ora perduto) del convento dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia, che all'anno 1527 segnala: "obiit annorum 94"; risaliamo così al 1433 o 1434 a seconda che venga considerato, nell'indicare l'età di una persona, il numero dell'anno corrente o quello dell'anno compiuto (la prima formula era la più consueta).

Nulla di certo sappiamo sul suo conto fino al 2 dic. 1472, quando, sotto il nome di "frater Franciscus Colona de Venetiis" è registrata la prima sua presenza ai capitoli conventuali dei SS. Giovanni e Paolo; egli occupava allora il trentunesimo posto su quarantasei sacerdoti presenti; siccome negli atti ufficiali veniva osservato rigorosamente l'ordine delle precedenze e queste contavano a partire dalla data dei voti, se ne deduce che il C. appartenesse all'Ordine domenicano già da un certo tempo; ma è conclusione senza grandi conseguenze in rapporto alle vicende dei suoi anni giovanili, perché egli era ormai sulle soglie dei quarant'anni e quindi il calcolo dei tempo in cui egli si era guadagnata quell'anzianità è troppo elastico. Prima di allora è certa una sua presenza a Treviso: gli innegabili riferimenti storico-geografici contenuti ne a seconda parte dell'Hypnerotomachia si localizzano infatti intorno al 1462-467. Negli atti contabili del convento domenicano di Treviso compare intorno al 1465-1469 un "frater Franciscus de Veneciis", cui è dato anche un emolumento "eo quod doceat novitios"; si presume che questo Francesco da Venezia sia il C., ma la cosa è tutt'altro che certa, perché gli appellativi troppo generici di "Francesco" e di "da Venezia" sono soggetti alla pericolosa insidia dell'omonimia. D'altronde negli atti capitolari dello stesso convento trevigiano non si registra mai la presenza (entro gli anni 1462-1472) né di un Francesco né di un Francesco da Venezia: vuol dire che il C. (sia esso da identificare o no coi Francesco da Venezia), pur dimorando a Treviso, come par certo, e pur avendo contatti col convento di S. Niccolò, come pare probabile, non apparteneva tuttavia a quella comunità, non avendovì voce in capitolo.

Il 31 maggio 1473 il C. ottenne il baccalaureato in teologia all'università di Padova. A partire dal 19 giugno 1491 almeno, egli ottenne anche il magistero, sempre in teologia, non si sa in quale Studio; l'ipotesi che gli sia stato conferito per bolla papale, senza esami e senza un conipleto curriculum studiorum, è per ora la più probabile. Tuttavia egli frequentò attivamente l'università di Padova per un periodo abbastanza lungo, forse un biennio; infatti una sua presenza a Padova è provata da un documento d'archivio del 3 sett. 1473, che lo qualifica come "bachalarius conventus paduani": il che significa che copriva mansioni di ordine, anche organizzàtivo ed amministrativo presso i giovani studenti domenicani dei convento di S. Agostino. Nello stesso tempo, certo non dopo il 1474, il poeta triestino Raffaele Zovenzoni gli indirizza un epigramma salutandolo "antiquarius"; segno evidente che la sua cultura archeologica si era già precedentemente affermata nel Veneto.

Il doppio registro di una cultura ecclesiastica e una umanistica, perentoriamente confermate dai documenti ora citati, documenti di natura e provenienza diverse ma tutti risalenti agli stessi anni, è fondamentale per la retta comprensione della sua enigmatica figura. Importante è pure la volontà ben manifestata di raggiungere, in età matura ma non eccessivamente tarda per i tempi suoi, un posto ufficialmente riconosciuto nel mondo della scienza. Che, nonostante la passione antiquaria, egli scegliesse la via della teologia, non stupisce: per lui, domenicano e sacerdote, era la strada più naturale; che non l'abbia percorsa fino in fondo è un indice della direzione diversa dei suoi reali interessi. Ma il titolo in teologia non servi soltanto a conferirgli prestigio all'interno della comunità e fuori; egli fu un chierico attivo e, a differenza di molti suoi contemporanei, spese parte notevole delle sue forze in attività prettamente ecclesiastiche. Ciò si riflette anche nella sua produzione letteraria: comunemente qualificata come mondana e paganeggiante, essa rivela ad un osservatore attento non pochi elementi tipicamente clericali.

Tra il 1474 e il 1477 non si sa nulla di lui; gli atti contabili di S. Niccolò di Treviso registrano la presenza del solito Francesco da Venezia; ma, come abbiamo detto, occorre andar cauti nell'identificazione. Lo troviamo nel maggio del 1477, quando il generale dell'Ordine emana nei suoi confronti un decreto di espulsione da Venezia. Ignoriamo le ragioni ed il seguito della vicenda, ma essa non dovette risolversi presto poiché all'inizio dei luglio successivo nuove e gravi minacce sono proferite nei suoi confronti dalla medesima suprema autorità. Sono queste le prime testimonianze di una lunga e triste serie di insubordinazioni e resistenze alla disciplina monastica e perfino ai vincoli morali più ovvi. Le lacune documentarie si susseguono per gli anni 1477-1481; giugno 1483-gennaio 1485; 1486-ottobre 1487; 1489-1491; parte del 1492; egli compare infatti solo saltuariamente negli atti dei SS. Giovanni e Paolo. Invece dal 1493 al 1500 la sua presenza nel grande convento veneziano è accertata da una fitta serie di testimonianze. È il periodo più splendido della sua vita conventuale e letteraria. A nominato nel 1493 predicatore a S. Marco (già lo era stato nel 1488) e poi nel 1495-96 addirittura priore; è sindaco della Scuola di S. Marco e sacrista della chiesa del suo convento.

Nel 1499 esce dall'officina dei principe dei tipografi, Aldo Manuzio, in una magnifica veste, l'Hypnerotomachia Poliphili. A il mese di dicembre, appena in tempo per permettere al libro di entrare nella schiera eletta di quelli che la storia della stampa chiamerà incunaboli e per figurarvi come uno dei più belli.

L'Hypnerotomachia Poliphili, divisa in due parti diversissime per estensione e contenuto, è un romanzo nel senso in cui si può parlare di romanzo in prosa nel Quattrocento: un viaggio allegorico nella prima parte, un'esile avventura amorosa nella seconda. Le parti descrittive soverchiano quelle narrative: architetture, oreficerie e abbigliamenti sono gli oggetti più spesso illustrati, ma vi hanno larga parte anche il tema della bellezza muliebre e la raffigurazione di giardini. L'allegoria è di impianto aristotelico-scolastico con una sola esile traccia di neoplatonisino laddove illustra la conoscenza naturale della divinità. Oscura all'inizio (ma rappresenta sicuramente l'esistenza prenatale dell'uomo), si fa poi chiarissima: dopo la natività (rappresentata come un'uscita da un oscuro meandro cui sovrasta il monumento della Fortuna), Polifilo, simbolo, come Dante, dell'uomo, è iniziato alla conoscenza sensitiva ed intellettiva ed è guidato al suo destino da volontà e ragione; il quale destino è rappresentato da tre stati: ascetica, gloria mondana e piacere amoroso. Polifilo sceglie quest'ultimo; introdotto ai segreti d'amore, sposa la donna amata e conchiude il viaggio nell'isola di Venere. La seconda parte è un breve racconto d'innamoramento, prima contestato poi felice, sullo sfondo d'una Treviso mitologizzata, ma perfettamente riconoscibile.

Resero celebre il libro, più che non il dettato, le numerose silografie, tra le più belle prodoite dal Rinascimento veneziano; intorno al loro autore si è affannata la critica d'arte senza giungere ad una soluzione soddisfacente. Lo stretto rapporto fra testo e disegni lascia aperta la possibilità che risalgano allo stesso Colonna. Altro motivo di interesse, la lingua: un artificio inedito, un impasto di latino e volgare con non infrequenti forme greche. La sua radice è da cercare nel latino umanistico, nelle frange estreme di quel latino cui R. Sabbadini diede il nome di eclettico; il volgare è tipicamente settentrionale, ma con un vigile controllo delle forme toscane, esemplate soprattutto sul Boccaccio minore.

La fortuna del Polifilo fu enorme, più nell'ambiente degli artisti che in quello dei letterati: almeno la fortuna fino ad oggi documentata. Compaiono motivi tolti dal Polifilo in quadri famosi di Giorgione e di Tiziano; ancor più vivo il successo nella bizzarra stagione che noi chiamiamo del manierismo e del barocco: tra gli imitatori, Agostino Carracci, Bernini, Pietro da Cortona. In letteratura l'influsso della lingua del Polifilo, e non solo, è leggibile in un libro ancora male studiato anche se di primaria importanza come il Peregrino di Iacopo Caviceo; e fondamentale resta per intuirne la fortuna mondana la testimonianza del Castiglione (IlCortegiano, III, 70); ed ancora sul piano della lingua la parodia anonima, composta intorno al 1512, illustrata dal Dionisotti (Gliumanisti e il volgare, pp. 117-120). Più tardi ed a livello del tutto diverso ci sarà l'amabile e geniale ripresa di Camillo Scroffa; e poi una robusta fortuna seicentesca col Marino, il Tesauro ed il minore, ma non infimo, G. V. Imperiali. Questo per l'Italia; in Francia il successo fu enorme da Rabelais a La Fontaine e Nodier, e notevole pure in Inghilterra.

Rimane aperto il problema se il Polifilo debba assegnarsi a un Francesco Colonna e, se sì, al frate dei SS. Giovanni e Paolo. Il nome dell'autore non figura né in testa al libro né nel colophon, ma è nascosto in un lungo acrostico composto dalle lettere iniziali dei trentotto capitoli: "Poliam frater Franciscus Columna peramavit". Senza la gherminella dell'acrostico, probabilmente il problema non sarebbe mai sorto; d'altronde se il cognome di Colonna può prestarsi a qualche simbologia, il nome di Francesco non si vede per quali ragioni allegoriche sia stato incluso. nell'acrostico. Inoltre, le prove a favore, poggianti su documenti contemporanei, sono sufficientemente solide. Questa documentazione è costituita da un componimento in versi, conservato in un solo esemplare del Polifilo (oggi nella Deutsche Staatsbibl. di Berlino Est, inc. 4508) in'cui si parla di Francesco Colonna come dell'autore del libro; da un'ingiunzione del generale dell'Ordine Vincenzo Bandello, che impone al C. di restituire al suo provinciale una somma di denaro prestatagli in occasione della stampa d'un libro, e ciò nel 1501; da un'iscrizione trovata in un esemplare del Polifilo dall'erudito B. M. De Rossi (de Rubeis) e comunicata ad A. Zeno, dove il C. è presentato come autore dell'Hypnerotomachia edimorante a Venezia (l'esemplare non è stato finora rintracciato, ma sia il De Rossi sia lo Zeno non erano uomini che falsificavano documenti o che si lasciavano facilmente trarre in inganno); dalla testimonianza di Leandro Alberti, storico domenicano (De viris ill. Ord. praedic., Bononiae 1517) che presenta il C. come autore d'un libro in volgare pieno di varia erudizione, il che combina perfettamente col contenuto e la forma del Polifilo.

Nell'Hypnerotomachia è tutto il C.; in essa egli chiuse le sue capacità espressive ed essa rimane l'unica ragione della sua postuma fama. Passato il capo del 1499 si potrebbe pensare che gli eventi della sua biografia presentino un interesse minore e debbano entrare in un ritratto di lui solo per ragioni di completezza. Non pochi sono invece gli elementi che, sia pure in via indiretta, riportano alla sua isolata opera letteraria: essi hanno perciò un valore retroattivo notevole. Questo secondo periodo della sua vita inizia con un colpo di scena: sulla fine del 1500 egli riceve il permesso di soggiornare fuori convento; egli è cioè da considerare, in termini di diritto canonico, un ex claustrato. Quali mansioni lo abbiano portato a questo temporaneo distacco dal suo Ordine non è dato sapere; così pure è impossibile stabilire per quanto tempo egli abbia effettivamente dimorato lontano dal convento. Documenti contrastanti suggeriscono opposte ipotesi: da un lato si propenderebbe per una brevissima dimora, nemmeno d'un anno, per l'altro è possibile credere ch'essa si sia protratta fino al 1512. Purtroppo il disordine morale e amministrativo del convento rendono difficile la ricerca e impongono la regola della cautela se non quella della diffidenza. Nel novembre del 1500 il C. esige che gli venga pagata dal suo stesso convento una somma spesa per lavori nel coro; nel giugno dell'anno successivo cade l'ingiunzione del generale sopra descritta ed essa sembra bene una ritorsione contro le pretese del frate. S'intuisce una situazione di tensione tra la comunità conventuale e il religioso, tanto più acuta quanto più le questioni finanziarie toccavano sul vivo quei frati decaduti dall'osservanza regolare. Ma essa è contraddetta dalla fiducia accordatagli in più occasioni dalla stessa comunità, poiché lo vediamo agire nello stesso 1501 da procuratore dei convento con la Scuola di S. Marco contro quella di S. Orsola, da revisore dei conti, e, dal 1504, partecipare ai capitoli e consigli del convento. In questo contesto rimane non del tutto sicura, ma non impossibile, l'ipotesi allettante della maggiore studiosa moderna del C., Maria Teresa Casella, secondo cui dovrebbe riferirsi a lui uno scabroso episodio raccontato in una novella del Bandello (parte II, nov. 4); in essa egli è rappresentato come maestró di grammatica dei nipoti di Andrea Gritti. Comunque, pur nell'incertezza delle interpretazioni sul piano istituzionale e giuridico, queste notizie aprono importanti spie sulla cultura letteraria ed artistica del frate, in perfetto accordo col contenuto del misterioso libro. D'altronde l'ambiente culturale del convento in cui frate Francesco viveva e le figure, apparentemente insignificanti, che compaiono in margine all'Hypnerotomachia (specialmente quella dell'editore Leonardo Grassi), conducono, per via indiretta ma sicura, verso i circoli migliori dell'umanesimo veneziano e toccano anche per la tangente un letterato tanto vicino per carattere e cultura all'autore del Polifilo, Iacopo Caviceo.

Dopo la parentesi oscura che va dal 1512 al 1516, il C. torna ai SS. Giovanni e Paolo; ma una nuova tempesta si abbatte sul suo capo ormai da tempo canuto: nell'ottobre del 1516, sotto accusa di immoralità, è confinato a vita a Treviso, con la grave pena della sospensione dalla messa e dalla confessione. Non fa evidentemente ostacolo all'identificazione coi C., come qualche storico ha pensato, l'età eccezionalmente tarda del frate colpito, poiché l'accusa poteva anche riferirsi a fatti di epoca molto anteriore: essa comunque si ricollega ai contenuti erotici del Polifilo e alla scandalosa vicenda della novella bandelliana. Anche questo soggiorno a Treviso non è facilmente documentabile per la solita mancanza di chiarezza della tradizione documentaria di S.Niccolò che presta il fianco al pericolo delle omonimie. È tuttavia certo ch'egli tornò a Venezia nel 1520; ritorno non pacifico, perché solo una parte della comunità si dichiarò favorevole a riammettere nel suo seno il vegliardo. Anche in questa tarda età è leggibile nell'arida documentazione convenutale l'alternanza di contrasti e di riconoscimenti che accompagnò tutta la sua vita monastica. Incarichi importanti gli vengono ancora confidati: procure, direzione di confraternite e, un tratto questo che conferma la sua preparazione letteraria, il compito di insegnare ai giovani postulanti "non latinantes" la grammatica. Ma nello stesso tempo si ripercuotono su di lui fino all'estrema vecchiezza gli strascichi di una vita tumultuosa: registriamo così nel 1522 una rischiosa differenza col patriarca Antonio Contarini e nel 1524 una denuncia al Consiglio dei dieci da parte di un gioielliere. Ma una nota di pietà getta una luce consolatoria su uno sfondo conventuale che i documenti superstiti (poiché sempre nella storia il male è meglio registrato del bene) forse rendono più nero di quanto non fosse in realtà: i frati ordinano al domestico di servire nella sua cella il C. di legna, pane e vino "pro sua maxima egestate et senectute et decrepitate".

Morì a Venezia nel 1527 a novantaquattro anni; ancora una volta la contradditorietà della documentazione ci impedisce di sapere con sicurezza se nel mese di luglio o in quello di ottobre.

L'edizione principe manuziana porta il titolo: Hypnerotomachia Poliphili, ubi humana omnia non nisi somnium esse docet atque obiter plurima scitu sane quam digna commemorat e la data del 1499. Gli eredi di Aldo ristamparono il libro nel 1545 con il titolo tradotto in volgare: La Hypnerotomachia di Polifilo, cioè pugna d'amore in sogno, dov'egli mostra che tutte le cose humane non sono altro che sogno et dove narra molt'altre cose degne di cognitione. Una ristampa anastatica dell'edizione principe a Londra nel 1904; una seconda a Milano nel 1963 col titolo: Hypnerotomachia Poliphili ovvero Sogno della battaglia d'amore di Polifilo; una terza a Londra nello stesso anno col titolo: The Hypnerotomachia Poliphili of 1499. An Introduction on the Dream, the Dreamer, the Artist and the Printer, a cura di G. D. Painter; I'anno seguente usciva l'edizione critica curata da L. A. Ciapponi che ne commentava la seconda parte e da G. Pozzi: F. Colonna Hypnerotomachia Poliphili, I, Testo, II, Commento, Padova 1964 (una ried. con aggiunte nel 1980). La prima fortunatissima traduzione francese è del 1546, presso l'editore J. Kerver, con figure diverse dall'edizione italiana; poi 1551, 1554, 1561; riedizione di Parigi 1926 e 1963. È un compendio quello intitolato: Les amours de Polia, Paris 1772, una traduzione libera quella di J. G. Legrand dal titolo: Le Songe de Poliphile, stampata a Parigi nel 1804 e riprodotta dal Bodoni, Parma 1811. Un'ultima traduzione integrale: Le Songe de Poliphile ou Hypnerotomachie de Frère Francesco Colonna littéralement traduit pour la première fois avec une introduction et des notes, a cura di C. Popelin, Paris 1883. Prima traduzione inglese di S. Waterson dal titolo: The Strife of Love in a Dream, London 1592, riprodotta a cura di A. Lang a Londra nel 1890.

Bibl.: Fondamentale lo studio di M. T. Casella, che costituisce il vol. I dell'opera: M. T. Casella-G. Pozzi, F. C. Biografia e opere, Padova 1959. In questo secondo volume G. Pozzi aveva prospettato la possibilità di assegnare al C. un poemetto, Il Delfilo; l'ipotesi cade dopo la bella dimostrazione di M. Corti, Da un convento veneto a un castello piacentino (L'autore dei Delfilo non è F. C.), in Giorn. st. d. lett. it., CXXXVIII(1961), pp. 161-95, ora in Metodi e fantasmi, Milano 1969. Ultimissimi supplementi biografici in: E. Menegazzo, rec. al vol. di Casella-Pozzi in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XV (1961), pp. 135-40; C. Dionisotti, Per F. C., in Italia medioevale e umanistica, IV (1961), pp. 323-26; E. Menegazzo. Perla biografia di F. C., ibid., V (1962), pp. 232-72; M. Billanovich-E. Menegazzo, F. C. tra Venezia e Padova, ibid., IX(1966), pp. 441-59; M. Billanovich, F. C., il "Polifilo" e la famiglia Lelli, ibid., XIX (1976), pp. 419-28. Precedenti allo studio della Casella sono da segnalare i seguenti contributi biografici: G. Fontanini, Biblioteca dell'eloquenza ital. con le annotazioni di A. Zeno, II, Venezia 1753, pp. 164:72; T. Temanza, Vite dei più celebri architetti e scultori venez. che fiorirono nel sec. XVI, Venezia 1778, pp. 1-53; F. Milizia, Memorie degli architetti antichi e moderni, I, Parma 1781, p. 179; G. B. Gallicciolli, Delle mem. venete antiche, profane ed ecclesiastiche, VII, Venezia 1795, p. 105; D. M. Federici, Mem. trevigiane sulle opere di disegno dal 1100 al 1800, I, Venezia 1803, pp. 96- 116; V. Marchese, Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani, I, Firenze 1845, pp. 371-85.; E. A. Cicogna, Intorno la vita e le opere di Marcantonio Michiel, in Mem. d. Ist. ven. di sc., lett. ed arti, IX (1861), pp. 396 s.; P. Molmenti, Alcuni docum. concernenti l'autore dell'Hypnerotomachia Poliphili, in Arch. stor. ital., s.5, XXXVIII (1906), pp. 291-314; A. Serena, La cultura umanistica a Treviso nel secolo decimoquinto, Venezia 1912, pp. 109, 124 s., 269-78, 388 s.; Id., Glielementi trevigianidella Hypnerotomachia Poliphili, in Atti del R. Ist. venetodi sc., lettere ed arti, LXXXVI (1916-27), pp. 837-65. La bibliografia sul Polifilo è enorme; è stata ripresa dalla Casella in testa al volume citato; un aggiornamento è nell'edizione critica Pozzi-Ciapponi, pp. 47-51 e un altro nella ristampa del 1980, pp. 21*-24*. Hanno soprattutto attirato l'attenzione degli studiosi le silografie e il loro rapporto con le arti figurative maggiori. Qui si dà solo quella parte che tratta specificamente dell'Hypnerotomachia, tralasciando le opere di più vasto respiro sulla storia della stampa, sul libro illustrato, sul Manuzio e sull'umanesimo veneziano, dove il ricordo del C. e del suo libro raramente manca. Per la questione dell'autore: A. Khomentovskaia, Felice Feliciano commel'auteur de l'Hypnerotomachia Poliphili, in LaBibliofilia, XXXVII, (1935), pp. 154-74, 200-212; XXXVIII (1936), pp. 20-48, 92-102; L. Donati, Di una copia tra le figure del Polifilo (1499) ed altre osservaz., ibid., LXIV (1962), pp. 163-82; Miscell. bibliografica, I, Il mito di F. C., ibid., pp. 247-83; M. Calvesi, Identificato l'autore del "Polifilo", in L'Europa letter., artistica e cinematografica, VI (1965), pp. 9-20; E. Kretzulesco Quaranta, L'itinerario spiritualedi "Polifilo". Uno studio necessario per determinare la paternità dell'opera, in Attidell'Acc. naz. dei Lincei, cl. di scienze mor., st. e filol., s. 8, XXII (1967), pp. 269-83 (dove e assurdamente proposto come autore Lorenzo de' Medici); Le jardin du Songe. "Poliphile" et la mystique de la Renaissance, Paris 1976; M. Calvesi, Il sogno di Polifilo prenestino, Roma 1980 ("ars fingendi", 1). Sulle questioni storico-letterarie sono di utile consultazione L. Dorez, Etudes aldines, II, Des origines et de la diffusion du "Songe de Poliphile", in Rev. des bibliothèques, VI (1896), pp. 239-83; D. Gnoli, Il Sogno di Polifilo, in La Bibliofilia, I(1899- 1900), pp. 189-212, 266-83; B. Croce, La "Hypnerotomachia Poliphili", in Quaderni della Critica, VI (1950), pp. 46-54 (poi in Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento, III, Bari 1952, pp. 42-52); B. Nardi, Letter. e cultura venez. del Quattrocento, in La civiltà venez. del Quattrocento, Firenze 1957, pp. 128 s.; C. Segre, Lingua, stile e società, Milano 1963, pp. 389-93; Id., L'"Hypnopaleoneomachia" di Pizzuto, in Strumenti critici, I (1967), pp. 254 ss.; C. Dionisotti, Gliuman. e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze 1968, pp. 5-12, 117, 120 s., 125 s. Merita un cenno più per la frequenza con cui è impiegata che per merito intrinseco l'interpretazione psicoanalitica di L. Fierz-David, Der Liebestraum des Poliphilo, Zúrich 1947 (trad. ingl. The Dream of Poliphilo, New York 1950). Sulle illustr. (tralasciando i contributi che toccano problemi particolari a singole illustrazioni o influenze sugli artisti posteriori): B. Fillon, Le Songe de Poliphile, in Gaz. des beaux-arts, t. XIX (1879), pp. 536-48; t. XX (1879), pp. 58-76; G. Biadego, Intorno al Sogno di Polifilo. Dubbi e ricerche, in Att. del R. Ist. ven. di sc., lett. ed arti, LV (1900-1901), pp. 699-714; J. Poppelreuter, Der Anonyme Meister des Poliphilo. Eine Studie zur italienischen Buchillustration und zur Antike in der Kunst des Quattrocento, Strassburg 1904; C. E. Rava, A Proposito delle figuredella Hypnerotomachia, in L'Arte, LII (1951-52), pp. 33-38; tra i numerosi studi di L. Donati cito il più impegnato: Studio esegetico sul Polifilo, in La Bibliofilia, LII (1950), pp. 128-62 (poi in Scritti sopra Aldo Manuzio, Firenze 1955, pp. 8-42), da usare tuttavia con cautela per i numerosi equivoci nel confronto fra testo e figure. Sui geroglifici in particolare, K. Giehlow, Die Hieroglyphenkunde des Humanismus in der Allegorieder Renaissance, besonders der Ehrenpforte Kaisers Maximilian II., in Jahrb. d. Kunsthistor. Sammlungen d. Allerhöchsten Kaiserhauses, XXXII (1915), pp. 46-79; L. Volkmann, Bilderschriften der Renaissance. Hieroglyphik u. Emblematik in ihren Beziehungen u. Fortwirkungen, Leipzig 1923. Sulle fonti artistiche del Polifilo:G. Pozzi-L. A. Ciapponi, La cultura figurativa di F. C. e l'arte veneta, in Lettere ital., XIV (1962), pp. 151-69 (poi in Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, a cura di V. Branca, Firenze 1963, pp. 317-37); Scritti rinascimentali di architettura, a c. di A. Bruschi, Milano 1978, pp. 145-276. Per i rapporti con Aldo Manuzio: C. Dionisotti, AldoManuzio umanista, in Lettere italiane, XII (1960), pp. 395-96 (poi in Umanesimo europeo, cit., pp. 237-38); G. Pozzi, F. C. e Aldo Manuzio, Berna 1962; C. Dionisotti, Introduzione ad Aldo Manuzio editore, a cura di G. Orlandi, I, Milano 1975, p. XXXVI. Per la storia dei caratteri impiegati da Aldo nella stampa del Polifilo: C. Lozzi, Di Aldo Manuzio, de' caratteri aldini e delle figure del Polifilo del 1499, in Il Bibliofilo, I (1880), pp. 148 s.; S. Morison, The Type of the Hypnerotomachia Poliphili, in Gutenberg Festschrift zur Feier des 25 jährigen Bestehens d. Gutenberg Museums in Mainz, Mainz 1925, pp. 254-58; G. Mardersteig, Aldo Manuzio e i caratteri di Francesco Griffo da Bologna, in Studi di bibliogr. e di storia in onore di Tammaro de Marinis, III, Città del Vaticano 1964, pp. 136 s.; Id., Osservazioni tipografiche sul Polifilo nelle edizioni del 1499 e 1545, in Contributi alla storia del libro italiano. Miscellanea in onore di Lamberto Donati, Firenze 1969, pp. 221-42.

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