CURIA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 31 (1985)

CURIA, Francesco

Francesco Abbate

Il percorso artistico di quello che possiamo senz'altro'considerare il più grande pittore della seconda metà del Cinquecento in tutta l'Italia meridionale, è ancora oggi in gran parte da chiarire. Conseguenza del fatto che all'attività del C. "uno dei più brillanti ingegni del manierismo internazionale" (Bologna, 1959) non è mai stato dedicato uno studio sistematico ed organico.

Già il problema della formazione e degli esordi del pittore appare complesso e sfuggente: lo stesso Cesare D'Engenio, la cui monumentale Napoli sacra (1624) e una preziosa miniera d'informazioni sulla pittura napoletana del Cinquecento, appare singolarmente avaro di citazioni riguardanti suoi dipinti. Peraltro la sua eccellenza non doveva sfuggire alla cultura scicentesca napoletana, se pochi decenni dopo il D'Engenio, Camillo Tutini lo definiva "celebre pittore dei nostri tempi, e sì famoso che equiparare si può con qualunque valente pittore de' secoli passati per ragione di tutte le regole della buona pittura".

Nato presumibilmente poco dopo la metà del secolo, figlio d'arte, il C. avrà quasi certamente ricevuto i suoi primi insegnamenti dal padre, Michele, del quale molto ampiamente parlano i documenti, ma di cui niente resta ad indicarne la. maniera. Tanto più che il C. continuava a collaborare col padre ancora in anni in cui era già pittore affermato: nel 1588 per una "cona" da fare a Cerreto Sannita (D'Addosio, 1913, p. 56) e nel 1594 per un'opera fatta per Giffoni, nel Salernitano (ibid., 1919).

In mancanza di una precisa identificazione della personalità artistica di Michele, quale cultura pittorica il C. avesse desunto dal padre è possibile solo ipotizzare (ma senza indulgere a facili certezze) esaminando la sua produzione giovanile.

Già nel Settecento Bernardo De Dominici (1743) non aveva mancato di accennare, per la pittura del C., a suggestioni correggesche; un accenno che rappresentava comunque un'intuizione significativa soprattutto in quanto serviva ad indicare nella "dolcezza de', suoi colori" e nella "nobiltà de' concetti" le caratteristiche peculiari della maniera del Curia.

Caratteristiche che il De Dominici, seguendo un topos storiografico in lui molto radicato, fa risalire alla conoscenza dell'ambiente romano: "per quello [che] si dice, ebbe scuola essendo giovanetto da Gio. Filippo Criscuolo prima, e poi da un scolaro di Rafaello, che in Napoli si tratteneva, che a mio giudizio credo sia Lionardo detto il Pistoia; sinché venuto poi nella cognizione del buono, sentendo ogni giorno lodare l'opere di Rafaello, s'invogliò di vederle, laonde si condusse a Roma, ed ivi facendo suoi studj, molto si avanzò su l'opere di Rafaello, e di altri ottimi pittori; benché dal grido di qualche ammanierato artefice si lasciasse ancor trasportare, essendo grande in quel tempo la fama del Vasari e del Zuccheri, con lor seguaci; che però dal misto di quelle ideate maniere, e dall'ottimo colorito rafaellesco trasse poi Francesco la sua bella, e dolce maniera di colorire" (p. 205).

Ma si fosse o meno il giovane C. per tempo portato a Roma, come suggerisce il biografo settecentesco, e come è probabile se dalle sue pitture traspare chiaramente una assidua frequentazione degli affreschi "neoparmensi" di palazzo Farnese a Caprarola, è soprattutto guardando alla cultura del manierismo neocorreggesco che dovette avvenire la sua formazione. Cultura che aveva corso anche a Napoli, almeno dal 1578, che è la data più antica che conosciamo dell'attività napoletana del fiammingo Teodoro d'Errico (D. Hendricksz), fortunato divulgatore di una languida, morbida e molto controriformata interpretazione delle dolcezze correggesche.

Ma se l'impasto tenero e sfumato delle figure del fiammingo non avrà certamente mancato di interessare il giovane C., questi s'industriò subito di depurarle di ogni morboso e contrito spirito devozionale, per recuperare più sofisticate e raffinate eleganze, in perfetta consonanza con lo spirito laico e brioso degli ultimi sprazzi del manierismo internazionale (dai neoparmensi a Bartolomeo Spranger, ai manieristi di Haarlem) che univano alla dolcezza di impasto di tipo correggesco la ripresa delle lambiccate audacie lineari del Parmigianino.

È un fatto, comunque, che i principali punti di riferimento culturali che il C. denuncia nella sua maturità non sono napoletani. Che fosse allievo di Leonardo da Pistoia lo afferma il De Dominici, ma niente in questo senso traspare dalle sue opere. I riferimenti vanno tutti in altre direzioni: Caprarola e il manierismo "neoparmense", innanzitutto, il manierismo "rudolfino" di Bartolomeo Spranger e Cornelio di Haarlem, la "maniera addolcita" di Teodoro d'Errico, e inoltre, se vogliamo risalire un po' più indietro, lo spagnolo Pedro Rubiales e l'abruzzese Pompeo Cesura, come ben vide Ferdinando Bologna (1959). Se poi vogliamo riconoscere, come pare probabile, alla attività giovanile del C. il bel tondo con la Madonna ed il Bambino adorati dagli angeli e da s. Francesco nella chiesa di S. Lorenzo, andranno indicati, tra le fonti napoletane che avranno interessato la formazione del giovane C., anche il "Maestro di Montecalvario", alias Giovanni De Mio. Un dipinto, questo di S. Lorenzo, che non dovrebbe collocarsi molti anni prima della Madonna tra i ss. Giacomo Maggiore e Minore in S. Caterina a Formiello, che è la più antica tra le opere conservate del C. (l'altare è datato 1586). Ma se assai simili sono, nei due dipinti, le pose vivaci e le tipologie della Madonna, del Bambino, degli angeli, vi è nel quadro di S. Caterina a Formiello un "fuoco", un brio scatenato e instancabile, nei panneggi attorcigliati degli angeli, nello scatto irrequieto del Bambino, nel grande panno ondeggiante che gli angeli tentano di stendere alle spalle del gruppo divino, che indicano chiaramente l'avvenuto aggiornamento su nuove esperienze. E quali fossero ce lo dice la somiglianza che gli agitati angeli volanti hanno con certi loro "cugini" sulle pareti di Caprarola.

Di poco più tarda dovrà essere un'altra opera fondamentale del C., l'Allegoria francescana nella chiesa di S. Lorenzo Maggiore a Napoli.

Opera tra le più superbe di tutta la pittura napoletana del Cinquecento, specie per lo straordinario, e riuscito, compromesso che la pervade, tra una sbrigliata fantasia formale volta a sottili eleganze manieristiche ed una "necessità" (dovuta largamente al soggetto) che impone accenti fortemente contrordormistici. Per cui alla sbrigliata vitalità dei putti e degli angeli, alle pose contorte delle "virtù" francescane si contrappone la contrita severità di Cristo e di s. Francesco e la pietosa compunzione dei santi e dei devoti francescani: quasi costretto, il C., a mettere un po' ai margini - in un dipinto che intendeva essere una precisa risposta alla negazione protestante dei meriti, del ruolo, dei "benefici" della Chiesa di Roma - la sua predilezione verso briose, capricciose, "laiche" eleganze.

L'Allegoria francescana di S. Lorenzo ci mostra un altro aspetto assai significativo dell'arte del C. ed è la sua grande capacità ritrattistica. Una capacità che ritroviamo nelle figure bellissime dei due committenti (Orazio Trencha e Cleria de Caprariis) in un dipinto databile attorno al 1595, ed eseguito appunto per la cappella Trencha (dedicata alla Madonna dell'Arco) in S. Giovanni a Carbonara.

Un dipinto che i committenti avranno chiesto di devota, quasi contrita, semplicità. Per accontentarli il C. si è addirittura rifatto a modelli arcaici: la Madonna ha una tranquilla classicità di stampo raffaellesco e il g. Antonio pare una traduzione moderna di un dipinto di Giovan Filippo Criscuolo. E, ancora, il pittore indugia a cogliere aspetti di uno straordinario naturalismo, nelle mani, nel viso di s. Antonio, o nel libro Poggiato sulla gamba; nel viso, nei piedi, nella canna del s. Francesco di Paola, e soprattutto nei superbì ritratti dei due devoti committenti. Ma poi il Bambino e gli angeli si agitano in torsioni irrefrenabili, il paesaggio è un paesaggio manieristico che si rifà a modelli di un Paolo Brill non ancora convertito al naturalismo, e una carica animistica pare pervadere gli stessi, bellissimi gigli che s. Antonio tiene in mano.

L'oscillazione tra fiammeggianti soluzioni neocorreggesche e neoparmigianinesche - le più straordinarie prove di una sbrigliatissima fantasia possiamo indicarle nell'Annunciazione di Capodimonte (già a Monteoliveto), del 1597, nella Allegoria mariana del soffitto di S. Maria la Nova, nel Battesimo di Cristo del duomo, che tra tutti i dipinti dell'artista è quello più vicino ai modi del tardo-manierismo internazionale; o in tanti dei bellissimi disegni che formano quasi un capitolo a parte nella produzione artistica del C. - e più contenute e contrite sterzate di tipo devozionale e controriformistico, quali la Assunzione di Airola (1600; ill. n. 180, in Di Dario Guida. 1976), o, la Madonna e santi di Prepezzano (1601; ora al Museo diocesano di Salerno: ill. n. 179, ibid.), è un po' una costante della attività pittorica del Curia. Un'oscillazione che compare anche in opere più giovanili, come l'Allegoria francescana di S. Lorenzo e che pare comporsi nelle opere più tarde, a partire dai dipinti eseguiti all'aprirsi del nuovo secolo, in chiave più decisamente controriformistica.

Ma che l'inclinazione del C. andasse piuttosto in direzione elegantemente manieristica lo conferma indirettamente il De Dominici (1743, p. 206), che le opere tarde giudicava "non di tutta quella perfezione con che son dipinte" le altre sue opere, imputando il fatto a un certo indebolimento senile: "e con ciò alquanto deboli, come mancanti di quel vigor spiritoso che suol regnare nell'età virile: da poiché pochi o rari. sono quei pittori, che negli ultimi anni di loro vita han dipinto con quella medesima forza, e buon nerbo di operare, come han fatto prima; intendendo dire però di quegli artefici che vivono in una avanzata vecchiaia". È curioso come l'unico esponente della pittura napoletana del Cinquecento di livello internazionale abbia goduto nella storiografia antica come in quella moderna, a parte fugacissimi accenni alla sua eccellenza, di una considerazione abbastanza distratta.

Che il pittore fosse tra i principali l'avevano segnalato tanto il Tutini (sec. XVII) che il canonico Celano (1692) - il Celano giudicava la Presentazione di Gesù al tempio già in S. Maria della Pietà a Carbonara, andata quasi completamente distrutta nei bombardamenti aerei del 1943, "quadro per lo disegno, e per lo costume, il più bello, il più vago ed il pilI considerato che possa uscire da pennello umano" - che lo stesso De Dominici ed in epoca moderna il Bologna. Ma il grande Luigi Lanzi (1809) gli dedica poche e distratte righe, in tutto riprese dal De Dominici, e bisognerà attendere tempi recentissimi (Leone De Castris, 1983) per avere uno studio se non sistematico, almeno sufficientemente approfondito di una parte dell'attività del pittore, quella grafica.

Il C. morì a Napoli tra il giugno 1608 e il 20 settembre dello stesso anno, quando è ricordato in documenti d'archivio come già morto (D'Addosio, 1913, 1919).

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