FLORA, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 48 (1997)

FLORA, Francesco

Massimo Onofri

Nacque il 27 ott. 1891 a Colle Sannita (Benevento) da Giuseppe e Vincenza Di Lecce. Trovatosi, poco più che adolescente, a capo di una numerosa famiglia per la prematura morte del padre, proseguì egualmente gli studi, prima a Benevento e poi a Roma, dove si laureò in giurisprudenza, senza mai abbandonare gli interessi musicali e letterati. Nel 1912, infatti, con l'articolo Di alcuni atteggiamenti dell'arie nuova, apparso ne La luce del pensiero, dette inizio a quell'intensa attività pubblicistica che lo impegnò tutta la vita. Nel 1915 partecipò alla I guerra mondiale come ufficiale di artiglieria alla Scuola Bombardieri di Susegana. A conflitto finito, si trasferì a Napoli, ove, per via di una recensione su L'Azione di Genova alla terza serie delle Pagine sparse di B. Croce raccolte da G. Castellano, conobbe nel 1920 il filosofo abruzzese, della cui casa divenne d'allora in poi assiduo frequentatore.

Qui entra in amicizia con F. Nicolini, A. Omodeo, G. De Ruggiero, F. Chabod, L. Russo, G. Citanna, A. Parente, M. Vinciguerra, e con i poeti S. Di Giacomo e F. Russo, fino ad occupare nel gruppo degli intellettuali napoletani crociani, per la spregiudicata attenzione alla nuovissima letteratura, quel posto che solo pochi anni prima era stato di G.A. Borgese, ormai irreparabilmente in rotta con il maestro.

Nel '21 dette alle stampe Dal romanticismo al futurismo (Piacenza). Come scrisse nel prologo alla nuova edizione (Bari 1925), non si trattava soltanto di esaminare una stagione artistica, ma di "trovare l'orientamento morale di un pensiero di fronte alla letteratura d'oggi".

Tale orientamento era offerto dall'estetica di Croce, che veniva opposta alle recenti formulazioni simboliste bergsoniane e futuriste: una concezione dell'arte come intuizione lirica e cosmica, nel segno dell'identità di intuizione ed espressione, di genio e gusto; il rifiuto della teoria dei generi e della classificazione delle arti (dì mera utilità pratica), in nome della rigorosa individualità del prodotto artistico; una nozione di critica come attività che caratterizza e riproduce nel pensiero un'opera d'arte, e distingue in essa "ciò che nel campo dello Spirito non è arte, ma logica o economia o pratica".

Nella sua analisi il F., sulla scorta di Croce, separava nettamente G. Carducci, ultimo classico, da G. D'Annunzio e G. Pascoli, veri ispiratori, in sintonia con la coeva letteratura francese (da Ch. Baudelaire a S. Mallarmé a P. Valéry), della nuova poesia, viziata dalla "concupiscenza", dal "frammentarismo impressionistico ed impreciso" e da una certa confusione tra arte e vita. A paradigma della letteratura recente il F. poneva il futurismo, inteso, oltre ogni formula marinettiana, come "atmosfera spirituale di un'età", nei suoi aspetti di viva attenzione per la vita moderna, di ricerca esasperata del nuovo e di lotta contro ogni forma di "passatismo".

Il libro, che si chiude con la ribadita adesione all'estetica di Croce nei confronti dei presunti superatori italiani (il Borgese, E. Cecchi, E. Serra, G. De Robertis), non poteva che generare, accanto ai consensi dei seguaci del filosofo (Castellano, Citanna), severe critiche quali quella d'aver fattoppera acriticamente apologetica (A. Gargiulo). È pur vero, però, che se il F. aveva condiviso la crociana svalutazione morale della "decadenza romantica", espressa in un saggio del 1907 (Di un carattere della più recente lett. it.), se ne era poi discostato per aver ravvisato nel futurismo le contraddizioni foriere di un "ordine nuovo" in poesia, lodandone, inoltre, l'impiego di nuove tecniche artistiche. Per non dire della distanza dello stile limpido e rigoroso del filosofo da quello immaginifico del F., ricondotto dagli interpreti a moduli dannunziani (G. Marzot, E. Mazzali), a certo secentismo (L. Russo), al neobarocco napoletano di un V. Imbriani (Russo, Mazzali), e che poteva apparire, in questo giovanile lavoro, persino "approssimativo e bombardiero" (Cecchi). Certamente, il libro è un'"autobiografia mentale" (Russo), ma per la prima volta, benché in forma di intuizione generale, assume la nuova stagione letteraria come età storicamente isolabile (R. Scrivano), ad avviare quegli studi sul decadentismo che tanta fortuna avranno nella futura storia della critica.

Nel 1923 entrò nella redazione de La Critica diretta da Croce, della quale, l'anno dopo, divenne editore responsabile, incarico che conservò fino al '44, quando la rivista si mutò nei Quaderni della Critica. Nel contempo, si iscrisse all'Associazione della stampa periodica italiana, rimanendovi fino al '27, allorché ne venne escluso per motivi politici. Sono questi gli anni in cui collaborò a Le Battaglie del Mezzogiorno, Il Giornale d'Italia, Il Secolo XX, Il Mattino, Lo Spettatore italiano, Leonardo, La Fiera letteraria e, dal 1929, a Pegaso. Nel '26 pubblicò il D'Annunzio (Napoli), ove, ad integrare il giudizio crociano sul "dilettante di sensazioni", ne riesaminava l'intera opera, distinguendo la "parola-azione" della lussuria non riscattata in arte dalla "parola-musica", l'"oratore della concupiscenza" dal poeta di grande valore. Nel 1927 dette alle stampe il Croce (Milano), a chiarire e compendiare alcuni temi di "un pensatore che considera la disciplina del pensiero, come metodologia della storia". Nello stesso anno pubblicò il primo romanzo La città terrena (Foligno), la cui stesura lo aveva impegnato sin dal '19.

Nel libro si narra la storia di Giuliano Solari, estetizzante verseggiatore, sempre vincitore in amore, nell'alternarsi di eventi luttuosi che riscatteranno, nell'esperienza del dolore, lo smanioso superuomo: il tutto in una cornice folta di personaggi e vicende parallele. Il romanzo, di chiara ispirazione dannunziana (Citanna, P. Nardi, Mazzali), se non merita l'accusa di "basso daveronianesimo" (A. Cajumi), non pare nemmeno dominato dalla "religione della bellezza musicale" (Citanna), ma segnato da una sovrabbondanza verbale, di schemi e di modelli letterari (Cajumi).

Nel 1928 curò le Poesie di V. Monti (Firenze) e De gl'heroici furori di G. Bruno (Torino), con introduzione e note, dando inizio alla sua lunga attività filologica. Nel '30 pubblicò Mida il nuovo satiro (Milano), favola allegorica che narra la storia amorosa di un illusionista, Mida, e di una ballerina, i quali, carpito il segreto dell'eterna giovinezza, percorrono i secoli al ritmo di prodigiose metamorfosi.

Nel 1931, per motivi economici e familiari, ma soprattutto per l'aumentata aggressività dello squadrismo fascista, si trasferì a Milano ed assunse, mantenendola sino alla morte, la direzione della collana mondadoriana "Classici italiani", inaugurata con i due volumi delle Opere di M. Bandello (1934-35) da lui curati. Nel contempo, iniziò la collaborazione a L'Ambrosiano, L'Illustrazione italiana e Il Lavoro, e pubblicò I miti della parola (Trani 1931).

Il libro muove dall'assunto che dietro ogni immagine di poesia, anche la più oggettiva, vi sia un "certo fluido spazio che ogni lettore riempie a suo modo, soprattutto con ricordi d'infanzia", nel quale "la visione poetica si fa corporea proprio per quelle linee personali che la nostra esperienza di vita apporta alle sillabe e ai segni di uno scrittore". La parola, saggiata più nelle sue interne risonanze che nella sua portata storica, è, di continuo, nel gioco delle infinite analogie, evocatrice di miti e, quindi, perenne metafora. Su tali premesse, di ispirazione "baudeleriana-dannunziana-proustiana" (Russo), il F. ribadiva la sua adesione al crocianesimo: non senza aver identificato la nozione di "liricità" con quella di musicalità, eletta a canone interpretativo della poesia, e aver posto il principio dell'unità di tutte le arti a fondamento di frequenti traslazioni di termini e significati. In tal senso, pare lecito dire che, in più punti, il F. riviva il pensiero di Croce, mettendo quasi capo a una concezione dell'attività estetica, più che metaforica, "metamorfosica" (A. Bocelli): a rendere con la parola poetica non solo i ritmi delle umani generazioni, ma dell'intero creato.

Nel 1934 curò le Poesie di T. Tasso (Milano), dando avvio così alla nuova critica tassiana (L. Caretti), e Il fiore delle Laudi di D'Annunzio (Milano), chiosate con acute note sulla lingua del poeta, anche per correggere qualche conclusione troppo schematica della monografia del'26. Sempre nel 1934 pubblicò Civiltà del Novecento (Bari, 3 ed. con agg., 1949), appassionata difesa del "macchinismo", in anni in cui si andava profilando quella critica alla società tecnologica che, da E. Husserl a M. Heidegger fino a T.W. Adorno e M. Horkheimer, avrebbe caratterizzato la storia del pensiero europeo.

Nella prima parte del libro, infatti, il F. compone le varie forme della vita contemporanea in una sorta di religio hominis e prende le distanze da tutti gli apocalittici critici del progresso scientifico, nella piena accettazione dei valori e dei riti della civiltà tecnologica: la radio, il cinema, la réclame, e i moderni meetings sportivi di massa.

Nella seconda parte (Difesa e apologia dell'uomo), a sostegno del suo "umanesimo della macchina", il F. tentava, con passo filosofico non sempre sicuro, la confutazione di alcune teorie che, a suo dire, privavano l'uomo di ogni responsabilità morale, asservendolo o a leggi storiche fatali, come ne Il tramonto dell'Occidente di O. Spengler, o a "istinti brutali", come in certa letteratura (A. Gide e D.H. Lawrence) e nella nuova dottrina psicologica freudiana. Di particolare rilievo le molte pagine dedicate a S. Freud, che rappresentano, insieme a quelle di De Ruggiero, la testimonianza più chiara delle incomprensioni della cultura idealistica italiana nei riguardi del fondatore della psicanalisi, tacciato d'aver rinnegato "l'humanitas, la responsabilità e la dignità dell'uomo".

Nel 1936 curò l'edizione de Il codice Baruffaldi della Gerusalemme e dell'Aminta di T Tasso (Milano), del quale si provò a sostenere l'autenticità, e dette alle stampe La poesia ermetica (Bari), a consacrare storicamente, con tale fortunato aggettivo, una stagione della poesia contemporanea.

Vi sono esaminate le opere di G. Ungaretti e P. Valéry, massime espressioni di un'arte rarefatta, intensamente allusiva, che ha sostituito la similitudine con l'analogia. Il F. nega decisamente che tali alchimie verbali possano coincidere sempre, in quanto fondate sul metodo analogico, con l'essenziale liricità, e scorge in esse il compiacimento per l'imprecisione degli accostamenti e per l'ambiguità delle immagini, e l'indugio su una certa istintualità non riscattata, rintracciando un limite psicologico nel sentimento non chiarito.

Nel 1937 apparve il primo volume delle opere di G. Leopardi (Milano, 1937-49), rivedute attentamente sugli autografi e corredate da un ricchissimo apparato critico-filologico. Nel '40, inoltre, il F. licenziò il Foscolo (Milano), mentre, dal 1939 al '41, pubblicò a Parigi per i tipi di Tallone Il Giorno di G. Parini e la Commedia dantesca. Sono questi gli anni in cui il regime tentò, sul piano della cultura, un incontro con gli intellettuali antifascisti che culminerà nell'esperienza di Primato; ma l'opposizione del F. fu irriducibile, nella rinunzia a un seggio dell'Accademia d'Italia e alla cattedra di letteratura italiana presso l'università di Pavia, per non dover prendere la tessera fascista.

Sempre nel 1940 apparve la Storia della letteratura italiana (Milano), il cui Novecento (curato da L. Nicastro, conosciuto ai tempi della grande guerra) sarà scritto dal F. solo per la VII edizione (Milano 1953). Si tratta di un lavoro monumentale, dalle vastissime letture di prima mano i cui pregi principali risiedono nella compiutezza con la quale sono passati in rassegna gli autori, e nell'abilità con cui si è saputo "far risuonare ... le estreme note e le minime entità del nostro universo poetico e letterario" (G. Getto). Ma la Storia, nonostante la grande quantità di informazioni biografiche e bibliografiche, di notazioni sul contesto storico e culturale di un'età, di minuziosi resoconti circa le trame dei racconti, romanzi, commedie, tragedie e poemi, non segna in alcun modo un superamento del crociano dissenso per una storia letteraria ed evolutiva, attenta alle relazioni stilistiche ed ideologiche tra le opere, piuttosto che alla loro individualità e irripetibilità.

Il fine dominante, infatti, rimane la ricerca del sentimento guida che informa ogni opera, della sua essenziale liricità e "tonalità": a disegnare, più che un quadro di robusta storicità, una galleria di monografle, sorrette da una messe di citazioni, che ad alcuni è parsa "quasi una crestomazia della letteratura italiana" (R. Wellek) o, addirittura, "una storia senza storia" (Marzot). Il F., dunque, sembra dare una prova generale della sua estetica, in una prosa lussuosa ma certo vibratile, condotta per delibazioni progressive, prestando agli autori "un omogeneo colore di attualità novecentesca" (Marzot), a causa del quale, si direbbe, la poesia è sempre poesia contemporanea.

Non sorprende, quindi, che migliori siano le interpretazioni degli autori congeniali: Petrarca, di cui celebra la "quasi inavvertita melodia"; Leonardo, "pittore del sorriso"; Tasso, dalla "serena sensualità", i cui personaggi rappresentano i "simboli melodici nei quali il poeta compone la storia ideale della sua anima"; Monti, il poeta della "bellezza tutta sensibile dell'universo"; Foscolo, le cui Grazie sono il suo risultato più alto; D'Annunzio, Pascoli e S. Di Giacomo. Degna di nota, pur nella ricerca dei momenti di poesia, la difesa dell'allegorismo di Dante, o le pagine dedicate a Leopardi, che ha fatto della parola una "metafora interamente trascritta", privandola di "ogni sapore e colore e odore di comunicazione pratica".

Di grande efficacia, per unanime consenso, il capitolo dedicato al barocco, in cui non ravvisa, sulla scorta di E. D'Ors, una categoria ricorrente da opporre al classico, ma un preciso momento storico, nel quale scorge il primo affermarsi di quell'analogismo, così importante nella poesia contemporanea. Di rilievo le parti dedicate a G. Galilei, G. Bruno, T. Campanella e G. Vico, riguadagnati pienamente alla storia letteraria. Meno felici le analisi di gran parte degli scrittori in prosa (Wellek), in particolare A. Manzoni e G. Verga, del quale, nonostante la fondamentale monografia del Russo, disapprova lo stile "apersonale e come pietrificato", privo del "dono della musica", pur con apprezzamenti per la "inesta cantilena siciliana".

Nel 1941 uscirono a Parigi, per sua cura, i Triumphi del Petrarca e, l'anno dopo, le Rime di Dante. Nel '43 avviò a Milano la nuova serie del Saggiatore, "rivista di varia umanità", che affidò a C. Cordié, giacché, sopravvenuta l'occupazione tedesca e instaurata la repubblica di Salò, fu costretto ad un'avventurosa fuga verso Napoli, che raccontò poi in Viaggio di fortuna (Milano 1945). Dal 25 luglio all'8 sett. del '43 fu segretario nazionale del sindacato degli scrittori, in un crescente impegno civile e politico che culminerà nel vibrante Appello al re (Napoli 1943), nell'intensa attività pubblicistica, nelle conversazioni radiofoniche, poi riprodotte in Ritratto di un ventennio (ibid. 1944), e in scritti come Stampa dell'era fascista (Roma 1945). Sempre nel 1943 fu edito Taverna del Parnaso, dal titolo di una sua fortunata rubrica giornalistica ove raccolse, tra l'altro, due vecchi scritti di riflessione sulle "istituzioni letterarie" (Getto) - La polemica dell'endecasillabo e La rima -, saggi su Cecchi, A. Baldini, R. Bacchelli e un bel Ricordo di un'edizione leopardiana. L'anno seguente fondò a Napoli Aretusa, la prima rivista letteraria dopo la dittatura nell'Italia ancora occupata e divisa, cui fa seguire La Rassegna d'Italia nel '46. Nel contempo fu eletto socio dell'Accademia dei Lincei e primo direttore generale delle Relazioni culturali con l'estero, su incarico del Consiglio dei Ministri, impegno presto cessato per mancanza di fondi.

Nel 1947 dette alle stampe Leopardi e la letteratura francese (Milano) cui seguì, nel '49, Poetica e poesia di Giacomo Leopardi (ibid.). Nello stesso anno, dopo un periodo come incaricato presso l'università Bocconi di Milano, vinse la cattedra di letteratura italiana con regolare concorso, rifiutando di servirsi della legge che dava diritto ai perseguitati di far riaprire i concorsi espletati dopo il 1933. Contemporaneamente pubblicò Saggi di poetica moderna. Dal Tasso al Surrealismo, dove, accanto agli scritti su G. Casanova, Leopardi, L. Tolstoj e Freud, sono da rilevare le note sull'ermetismo, nelle quali si legge, una volta placata la polemica, un'analisi più equanime, e il Viaggio nel tempo crociano, lucida disamina del proprio percorso intellettuale. Di particolare acume le pagine dedicate a A. Onofri, di cui sottolinea la "metamorfosi universale e la cosmica annonia" (Mazzali). Nel 1950 fondò la rivista Letterature moderne e inaugurò una serie di conferenze e lezioni in Argentina, Brasile, Uruguay, Cile e Perù. Nel '52 giunse a Bologna quale erede della cattedra che, prima di lui, era stata di Carducci, Pascoli, A. Galletti e C. Calcaterra. Nello stesso anno pubblicò Scrittori italiani contemporanei (Pisa), Leonardo (Milano), e curò, insieme col Mazzali, le edizioni integrali a raffronto, con corrispondenze e varianti, de La Gerusalemme Liberata e La Gerusalemme Conquistata di Tasso (ibid.), del quale curò anche le Poesie (ibid.).

Nel 1953 apparve Offismo della parola (Bologna), vero e proprio inno al verbum, ricapitolazione e sintesi di tutta la rifflessione estetica del Flora.

"Logor ergo cogito et sum": la parola è "la perenne verità in cui l'uomo si istituisce", assolutamente distinta dalla menzogna o "antiparola", e genitrice della ciceroniana Caritas generis humani. Il fatto poetico, che il critico ricostruisce nel suo carattere e svolgimento, infatti, si carica qui, nel segno di una humanitas pienamente abbracciata, di una forte valenza etica ed assorbe in sé tutte le dimensioni della civiltà: con accenti foscoliani, il cui nome, non a caso, campeggia in Ufficio delle lettere e metodo della critica, primo capitolo di quest'opera. Ma, nonostante tale ribadita eticità della parola poetica, l'idealismo del F., nel suo verbalismo orfico, si riconferma "magico e demiurgico", intriso di quei "lieviti irrazionalistici" (Bocelli), che sono il suo tratto saliente, così diverso da quello dei suoi compagni di strada Russo e M. Fubini: lontano dalla influenza di un F. De Sanctis o di certa scuola storica che subì il primo, come da quella di L. Spitzer che sentì il secondo.

Nel 1955 il F. ristampò due antiche raccolte di versi, già apparse come manoscritti (1921 e '44), con il titolo Canti spirituali. Si tratta di poesie nate nel segno di un certo dannunzianesimo, progressivamente evolutosi nella direzione di una più serena classicità (Mazzali), il cui vero valore, però, sembra quello di testimonianza circa lo sviluppo del gusto e dello stile del critico. Nel 1959 pubblicò La poesia di G. Pascoli (Bologna), del quale distingue il mondo poetico da quello etico, a segnalare l'arcana cosmicità e il motivo tematico della perplessità, con attenzione alle novità prosodiche, metriche e ritmiche. Nello stesso anno vide la luce La poesia e la prosa di G. Carducci, a ricostruire le grandi stagioni dell'"ultimo poeta del Risorgimento", non senza una storia della sua fortuna critica. Ancora nel'59 dette alle stampe i primi volumi di una grande Guida alla poesia (Preludio alla poesia, La poesia della Bibbia, La poesia dell'Egitto e della Mesopotamia, Milano), con l'intento di offrire documenti di tutti i tempi e luoghi, fondandosi sulla convinzione che "la vera poesia oltrepassa tutte le barriere linguistiche", a segnare l'approdo estremo di una vera e propria religio litterarum. Nel 1962 vi aggiunse Poesia e impoesia nell'Uisse di Joyce (Milano), in cui si provava a distinguere i numerosi momenti lirici dal pesante simbolismo omerico e psicanalitico, unendo interessanti notazioni sull'umorismo, l'ironia parodistica e le imitazioni di stile dell'irlandese.

Ma il 17 sett. 1962 la morte vanificava questo ambizioso progetto, cogliendolo in una clinica di Bologna, dove era stato ricoverato circa un mese prima per una grave forma di insufficienza epatica.

Fonti e Bibl.: Per quanto concerne una rassegna, il più possibile completa, delle opere del F., redatta sulla base della raccolta dell'autore (in parte lacunosa per effetto di due incendi causati dai bombardamenti bellici), si veda la Bibliografia delle opere e degli scritti diversi, in Studi di varia umanità in onore di F. F., Milano 1936, pp. 1193-1233. Ad essa si aggiunga F. Flora, Umanesimo scientifico e umanesimo morale, apparso post. in Rivista di studi crociani, II (1965), 4, pp. 381-385. Per le notizie sulla vita e sulla figura del critico si veda C. Lanzillotta Flora, Cronologia essenziale della vita e delle opere di F. F., in G. La Rocca Nunzio (a cura di), Sulle orme di F. F., Bergamo 1936 (con numerose testimonianze di amici e compagni), poi in L. Nicastro, Con F. F. Avvenimenti e uomini del nostro secolo, Milano 1936, pp. 371-383, libro ricco di dati biografici (a partire dalla prima guerra mondiale), con lettere di F., B. Croce, G.A. Borgese, E. Bodrero, A. Soffici e K. Vossier. Si vedano, inoltre, G. Villaroel, F. F., in Gente di ieri e di oggi, Bologna 1954, pp. 167-172; G. Ravegnani, Nota su F. F., in Uomini visti, vol. II, Milano 1955, pp. 136-140; L. Rèpaci, F. F., in Compagni di strada, Roma 1960, pp. 445-472; A. Parente, Lineamenti bio-bibliografici di F. F., in Rivista di studi crociani, IX (1972), 3-4, pp. 247-267; pagine autobiogr. in Storia della lett. it., Milano, VII ed., 1953, pp. 626 ss., e in Letterature moderne, V (1960), 4, poi in E.F. Accrocca (a cura di), Ritratti su misura, Venezia 1960, pp. 186-191. Studi critici: L. Russo, L'esperienza futurista (1921), in Problemi di metodo critico, Bari 1929, pp. 277-283; G. Castellano, in Il Giornale d'Italia, 25 febbr. 1922; A. Gargiulo, Dal romanticismo al futurismo, in La Ronda, IV (1922), 2, pp. 54-58; G. Citanna, Dal romanticismo al futurismo, in La Critica, s. 2, VII (1922), 3, pp. 171 ss.; G. Toffanin, Dal romanticismo al futurismo, in La Cultura, I(1922), vol. 1, 9, pp. 407-412; E. Cecchi - G.B. Angioletti, in La Fiera letteraria, 9 maggio 1926; L. Russo, Dal romanticismo al futurismo (1923), in Letteratura italiana del Novecento, Milano 1972, vol. II, pp. 1257-1260; G.A. Peritore, Critica dannunziana, in Il Baretti, IV (1927), I, pp. 5 s.; A. Cajumi, Sagome di contemporanei., F. F., ibid., 7, pp. 34 s.; P., Nardi, La città terrena, in La Fiera letteraria, 19giugno 1927; A. Cajumi, ibid., 21 ag. 1927; G. Citanna, La città terrena, in Leonardo, III(1927), 12, pp. 316 s.; F. Collotti, Studi sull'idealismo, ibid., V (1929), 2-3, pp. 48-52; P. Nardi, Mida il nuovo satiro, in Pegaso, II(1930), 4, pp. 498-501; E. Bevilacqua, Mida il nuovo satiro, in Leonardo, n.s., I (1930), 8, pp. 520 ss.; A. Capasso, I miti della parola, in Saper distinguere, Genova 1934, vol. II, pp. 94-104; G. Piovene, Civiltà del Novecento, II(1934), 6, pp. 297 ss.; B. Croce, L'ultimo D'Annunzio (1935), in La lett. della nuova Italia, vol. VI, Roma-Bari 1974, pp. 241-245; L. Anceschi, La poetica di un nuovo romaticismo (1938), in Saggi di poetica e di poesia, Bologna 1972, pp. 214-218; G. Marzot, La critica e gli studi di lett. it., in Cinquant'anni di vita intellett. italiana, Napoli 1940, vol. I, pp. 488-491; W. Binni, Sopra una storia della lett. it., in Letteratura, V (1941), 18, pp. 32-38; C. Muscetta, Storia della lett. it., in Primato, II(1941), 19, pp. 11 s.; G. Getto, Storia delle storie letterarie, Milano 1942, pp. 429-433; Id., F. F. e le istituzioni letterarie (1942), in Poeti critici e cose varie del Novecento, Firenze 1953, pp. 119-137; L. Russo, La critica lett. contemp., Bari 1963, vol. III, pp. 118-163; C. Calcaterra, La storia della lett. it. di F. F. (1943), in Con Guido Gozzano e altri poeti, Bologna 1944, pp. 379-391; E. Falqui, F. e la storia del Novecento (1941 e 1951), in Novecento letterario, Firenze 1957, vol. V, pp. 69-86; E. Mazzali, Il F., scrittori ital. contemp., in Letterature moderne, III(1952), 5, pp. 586-589; R. 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