GABRIELLI, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 51 (1998)

GABRIELLI, Francesco

Paola Monacchia

Figlio di Necciolo di Lello di Cante, nacque intorno alla metà del sec. XIV dal ramo di Cantiano, tradizionalmente guelfo, della nobile e potente famiglia eugubina. Nella seconda metà del 1350, quando era ancora ragazzo, venne preso in ostaggio, insieme con altri parenti, dal cugino Giovanni di Cantuccio Gabrielli il quale, passato a parte ghibellina, si era impadronito del potere con l'appoggio dell'arcivescovo Giovanni Visconti, signore di Milano e si era fatto signore della città il 7 agosto. La misura, come altre allora adottate, aveva evidentemente lo scopo di tutelare il nuovo regime contro future minacce dell'opposizione guelfa. Nel 1353 risultava ancora prigioniero; siamo infatti informati che in quell'anno fu consegnato ad alcuni creditori di Giovanni di Cantuccio, a garanzia di un credito acceso dal signore di Gubbio. Solo quando il card. Egidio Albornoz, legato apostolico in Italia e vicario nelle terre pontificie in nome e per conto di Innocenzo VI, ebbe costretto Giovanni di Cantuccio a esulare, dopo aver deposto il potere nelle mani di un nuovo governo disposto a sottomettersi alla Sede apostolica, il G. vide la fine della sua lunga cattività. Venne infatti finalmente liberato nel 1355 proprio in seguito a un intervento dello stesso Albornoz, il quale risiedeva allora in Gubbio, dove, il 20 giugno, aveva ricevuto l'atto formale di sottomissione dei Montefeltro.

Non poté, in ogni modo, fare subito ritorno in patria, a causa dei contrasti insorti tra i responsabili del nuovo regime e i Gabrielli del ramo di Cantiano dopo che il massimo esponente di questi ultimi, Giacomo, rifiutò di aderire a due richieste del cardinale legato: quella di militare al servizio della Chiesa e quella di cedergli il feudo di Cantiano. Dopo questi fatti, per lo spazio di circa venti anni più nulla ci dicono su di lui le fonti coeve. Riammesso certamente in Gubbio, in data non precisabile, dovette astenersi, al pari degli altri membri della sua famiglia, dal partecipare attivamente alla vita pubblica per tutto il periodo in cui la città rimase sotto il dominio della Chiesa.

Nel 1375, in seguito ai fatti di Firenze, che dettero il via alla guerra degli Otto santi e alla grande sollevazione promossa dai Fiorentini contro la Chiesa, i due rami rivali della famiglia Gabrielli stipularono tra loro una sorta di tregua e, uniti, approfittando della situazione di debolezza delle autorità pontificie, tornarono a tentare di imporre nuovamente la loro supremazia in Gubbio. Essi - e in particolare un fratello del G., Gabriele, monaco avellanita e futuro vescovo e signore di Gubbio - contribuirono a creare le condizioni interne nelle quali maturò la rivolta popolare che nell'autunno del 1376 condusse alla restaurazione del libero Comune nella città umbra, ed ebbero una parte di rilievo nel nuovo regime.

Nel 1376 il G. fu eletto podestà di Pergola, centro fortificato di notevole interesse strategico allora soggetto a Gubbio. Nel 1377, sul finire di maggio, venne dai consoli creato cavaliere, insieme con altri cinque suoi parenti, nel corso delle fastose cerimonie con cui fu celebrato il solenne ingresso in città di suo fratello Gabriele, da poco ordinato vescovo di Gubbio. Nel 1378 fu inviato più volte quale ambasciatore a Roma, presso la Curia, e a Spoleto. Sempre nel 1378 fu chiamato a ricoprire la carica di podestà a Siena. In tale veste accolse e ospitò onorevolmente il fratello Gabriele di ritorno da Firenze, dove si era recato per cercare solidarietà e appoggio a sostegno della linea politica e religiosa da lui avviata a Gubbio. Rientrato in patria fu, di Gabriele, negli anni successivi, uno dei collaboratori più stretti e fidati, in un momento in cui il governo della città si era fatto più difficile per le conseguenze dello scisma apertosi nel 1378 nella Chiesa.

Nei primi mesi del 1380, lasciato al governo di Gubbio dal fratello Gabriele, recatosi presso Galeotto Malatesta, signore di Rimini, per stringere un patto di alleanza, il G. non fu in grado di fronteggiare e di reprimere un tentativo di colpo di Stato compiuto dalla dissidenza interna, alleatasi per l'occasione con gli "estrinseci" e con antichi e nuovi nemici esterni della città.

Approfittando dell'assenza del vescovo, i suoi oppositori riuscirono a provocare l'ammutinamento delle guarnigioni di molte fortezze del territorio di dominio eugubino. Parecchi nobili, che avevano sino ad allora appoggiato il presule e il suo governo, passarono dalla parte dei suoi avversari. Il moto si estese a Gubbio. Qui, il 22 aprile, la fazione "popolare" insorse tumultuando e, impadronitasi del potere, instaurò un proprio governo. Tra i protagonisti della sommossa si segnalò un cugino del G., Cante di Giovanni Gabrielli, pure del ramo di Cantiano. La sollevazione venne poi repressa e soffocata dal vescovo, prontamente rientrato in città alla testa di un forte contingente di cavalieri teutonici al soldo del signore di Rimini (2 maggio).

Il successo, se consentì al presule di riprendere saldamente nelle mani il potere, non fu tuttavia sufficiente, data la situazione generale in rapido e continuo mutamento anche in quello scacchiere, a risolvere il conflitto tra il vescovo di Gubbio e i suoi avversari. O con l'appoggio o con la connivenza delle potenze limitrofe, gli estrinseci proseguirono le loro rovinose incursioni contro il territorio di dominio eugubino anche dopo la stipula - sia pure a pesanti condizioni - del trattato con Perugia (circa la metà di marzo 1381), dopo la nomina del presule a vicario apostolico "in temporalibus" per il distretto di Gubbio (30 nov. 1381) e dopo il nuovo patto, a parità di condizioni, stretto con Perugia il 24 febbraio dell'anno successivo.

Ignoriamo, per il silenzio delle fonti, quale parte abbia avuto il G. nella lotta e nelle azioni belliche contro i ribelli. Siamo tuttavia informati che egli fu il primo a sapere dell'accordo stretto nell'aprile 1383 tra il Comune di Perugia e gli estrinseci eugubini, che - insieme con i maneggi da quelli avviati presso la Curia romana - mise praticamente con le spalle al muro il vescovo. Nulla ci viene detto, però, circa la reazione del G. al provvedimento del 21 maggio, con cui Urbano VI privò il vescovo del titolo e delle funzioni di vicario apostolico in Gubbio e nel suo territorio; così come nulla ci viene riferito circa l'atteggiamento da lui assunto in occasione della sommossa, di poco posteriore, della fazione "popolare", che portò - grazie all'aiuto di Perugia e all'intervento dei fuorusciti - alla restaurazione in città del libero Comune. È certo, in ogni modo, che dopo questi eventi il G. seguì le sorti del fratello e che, come lui, dovette abbandonare la città.

Il 3 giugno 1383, infatti, il G. e il vescovo Gabriele si presentarono dinanzi a un Consiglio generale del Comune, appositamente convocato dalle nuove autorità cittadine, nel corso del quale discussero, stipularono e sottoscrissero un accordo con i vincitori. Con esso, in cambio della rinunzia del presule e del G. a tutti i poteri, le funzioni e gli uffici pubblici da loro ricoperti, il governo popolare riconosceva loro il possesso dei centri fortificati di Serra Sant'Abbondio e di Cantiano, antico feudo di famiglia, e si impegnava a versare loro un indennizzo per le spese comunali sostenute con denaro proprio.

Scomparso il vescovo Gabriele nell'autunno di quel medesimo anno, il G. si vide negare dal governo "popolare" il risarcimento dovutogli. Risultato vano ogni tentativo di accomodamento, per indurre la controparte al rispetto dei patti giurati, il G. si ridusse da ultimo a muovere in armi contro la sua stessa patria. Sul finire dell'anno investì con le sue milizie Gubbio, bloccandola con un assedio durissimo. Impotenti a liberare la città dal blocco che la soffocava, le autorità municipali si volsero per aiuto ad Antonio da Montefeltro, conte di Urbino. La decisione suscitò gravi dissensi interni, fornendo nuova forza all'opposizione: numerosi furono gli eugubini che passarono allora dalla parte del G.; molti coloro che andarono a ingrossare le file dei suoi armati. La situazione precipitò dopo la scoperta di una congiura ordita - si disse dal G. - per eliminare il conte.

Il governo popolare reagì infatti in modo estremamente duro: dette ordine che venissero giustiziati numerosi prigionieri politici e, motivando il provvedimento con l'affermazione che egli non intendeva addivenire ad alcun accomodamento con la città, il 29 genn. 1384 dichiarò il G. ufficialmente ribelle e pose una taglia di 1000 fiorini d'oro per la sua cattura. Nel marzo, inviata un'ambasceria presso il conte Antonio, il Consiglio generale di Gubbio deliberò la nomina di dieci commissari, che dovevano provvedere alla salvaguardia della pace e del buono e tranquillo stato della città; tra loro figuravano due acerrimi avversari del G.: Corraduccio di Corrado Branca e Cecciolo di Cantuccio Gabrielli. Per ottenere l'aiuto armato del conte di Urbino, il 30 marzo venne stabilito di consegnare a quest'ultimo la torre della rocca anteriore di S. Ubaldo. Da quel momento Antonio da Montefeltro, con il titolo di conservatore e protettore, assunse di fatto la signoria della città.

Tuttavia la dedizione al conte di Urbino - che il governo popolare aveva voluto per la sicurezza di Gubbio e alla quale si era acconciata solo una parte della cittadinanza per desiderio di pace e per la carestia che desolava quelle terre - non sortì gli effetti desiderati. Molte furono infatti le resistenze interne al nascente dominio feltresco e il G. non poteva non farsene portabandiera. Dal suo castello di Cantiano riprese immediatamente le ostilità, forte dell'antica alleanza con Firenze e degli aiuti da questa forniti. Nel corso dell'anno ottenne brillanti successi, riuscendo a raggiungere il controllo militare dell'area, grazie al quale rese malsicure le vie di comunicazione tra Cagli e Gubbio e aleatorio l'approvvigionamento di quest'ultima. I tentativi del Comune di risolvere il conflitto non raggiunsero alcun risultato, mentre più efficace fu l'azione del conte di Montefeltro. Costui attaccò i domini del G. nel corso del 1385 e l'8 dicembre il cassero di Cantiano cadde nelle sue mani.

La vicenda aveva finito dunque col travalicare gli angusti limiti locali del conflitto di fazioni per la conquista del predominio sulla città. Con la sua dedizione al conte di Urbino, anche il governo popolare di Gubbio - come già il G. e suo fratello nel 1383 - vide il suo ruolo di protagonista decadere a quello di semplice fattore - tra tanti - all'interno di un quadro assai più ampio e complesso: quello del confronto tra due potenze superregionali, i Montefeltro e Firenze. L'acquisto di Gubbio costituiva per i primi una cospicua tappa, soprattutto sul piano strategico, della loro politica di espansione nell'Italia centrale: essa andava difesa e consolidata in vista di ulteriori progressi. Quanto a Firenze, essa appoggiava l'ostinata resistenza del G., perché rientrava nei suoi interessi mantenere aperto, nello scacchiere umbro-marchigiano, un fronte, lungo cui tenere impegnato, in misura maggiore o minore a seconda delle occorrenze, un potente emulo, quale era appunto Antonio da Montefeltro. Occorsero poco meno di dieci anni perché, dopo alterne vicende avesse fine la guerra tra il G. e il conte di Urbino. Nel luglio 1393 il G. si acconciò a vendere all'avversario l'intera Cantiano con ogni diritto annesso per 8000 fiorini d'oro. Gli cedette inoltre tutti i suoi beni in Gubbio per la stima dei quali sarebbero stati nominati appositamente due "boni homines". Come già aveva fatto dieci anni prima il Comune di Gubbio, così anche il conte di Urbino si mostrò poco disposto a onorare l'impegno sottoscritto. Il G., all'epoca capitano del Popolo a Firenze, ricorse presso la locale magistratura dei Dieci di balia, producendo una querela contro il conte e rivendicando i propri diritti. I Dieci gli dettero ragione, stabilendo inoltre che Cantiano dovesse tornare al suo vecchio e legittimo proprietario, il G., appunto. Della vicenda, piuttosto delicata per i suoi riflessi politico-militari, venne investito lo stesso Baldo degli Ubaldi, il quale compose per essa uno dei suoi consilia.

Durante gli anni della sua collaborazione politica col fratello Gabriele nel governo di Gubbio e in quelli della sua lunga guerra contro il conte di Urbino, il G. non rinunciò mai a prestare il proprio servizio quale magistrato itinerante in molte città dell'Italia centrale, secondo le tradizioni della famiglia. Podestà a Siena nel 1379, nel 1386 capitano del Popolo, di custodia e di balia a Firenze. Nel 1390 fu eletto podestà a Bologna. Tra il 1393 e il 1395 fu in permanenza o quasi a Firenze, dove, a partire dall'autunno del 1393, ricoprì la carica di capitano del Popolo, di custodia e di balia per quasi due anni e mezzo: una situazione del tutto occasionale, questa, che i registri fiorentini giustificano con le particolari doti di competenza e saggezza del Gabrielli.

Nell'aprile del 1396, come solenne e significativo riconoscimento dei servizi da lui resi alla città, le autorità municipali gli conferirono l'"onore delle Armi": gli concessero, cioè, di alzare, insieme con le sue, le armi del Popolo e del Comune di Firenze.

Dopo questa data, poche sono le notizie relative al G. che ricorrono nelle fonti: siamo informati che nel maggio del 1396, appena pochi giorni dopo gli onori tributatigli in Firenze, una compagnia di 3000 armati al soldo del G. e di Bartolomeo da Prato compì un'incursione nel piano di San Martino nel contado di Città di Castello, facendo gravi danni, per poi spostarsi nel territorio di Arezzo. Sappiamo che due anni dopo, nel giugno del 1398, aderì alla lega contro il duca di Milano e che, mentre l'esercito integrato si muoveva dai quartieri mantovani, il G. fu posto, insieme con altri tre capitani, alla testa di un contingente di circa 5000 uomini. Sembrerebbe dunque che negli ultimi anni il G. fosse tornato, come capitano di ventura, alla carriera delle armi.

L'ultima notizia su di lui, che si ritrovi nelle fonti, è del 1400, quando con ogni probabilità egli aveva ormai superato i sessant'anni. Ci viene infatti riferito che in quell'anno fu nominato senatore di Roma da papa Bonifacio IX, a parziale risarcimento, secondo la Cronaca di ser Guerriero, della perdita dei possedimenti aviti.

Aveva sposato, ignoriamo quando, una nobildonna eugubina, Filippa della Serra Brunamonti. Da lei aveva avuto almeno un figlio, Giovanni, che fu a lungo ostaggio del conte di Urbino e che nel 1400 comandava, al servizio del papa, 100 lance.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Perugia, Sez. di Gubbio, Armanni, II.B.8, cc. 8r-12v; Comune, Riformanze, 7, c. 47v; 10, cc. 14v-16r; Guerriero da Gubbio, Cronaca, a cura di G. Mazzatinti, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XXI, 4, ad ind.; B. degli Ubaldi, Consiliorum sive responsorum…, II, Venetiis 1575, cc. 36r-38v; O. Lucarelli, Memorie e guida storica di Gubbio, Città di Castello 1888, pp. 83, 403; G. Degli Azzi Vitelleschi, Le relazioni tra la Repubblica di Firenze e l'Umbria nel sec. XIV secondo i documenti del R. Arch. di Stato di Firenze, Perugia 1904, pp. 194-197; G. Franceschini, Gubbio dal Comune alla signoria dei Montefeltro, in Storia e arte in Umbria nell'età comunale. Atti del VI Convegno, Gubbio… 1968, Perugia 1971, pp. 387-389; P.L. Menichetti, Storia di Gubbio dalle origini all'Unità d'Italia, Città di Castello 1987, I, pp. 108 ss.; P.L. Meloni, La rocca posteriore di Gubbio sul monte Ingino, in Saggi sull'Umbria medievale, Napoli 1994, pp. 370 ss.

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