GUARINO, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 60 (2003)

GUARINO (Guarini), Francesco

Silvia Sbardella

Nacque a Sant'Andrea di Solofra, presso Avellino, il 19 genn. 1611 da Giovan Tommaso e Giulia Vigilante, secondogenito di sei figli (Braca, 1996, p. 215).

Il G. proveniva da una famiglia di artisti; il nonno, Felice, firmando la pala della sua unica opera nota, la Madonna di Montevergine eseguita nel 1606 per la chiesa di S. Giuliano a Solofra, si definiva "descendens a pictoribus generansque pictores" (Id., 1987, p. 7). Il padre, Giovan Tommaso, nato nel 1573, fu titolare di una fiorente bottega, seppur circoscritta in ambito locale, dove si praticava la pittura e l'intaglio del legno. La sua prima opera nota è l'Annunciazione per la chiesa di S. Andrea a Solofra, firmata e datata 1615, cui fece seguito l'esecuzione del soffitto a cassettoni per la chiesa di S. Spirito a Solofra; dei dipinti pertinenti a questo solo le due tele raffiguranti Davide e Salomone, firmate e datate 1622, sono riconducibili alla sua mano. Sempre nel corso del terzo decennio del secolo, Giovan Tommaso ebbe l'incarico di realizzare il cassettonato ligneo e i dipinti (21 tele raffiguranti episodi del Vecchio Testamento) per il soffitto della collegiata di S. Michele Arcangelo a Solofra: tale committenza segnò l'inizio dell'egemonia artistica della famiglia Guarino all'interno della più importante chiesa di Solofra. Per lo stesso edificio il pittore eseguì anche la Ss. Trinità con i ss. Antonio e Francesco, firmata e datata 1622; la Madonna del Rosario e le due tele absidali con Tobiolo e l'angelo e Abramo visitato dagli angeli. In data non precisabile eseguì per gli Orsini di Gravina tre tele (S. Pietro piangente, la Madonna col Bambino e angeli musicanti, la Disputa di Cristo tra i dottori) che nel 1707 comparivano nell'inventario delle opere del palazzo di famiglia a Gravina (Rubsamen). Morì a Solofra il 21 ag. 1637.

Formatosi all'interno della bottega paterna, il G. ebbe anche l'opportunità di frequentare l'atelier del pittore Massimo Stanzione, anche se non sono ancora ben chiare le modalità e i tempi di tale frequentazione: poco probabile è la notizia riportata da V. Garzilli (p. 379) secondo la quale egli avrebbe frequentato la bottega di Stanzione nel 1623; più plausibile sembra l'ipotesi di una permanenza episodica a Napoli, come confermano i libri parrocchiali di Solofra, che non registrano alcuna assenza prolungata dell'artista dalla terra d'origine (Braca, 1988, p. 41).

Nel 1634 il G. viene citato, insieme con il fratello Giovan Sabato, in un atto notarile per l'acquisto di una casa del valore di 44 ducati; garante dell'acquisto fu il padre, che in una stesura di poco successiva impegnava i due figli nei lavori (perduti) di manifattura e pittura dell'altare maggiore della cappella di S. Maria del Soccorso a Solofra, conclusi entro il 1636. In questo stesso anno cade la realizzazione della Madonna del Rosario per l'altare del Monte dei Morti nella parrocchiale di S. Andrea di Solofra: considerata da parte della critica (Braca, 1996, p. 203) la prima opera certa dell'artista, da altri (Lattuada, p. 140) è ritenuta frutto della "produzione cantieristica e semi-collettiva" della bottega di Giovan Tommaso negli ultimi anni di attività.

Tra le opere autografe del G. riferibili agli anni centrali del quarto decennio del Seicento va ricondotta una serie di pregevoli dipinti con figure femminili a mezzo busto quali la S. Agata del Museo statale di belle arti Puškin di Mosca, solo di recente restituita al G. (ibid., p. 170), la S. Barbara e la S. Caterina d'Alessandria, entrambe in collezioni private statunitensi (ripr. ibid., pp. 171, 174), la Giuditta del Museo diocesano di Salerno, e la S. Teresa (coll. privata: ripr. ibid., p. 177).

Caratteristica di queste prime prove è l'essenzialità compositiva, rilevabile nella tendenza a isolare la figura all'interno di una ambientazione rarefatta e nella riduzione drastica della tavolozza, ma, soprattutto, la capacità di coniugare il classicismo di un Simon Vouet alla lezione caravaggesca, elemento distintivo dell'"officina Stanzione".

Il 25 febbr. 1636 il G. fu emancipato dal padre ed entrò in possesso della bottega paterna; nel marzo di questo stesso anno ricevette l'incarico da parte dell'Universitas solofrana di realizzare i dipinti per il soffitto del transetto nella collegiata di Solofra (Braca, 1996, p. 200).

Il ciclo prevedeva l'esecuzione di 21 tele, di vario formato, da inserire nell'impianto decorativo dell'elegante soffitto ligneo, per un compenso - decisamente esiguo - di 10 scudi ciascuna; i priori si riservavano inoltre il diritto di trattenere la metà della cifra come indennizzo per una non precisata controversia sorta in precedenza con il padre del G., forse per il soffitto della navata centrale (ibid.). Motivo iconografico unificante dei dipinti, disposti senza un sistematico criterio cronologico o iconografico, è la figura dell'angelo e il suo ruolo all'interno delle narrazioni neotestamentarie e dell'Apocalisse: non solo nunzio celeste ma immagine concreta di conforto fisico e spirituale, come nel Cristo nell'orto, nella Liberazione di s. Pietro o nella Fuga in Egitto (Pacelli, p. 178). Il breve lasso di tempo previsto per la consegna delle opere (3 sett. 1637) ha fatto avanzare l'ipotesi che il G. vi abbia posto mano prima della formalizzazione dell'incarico, intorno al 1632-33 (Lattuada, p. 115); la data 1642 posta sulla tela dell'Annunciazione conferma inoltre il fatto che i priori dovettero accettare una dilazione dei tempi.

Datata 1637 è la grande tela della Kunsthaus di Zurigo, il cui soggetto è stato interpretato come La Madonna e s. Giuseppe che porgono Gesù Bambino ai frati carmelitani (ibid., pp. 183-185). A una datazione prossima a questo anno si sono potute ricondurre la S. Caterina d'Alessandria del Museo di Ponce (Puerto Rico), opera di notevole tensione emotiva, ritenuta a lungo dello stesso Stanzione e attribuita al G. da Bologna (1955); il S. Onofrio già nella collezione Voena di Milano (ripr. in Lattuada, p. 181); la tela di eccezionali dimensioni (241 x 400), raffigurante I sette arcangeli dell'Apocalisse, destinata al Monastero de las Descalzas reales di Madrid e ivi ancora oggi custodita, sebbene in precarie condizioni conservative.

Tra il 1637 e il 1640 il G. realizzò i dipinti con Storie di s. Agata per il soffitto della parrocchiale di S. Agata di Solofra (Sant'Agata Irpina).

Le notizie relative a tale commessa ci giungono da un documento dell'ottobre 1682, data in cui si poneva fine alla vertenza sul pagamento dei dipinti tra il parroco della chiesa in questione e l'erede della famiglia Guarino, Giulia. Dal documento si evince inoltre che il contratto prevedeva la "fattura di sedici quadri in circa per il soffitto, seu intempiatura di detta parrocchiale con finimento in oro, et ogni altro magistero" (Tavarone, 1988, p. 19). Composto da quindici tele, il ciclo presenta non poche difficoltà di interpretazione, visto che la lettura dell'opera risulta gravemente inficiata dalle cattive condizioni di conservazione e dalle pesanti ridipinture conseguenti ai restauri occorsi tra il 1770 e gli anni Quaranta del Novecento. Tra le poche opere riferibili alla mano dell'artista figurano: il Taglio dei seni e Il supplizio delle braci ardenti, capolavori indiscussi dell'intero ciclo; la S. Agata visitata in carcere da s. Pietro, forse tra le opere più interessanti proprio in virtù delle scelte compositive e luministiche che evocano soluzioni del primo caravaggismo "con uno scaltro assemblaggio di elementi desunti dallo Honthorst più anticlassico e dallo Stomer degli anni meridionali" (Lattuada, p. 153); il S. Antonio che converte un miscredente, nonostante il cattivo stato conservativo. All'intervento diretto del G., Tavarone (1988, pp. 12 s.) riconduce anche Il miracolo dell'ostia caduta nel fango e la tela centrale del soffitto interpretata come Il principe di Avellino accompagna in processione l'Eucarestia, una sorta di apoteosi della famiglia Caracciolo ipotetica committente dell'opera; diversamente Lattuada (p. 155) dando una lettura più consona al contesto iconografico (La traslazione delle reliquie di s. Agata), sembra propenso a riconoscervi un decisivo intervento della bottega.

Ai primi anni Quaranta risale un cospicuo nucleo di dipinti per la parrocchiale di S. Andrea di Solofra, ancora oggi all'interno della chiesa (a eccezione della Madonna del Rosario che è stata trafugata); evidenti cadute di stile denunciano un apporto solo parziale dell'artista come nel Martirio di s. Andrea e relativa cimasa con la Resurrezione di Cristo, datate entrambe 1642. Unica eccezione, forse, è il Giuseppe venduto dai fratelli, che per qualità esecutiva e realismo narrativo può essere pienamente considerato autografo.

Allo stesso periodo, oltre all'esecuzione della pala con l'Immacolata Concezione per la Congrega dei Bianchi della collegiata di Solofra datata 1642, risale la realizzazione di due opere realizzate dal G. al di fuori del consueto contesto solofrano; si tratta di due retabli destinati agli altari di S. Antonio Abate e S. Benedetto nella chiesa dei Ss. Antonio Abate e Leonardo Levita a Campobasso.

Il primo, composto da nove dipinti di piccolo formato, posti intorno a una statua lignea del santo di epoca cinquecentesca, è databile al 1642 - la data si legge su una delle storie rappresentate (L'incontro di s. Antonio Abate con il centauro) - e raffigura una serie di episodi ispirati all'agiografia cinquecentesca collazionata da Aymar Falco (Antonianae historiae compendium); oltre ai noti episodi delle tentazioni sono presenti quelli evocanti le capacità esorcistiche e taumaturgiche del santo nonché la vocazione eremitica e la morte leggendaria. Il secondo dei due retabli molisani fu eseguito nel 1643, data visibile sulla cimasa raffigurante il Compianto su Cristo morto, posta a coronamento della grande pala con S. Benedetto che esorcizza un frate ossesso. Entrambe le opere, il cui valore qualitativo è stato più volte sottolineato (Lattuada, pp. 168-170), risultano frutto di un contesto culturale complesso, dove la matrice culturale stanzionesca del G. riesce a fondersi magistralmente con soluzioni riberesche.

Intorno agli anni 1643-45 sono collocabili sia il duplice ritratto già in collezione Maffei di Solofra, rappresentante l'Incontro tra Giovan Leonardo e Giovan Vittorio Maffei alle porte di Solofra (ripr. ibid., p. 203), sia i cinque piccoli dipinti ottagoni su rame del Museo nazionale di Capodimonte, provenienti dalla certosa di S. Martino e raffiguranti La negazione di s. Pietro, Il pastore con cornamusa (?), La Madonna col Bambino, S. Girolamo scrivente e la Morte di s. Alessio; una datazione analoga (1642-45) è ipotizzabile per le due versioni del Transito di Giuseppe, l'una già nella chiesa del Corpo di Cristo a San Sossio di Serino (ripr. ibid., p. 221), l'altra ancora oggi visibile nella collegiata di Solofra.

Le sole opere che nell'arco di questo periodo è possibile fissare ad annum sono La Madonna del Rosario (Solofra, collezione Di Donato; ripr. ibid., p. 207), datata 1644, e la Madonna del Rosario e santi del santuario di S. Maria Mater Domini a Nocera Superiore, datata 1645. Il dipinto di Nocera, probabilmente commissionato al G. dai Congregati della Confraternita del Ss. Rosario, pur risentendo in maniera palese dei modelli dello Stanzione, ci pone "di fronte ad un'opera di grande impegno formale e compositivo" (ibid., p. 217).

Oltre il 1645 si colloca un altro nucleo di dipinti, tra i quali emergono il Matrimonio mistico di s. Caterina, già in collezione Messinger (ripr. ibid., p. 222), la Madonna col Bambino e i ss. Anna e Gioacchino della chiesa dei Ss. Apostoli di Solofra, la Visitazione di Maria ed Elisabetta della Gemäldegalerie di Berlino e il suo pendant in collezione privata (ripr. ibid., p. 223) con la Natività della Vergine - forse le uniche due tele superstiti di un ciclo di opere con soggetto mariano -, e le due pale d'altare raffiguranti la Madonna di Portosalvo e la Madonna delle Grazie, destinate ancora a due chiese solofrane, S. Rocco e la collegiata. Una menzione a parte meritano la splendida S. Agnese (in coll. privata; ripr. ibid., p. 223), la monumentale S. Cristina di Amiens (Musée de Picardie), della quale esiste un'altra versione alla Pinacoteca civica di Pesaro, e il S. Giorgio della collezione del Banco di Napoli, la cui datazione è riferibile al 1650 circa.

L'ultimo decennio di vita del G. fu caratterizzato dall'intenso legame con gli Orsini di Gravina. Tale legame probabilmente si era formato già sotto Pietro Orsini, principe di Solofra e duca di Gravina, ma andò consolidandosi, fin quasi a divenire esclusivo, a partire dal 1641, quando, alla morte di questo, venne nominato erede della famiglia Ferrante, padre del futuro papa Benedetto XIII. Nello stesso anno il G. fece richiesta per ottenere i voti minori per l'esercizio sacerdotale (Braca, 1996, p. 206).

Tra i primi dipinti che l'artista dovette realizzare per i suoi mecenati sono da ricondurre Isacco che benedice Giacobbe e Esaù che vende la primogenitura a Giacobbe (Pommersfelden, Baviera, Graf von Schönborn'sche Kunstsammlungen), due tele che convenzionalmente vengono datate al 1642, in virtù dei forti nessi linguistici con le opere di Campobasso, e che possono essere riconosciute in quelle che fino al 1707 figuravano negli inventari del palazzo Orsini a Gravina (Lattuada, pp. 192-197). Nei medesimi inventari sono state rintracciate anche altre due opere più o meno coeve alle precedenti, Giuseppe interpreta i sogni del faraone e la Disputa di s. Caterina d'Alessandria con i filosofi. In un momento non precisabile, entrambi i dipinti entrarono a fa parte delle collezioni del palazzo Savelli-Orsini di Roma, come confermano gli inventari del 1794 e del 1814, nei quali vengono descritti l'uno come pendant dell'altro (ibid., pp. 198-201). Entro la prima metà degli anni Quaranta sono poi da annoverare altre tre tele raffiguranti S. Cecilia al cembalo (coll. privata; ripr. ibid., p. 203) S. Lucia e S. Agnese (Cosenza, collezione Cassa di risparmio), queste ultime concepite in pendant, di elevata qualità formale; i dipinti fino al 1707 facevano parte della quadreria della dimora pugliese degli Orsini. Un'analoga datazione viene proposta anche per il Sacrificio di Isacco (coll. privata; ripr. ibid., p. 217), del quale esiste una seconda versione, probabilmente più tarda (1650 circa), nel Museo provinciale di Salerno; entrambe possono essere identificate con il dipinto descritto nell'inventario, datato 1744, del palazzo Orsini di Napoli e risulta difficile stabilire quale delle due versioni sia quella appartenuta a tale famiglia.

Alla seconda metà del quinto decennio è riconducibile il piccolo dipinto raffigurante il Sogno di Giacobbe, confluito nel 1753 nelle collezioni dell'Accademia di S. Luca di Roma, forse identificabile con quello, di soggetto analogo, descritto nel citato inventario del 1744. Più problematica è la vicenda cronologica della Madonna del Rosario (Solofra, S. Domenico) in cui si leggono le date 1644 (sul pavimento) e 1649 (sul basamento ove poggia la Madonna). L'ipotesi più plausibile è che la prima data corrisponda all'anno di esecuzione, lo stesso in cui verosimilmente ebbero inizio i lavori di costruzione del convento domenicano, promossi da Dorotea Orsini, madre di Ferrante, e da Fabrizio Savelli, vescovo di Salerno, entrambi rappresentati all'interno della composizione; riguardo alla seconda data è probabile che sia stata inserita dal G. in seguito a un restauro da lui stesso eseguito qualche anno dopo sulla tela (Lattuada, p. 239).

Tra le ultime opere eseguite dal G. si ricorda la S. Cecilia al cembalo con sei angeli del Museo nazionale di Capodimonte a Napoli, in cui la tradizione suole riconoscere un ritratto allegorico della duchessa Giovanna Frangipane, consorte di Ferrante (Pasculli Ferrara, 1994, p. 570). Presente in un primo tempo nelle collezioni del palazzo Orsini di Gravina, l'opera figura dal 1707 nelle collezioni delle dimore partenopee, dove rimase almeno fino al 1750. Ultima fatica del G. è considerata la grande pala con la Madonna del Suffragio nella chiesa del Purgatorio di Gravina caratterizzata da un dinamismo nuovo, distante ormai dalle soluzioni stanzionesche.

Il G. morì il 23 nov. 1651 a Gravina, in Puglia (Braca, 1996, p. 215), città nella quale si era trasferito nel 1649.

Fonti e Bibl.: V. Garzilli, F. G. solofrano (pittore del sec. XVII), in Emporium, XIV (1901), 83, pp. 379-399; F. Bologna, Opere d'arte nel Salernitano dal XII al XVIII secolo (catal.), Napoli 1955, p. 59; G. Rubsamen, The Orsini inventories, Malibu, CA, 1980, pp. 49, 56; C. Tavarone, Universitas e la collegiata: committenza e arti decorative, in I dipinti dei Guarino e le arti decorative nella collegiata di Solofra, a cura di V. Pacelli, Napoli 1987, pp. 75-104; V. De Martini, Il trionfo degli angeli di Giovan Tommaso Guarino nella collegiata solofrana, ibid., pp. 105-142; V. Pacelli, F. G.: i dipinti della collegiata, ibid., pp. 143-196; A. Braca - V. De Martini - C. Tavarone, F. G. & c.: opere restaurate nella arcidiocesi di Salerno ed oltre (catal., Padula), I, Roma 1987; II, ibid. 1988; N. Spinosa, La pittura del Seicento nell'Italia meridionale, in La pittura in Italia. Il Seicento, Milano 1989, I, pp. 461-517 passim; Id., ibid., II, p. 772; M. Pasculli Ferrara, La ducal chiesa del Purgatorio a Gravina e la committenza degli Orsini, in Angelo e Francesco Solimena, due culture a confronto. Atti…, Nocera 1990, a cura di V. De Martini - A. Braca, Napoli 1994, pp. 55-61; C. Tavarone, La devozione domenicana di Dorotea Orsini e la pala del Rosario di F. G., ibid., pp. 69-74; M. Pasculli Ferrara, La committenza Orsini nella "ducal" chiesa del Purgatorio e del Monte di Suffragio delle anime dei morti a Gravina di Puglia, in Confraternite, Chiesa e società…, a cura di L. Bertoldi Lenoci, Fasano 1994, pp. 529-602; A. Braca, Documenti inediti per F. G., in Studi di storia dell'arte, 1996, n. 7, pp. 199-249; R. Lattuada, F. G. da Solofra nella pittura napoletana del Seicento (1611-1651), Napoli 2000 (con bibl.); U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, pp. 173 s.

CATEGORIE