FRANCESCO II Gonzaga, marchese di Mantova

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FRANCESCO II Gonzaga, marchese di Mantova

Gino Benzoni

Primogenito del terzo marchese di Mantova Federico I Gonzaga e di Margherita di Wittelsbach, nasce a Mantova il 10 ag. 1466, venendo di lì a tre anni armato cavaliere dall'imperatore Federico III. Studia, senza dimostrare particolare attitudine, prima sotto la guida di Giovanni Maria Filelfo, figlio del più noto Francesco, e poi di Colombino Veronese. Orfano di madre il 14 ott. 1479, allorché, il 14 luglio 1484, muore il padre, F., il 24, gli subentra, come quarto marchese di Mantova, nel governo avendo, per qualche tempo, come tutore il vescovo della città, lo zio paterno Ludovico Gonzaga. Un pericolo, in questa prima fase d'insediamento, le non sopite brame d'altri due fratelli del padre, Rodolfo e Gianfrancesco, che avevano tentato d'avvelenare Federico I e la sua famiglia, a ricacciare le quali Francesco Secco (zio acquisito, avendo sposato Caterina, figlia naturale del nonno paterno di F., Ludovico III) fa presidiare dal fratello Stefano il castello di Mantova. Assistito dunque da zii e da zii minacciato F. in questo suo esordio, che si caratterizza col rinnovo, del 25 febbr. 1485, della condotta stipulata il 12 apr. 1483 dal padre cogli Sforza. Col che Milano s'assicura, quanto meno, la neutralità del Marchesato e F., pel momento, s'avvantaggia dell'appoggio virtuale di quella. Primi provvedimenti sul piano interno di F.: l'incoraggiamento al miglioramento dell'agricoltura e la promozione della messa a cultura di terre abbandonate e incolte; l'esecuzione d'un accurato censimento da cui risulta che, nel 1484, la popolazione del Marchesato ammonta a 128.000 abitanti, dei quali 32.000 residenti nella capitale, laddove la rendita complessiva è valutata sui 112.000 scudi d'oro. Incitato da Bernardino da Feltre F. istituisce altresì, il 1° dic. 1484, il Monte di pietà poi rafforzato dal breve approvante e confermante, del 29 genn. 1486, d'Innocenzo VIII concedente prestiti al tasso annuo del 10%. Da F. ridotto inoltre a sessanta persone dell'ordine equestre il numero degli assistenti alla corte, tutti dotati peraltro d'armi, alimenti, cavalli e domestici; fissato, sempre da F., a cinquecento il numero dei servitori della famiglia marchionale e incaricate due fidate personalità a vigilare sul funzionamento della giustizia con facoltà d'ispezione sul comportamento del personale a questa addetto.

Ricevuta dal vescovo di Trento Johannes Hinderbach, il 14 giugno 1485, l'investitura di Castel d'Ario cui segue quella, ben più importante, imperiale del 24 luglio, F. si mette in viaggio - con soli otto compagni e in incognito - e, un po' turista curioso un po' politico apprendista, si porta a Venezia, Milano, Firenze, Roma, Napoli, tutti centri di cui è opportuno sondare gli atteggiamenti. Muoversi a F. non dispiace. Sicché è ben lieto d'accogliere l'invito dell'imperatore di presenziare - e vi si reca, questa volta, non certo in incognito, con duecento cavalieri - alla Dieta di Francoforte, nella quale, il 16 febbr. 1486, Massimiliano viene eletto re dei Romani. Una piacevole parentesi questa francofortese nel suo periglioso destreggiarsi tra la Serenissima e Ludovico Sforza, detto il Moro, il quale, nel momento conclusivo della pace di Bagnolo del 7 ag. 1484, cui F. è costretto ad aderire il 15 ottobre, non s'è certo preoccupato di sostenere le aspirazioni di F. al mantenimento dei territori conquistati dal padre. Donde la restituzione di Asola e delle altre località occupate, incluse Remeldello e Casaldolo di cui vanamente F. aveva scongiurato il mantenimento. Ferito nell'intimo, F. non può darlo a vedere. L'accaduto non ostacola il rinnovo del 12 luglio 1486 della condotta con l'aggiunta d'un accordo dalla validità decennale tra lui e il Moro cui aderisce, il 15, pure lo zio Rodolfo Gonzaga. E la ratifica, del 27, include il capitolo segreto, decisamente antiveneziano, a dir del quale a F. - in caso di conflitto colla Serenissima - spettano Verona, Vicenza, Brescia, Bergamo, Asola, Lonato, Peschiera purché riesca a conquistarle. Vagheggiamenti che F. è il primo a non prendere sul serio se, nel febbraio del 1490, è già in trattativa con Venezia per militare colle insegne di questa. Una svolta di politica estera pel Marchesato contrastata dallo zio Francesco Secco che, accusato addirittura di tradimento - e ciò pretestuosamente volendo F. approfittare del dissidio per liberarsi d'una tutela fattasi ormai troppo pesante - finirà col passare al servizio di Lorenzo de' Medici. Certo che, essendo stato Secco a premere pel rinnovo delle condotte con Milano, provocando il suo allontanamento, F. diventa pienamente arbitro della politica interna ed estera del suo Marchesato e dà prova d'una capacità di calcolo politico non esitante anche se si tratta d'imboccare la via del più spregiudicato cinismo manovriero.

A rendere più compiuta la sua figura di principe non più condizionato da parenti concorrono le prestigiose nozze - fastosamente celebrate a Mantova il 15 febbr. 1490 - con Isabella d'Este. Matrimonio questo combinato, ancora nel 1480, tra suo padre e Ercole I d'Este, e come tale non certo configurabile a mo' d'unione di spiriti affini.

I due sposi, anzi, non possono essere più diversi. F. è grossolano di lineamenti e - indicativo in tal senso il ritratto mantegnesco - sensuale di temperamento, ingordo di piaceri (sistematiche le sue molte infedeltà coniugali), amante dei cavalli e delle giostre. Di certo non è colto, al più sensibile alle lusinghe dei letterati e a loro interessato per quel tanto che può ricavarne prestigio d'immagine; per questo, non per altro, stimola Nicolò degli Agostini a proseguire l'Innamorato boiardesco. Poche e sbrigative le sue letture; e se leggiucchia vite di santi non è da dedurne una qualche propensione devota. Tant'è che se il giurista Floriano Delfo abbonda, quando gli scrive, in grevi sconcezze, è perché sa che queste piacciono tanto a F., beninteso privatamente: della "dissolutione" dei "preti" con "femine in casa" e "numero alto de figlioli" F., in sede pubblica, è ben preoccupato. Uomo d'armi F., oltre che per convenienza e necessità, per passione. Tutta grazia, spirito, brio, eleganza, conversazione scintillante, raffinatezza, sensibilità artistica, amore per il bello, passione intendente per la cultura, vaste letture Isabella: quando, nel maggio 1516, l'Ariosto porterà di persona a Mantova Il furioso, sarà lei a leggerlo più che il marito. Tutt'altro che avvenente - di mediocre statura e già un po' pingue da giovane, poi s'ingrosserà e s'ingrasserà - epperò con un suo fascino, con una sua capacità di seduzione. Antitetici, a tutta prima, i due, epperò i sette figli che allietano il matrimonio - in un arco di circa venti anni nascono Ippolita, nel 1494 Eleonora, Federico nel 1500, nel 1505 Ercole, nel 1507 Ferrante, nel 1509 Livia, Paola - suppongono un minimo d'intesa, non insidiata dalle relazioni extraconiugali di F. dalle quali nascono almeno tre figlie naturali (Margherita, Teodora, Antonia). Ma, al di là di questo, il matrimonio, anziché produrre lo scontro di due opposti caratteri, risulta perfino sinergetico politicamente: le differenze si saldano e si integrano in una funzionale complementarità di fondo garantita dall'ambizione, in entrambi fortissima, a consolidare e a ingrandire il prestigio d'un Marchesato di per sé a rischio e non autonomo. Sinanco quando i due sembreranno divisissimi, l'impressione è quella d'un sagace gioco delle parti favorito dalla lontananza: ognuno dei due tenta per conto proprio, sicché ogni direzione possa essere sondata senza che entrambi debbano risponderne. E, nel frattempo, quel che si salva è il Marchesato.

Fragile e revocabile politicamente la Mantova gonzaghesca. Ma convergenti l'energia di F. e l'intelligenza d'Isabella nel presidiarla e rafforzarla. E, inoltre, grazie alla presenza culturalmente e artisticamente attivante di questa e della sua personale corte, la città assurge, in termini di reputazione, a un ruolo di capitale delle lettere e delle arti di gran lunga eccedente a quanto è conseguibile sul piano dei meri rapporti di forza. Un prestigio, quello intellettuale, surrogatorio rispetto alla congenita debolezza politico-militare del piccolo Stato, ma con effetti di ricasco anche su questo piano nella misura in cui lo splendore della corte è anche dispiegamento di trame diplomatiche la cui ambizione assume un respiro ben più vasto di quel che è l'angusto perimetro del Marchesato.

Isabella dapprima punta su Ferrara, da cui proviene, e sulla Milano di Francesco Sforza, il figlio di Ludovico il Moro e di sua sorella Beatrice. E alle nozze di quello (28 genn. 1491) non manca nemmeno F. che, passato com'è alla Serenissima, non può certo figurarvi come invitato d'onore; ma smanioso di partecipare al torneo, vi si reca egualmente, in incognito e "stravestito". Certo la spregiudicatezza non gli manca. D'altronde è proprio perché spregiudicato che F., nell'ultimo decennio del '400, riesce a muoversi tra le diplomazie degli Stati più grandi, insinuando tra i loro robusti appetiti anche il proprio anche perché i suoi servigi sono richiesti. E nella situazione in fermento egli è sempre pronto ad assentarsi da Mantova per allacciare rapporti, per verificare convenienze, per riscontrare possibilità. Nel 1491, dopo la puntata milanese, nel giugno è a Bologna, ove suo fratello Giovanni, il capostipite della linea Gonzaga Vescovado, si sposa con Laura Bentivoglio; nel luglio è a Urbino, nel dicembre di nuovo a Milano. Nel 1492 avvia rapporti colla Porta cui spedisce Alessio Beccaguto perché ottenga il permesso d'importare cavalli arabi. Ciò per rifornire gli allevamenti gonzagheschi così indispensabili alla costituzione del piccolo esercito capeggiato da F., le cui lucrose condotte costituiscono una delle voci principali delle sue entrate. Marchese F., ma anche affittabile condottiero, capitano di ventura dal disinvolto pendolarismo ora al soldo di Milano, ora di Venezia. E meglio questa dell'insolvente Moro, perché la Serenissima, oltre ad essere puntuale in fatto di pagamenti, è interlocutrice costante d'un interscambio tra derrate agricole mantovane e sale veneto. Minuscolo il Marchesato rispetto ai confinanti, ma valorizzato dalla posizione geografica ed esaltato dalla tradizione militare gonzaghesca da F. ribadita e rilanciata.

Reciproca la diffidenza tra la Repubblica e F. - sono venete le località cui questi aspira; e allettata quella dall'eventualità d'ingrandirsi acquisendo, coll'occasione, terre mantovane - epperò non al punto da provocare una separazione. Allettante per F. l'offerta del re di Francia Carlo VIII d'entrare al suo servizio col titolo di capitano generale nella spedizione in Italia, col premio della carica di gran ciambellano del Regno, colla promessa del recupero delle terre passate a Venezia. Ma, per quanto la sorella Clara e suo marito Gilberto di Montpensier insistano perché accetti, F. non se la sente. Stipendiato da Venezia, non giunge al voltafaccia proditorio. Ogni sua mossa - così nell'informare la Repubblica delle offerte francesi - dev'essere da questa autorizzata. In realtà, il suo comportamento non è solo improntato da sentimenti di lealtà come lo sta vantando. Preferisce - procrastinando e tergiversando - attendere, prima di decidere, che si precisi il corso degli eventi. Prudenza, insomma, piuttosto che adamantina lealtà sbandierata colla Serenissima, alla quale i suoi informatori - che per suo conto sorvegliano dappresso ogni giornata di F. - van dicendo che il marchese sta anche sondando, contattando, calcolando, manovrando. In effetti se - al contrario del cognato Ludovico il Moro e del suocero Ercole I d'Este - non si butta dalla parte di Carlo VIII, è perché teme l'ira vendicativa della Repubblica. Avveduto comunque il suo traccheggiare. La troppo facile e rapida conquista francese di Napoli spaventa gli stessi fautori di Carlo VIII. Urge ridimensionarne l'eccesso di fortuna. Si costituisce, il 31 marzo 1495, a Venezia una lega antifrancese formata, oltre che dalla Repubblica, da Ferdinando V d'Aragona, l'imperatore Massimiliano, Milano, la S. Sede. Contro il parere della Serenissima - che, a trattenerlo da un improvviso voltafaccia, gli aveva promesso in febbraio un compenso di 44.000 ducati d'oro -, a giudizio della quale F. non è all'altezza d'un incarico di tanto rilievo (troppo giovane, troppo inesperto, troppo inaffidabile), viene designato comandante dell'esercito alleato. Formato questo per lo più da truppe al soldo di Venezia, consta di 2.500 lance, 8.000 fanti, 2.000 stradiotti. Compito di F. fronteggiare la risalita del re di Francia, sbarrargli il passo.

Accampatosi il 1° luglio alla Giarola, le prime ricognizioni, eseguite da Rodolfo Gonzaga - lo zio di F. capostipite dei marchesi di Luzzara e Castiglione - e dal conte di Caiazzo Giovanni Francesco Sanseverino, accertano l'avanzare verso Fornovo d'un'avanguardia guidata da Giangiacomo Trivulzio. Vincenti, in due piccoli scontri, gli stradiotti mandati in avanscoperta da F. e rientranti con confitte sulle picche le teste dei nemici uccisi. Nel frattempo Carlo VIII - impossibilitato a mutare strada - offre di trattare. Ma, decisi alla battaglia, gli alleati replicano che s'ucciderà ogni nuovo messo francese. Gli eserciti si scontrano il 6 luglio con gravissime perdite d'ambo le parti. Cadono in tanti tra i Mantovani e leonino è il coraggio col quale F. si caccia nel pieno della mischia: per tre volte stramazza ucciso il cavallo da lui montato, ma continua impavido e implacabile a battersi. Non gli riesce - come vorrebbe - di catturare Carlo VIII, validamente difeso da Matteo di Botheon detto il "gran Bastardo di Borbone", il quale, in compenso, è fatto prigioniero da Alessio Beccaguto. I Francesi, pur con pesantissime perdite, non sono stati fermati; gli alleati hanno comunque al loro attivo la strage fattane e l'ingentissimo bottino. Vittoria dubbia quella di Fornovo epperò per tale celebrata a dismisura per tacitare i dubbi. E campione vittorioso nelle celebrazioni F., premiato dalla Serenissima colla nomina, del 27 luglio, a generalissimo delle proprie truppe, coll'aumento cospicuo dello stipendio annuo e un donativo alla moglie di 1.000 scudi.

Convinto d'aver vinto F. e ancor più convinto dell'utilità di propagandarsi quale vincitore. Rapida la costruzione a Mantova della chiesetta della Vittoria per collocarvi la mantegnesca pala, appunto, della Vittoria. Sollecito il conio di due medaglie commemorative una con la dicitura "ob restitutam Italiae libertatem", l'altra proclamante F. "universae Italiae liberator". Scontato che il servizievole Tebaldeo a F. inneggi. Epperò anche tra i letterati immuni da dipendenze mantovane è diffusa convinzione F. sia il protagonista vittorioso - e non solo eroico - della, del pari vittoriosa, battaglia di Fornovo. Così è per Pontano nel De hortis Hesperidum oltre che per Paolo Cortese, nel Decardinalatu.

Partecipe all'assedio di Novara, restituita il 10 ottobre al dominio sforzesco, e fatta visita, col permesso della Repubblica, a Carlo VIII che gli dona due magnifici destrieri, F., il 1° novembre, rientra, festeggiatissimo, a Mantova, proseguendo poi per Venezia ove è accolto con ogni onore. Destinato dalla Serenissima al comando del corpo di spedizione inviato in soccorso di Ferdinando V d'Aragona, F. ritorna a Venezia per averne precise istruzioni relativamente ai porti pugliesi, non senza, a sua volta, chiedere l'esplicito sostegno della Repubblica nella pratica - avviata ancora nel 1494 - del cardinalato, che gli sta tanto a cuore, del fratello Sigismondo. Di nuovo a Mantova, ne riparte per essere, il 24 febbr. 1496, a Ferrara, di qui spostandosi a Ravenna, donde raggiunge, per mare Fano il 9 marzo. Sbarcatovi, visita a Urbino la sorella Elisabetta e il cognato Guidobaldo da Montefeltro. Poi fa il suo ingresso, la sera del 26, a Roma. Ricevuto da Alessandro VI, dal quale riceve in dono la rosa d'oro, è evidente che colla sua venuta F. vuol premere per la porpora al fratello. E, a ogni buon conto, s'intrattiene con Cesare Borgia e ne omaggia la sorella Lucrezia. Quindi si reca a Foggia. Qui s'incontra con Ferdinando II re di Napoli e si tiene il consiglio di guerra che opta per una linea pel momento d'attesa. Meglio evitare l'attacco a fondo sinché s'allarghino le crepe già presenti nell'esercito avversario turbato dalle discordie tra soldati di diversa nazionalità e minacciato dalla defezione dei feudatari italiani, specie del principe di Salerno Antonello di Sanseverino e di Virginio Orsini che stanno già pensando d'abbandonarlo per presidiare i loro feudi. Pel momento F. si limita a qualche movimento, a qualche operazione di disturbo. Agevole, comunque la conquista di Vallata trattata con estrema durezza. La voce si sparge con gran spavento nelle località vicine che s'arrendono leste senza un cenno di resistenza. Congiunte le forze con quelle del re di Napoli, F. muove quindi il 20 maggio su Lucera che il 21, allontanato il presidio francese, gli apre le porte. Seguono operazioni nella zona di Fragneto, Morcone, Montecalvo Irpino, Gesualdo, Andretta, nelle quali i successi non mancano. Solo che alla lunga F. si stanca del saliscendi tra erte pendici e dell'attraversamento di piane battute dall'implacabile sole estivo. Rimpiange gli agi di corte, i lauti banchetti, le cene raffinate. E un po' lo consolano i formaggi e i salumi che Isabella si premura di fargli pervenire. Logorato, comunque, il fisico dall'impegno quotidiano nella calura. Comincia a soffrire di febbri tifoidee aggravantisi nell'agosto e accompagnate da violente coliche, da continui disturbi allo stomaco. Stremato decide di tornare a Mantova. Parte da Isernia e, aggredito il 16 da un attacco di malaria, costretto alla lettiga, riesce ad arrivare ad Ancona. In questa venutagli incontro Isabella, con lei - per Ravenna e Ferrara - rimpatria ormai ristabilito fisicamente. Tant'è che di lì a poco si reca a Venezia a render conto del proprio operato, che viene approvato, ma freddamente. Non che gli venga rimproverato il repentino abbandono del teatro delle operazioni, ché giustificato dal crollo della sua resistenza fisica: è che i sospetti accumulatisi lungo il tempo a suo riguardo, alimentati da una serie d'episodi iniziata ancora durante l'assedio di Novara, ormai si stanno tramutando in diffidenza carica d'ostilità. V'è quasi la certezza F. abbia avviato una qualche intesa col re di Francia e ci si attende da lui che d'un tratto balzi in campo avverso.

F. percepisce l'atmosfera a lui ostile, ma non per questo cerca di riaccreditarsi. Incauto forse perché troppo sicuro di sé, forse perché convinto che la Repubblica non può fare a meno d'un generale della sua levatura, fa accompagnare - di contro a un'espressa proibizione della Serenissima - da un suo gentiluomo in Francia la sorella Clara rimasta vedova del conte di Borbone Gilberto di Montpensier che, comandante delle forze francesi a Napoli, è morto a Pozzuoli in novembre. E provocatorio ospita a Mantova il ravennate Gorlino Tombesi che, "contestabile" al soldo della Serenissima, in urto coi superiori s'era, con grave gesto d'indisciplina, allontanato dall'esercito. A questo punto a Venezia l'irritazione nei confronti di F. è al colmo: il suo inviato Iacopo d'Atri non è ricevuto dal doge sicché, accompagnato dagli altri agenti mantovani vanamente cerca di giustificare F. in Senato. Logica conseguenza la destituzione, decisa dal Senato il 23 giugno 1497, di F. dalla carica di capitano generale della Serenissima. E ciò - così Sanuto - perché "havea tramato di aconzarsi con il re di Franza". Un'autentica mazzata per l'orgoglio di F. e, ancor più, un taglio netto di un'entrata cospicua - 43.000 ducati all'anno secondo Sanuto, 20.000 ducati per altri - per le finanze del Marchesato, particolarmente provate dalle spese eccessive sue e della moglie, la quale è anche solita ricorrere ad esigenti usurai. Deposta ogni superbia F. si precipita a Venezia per supplicare la revoca del provvedimento. Ma il governo veneto è irremovibile e non manca in questo chi vorrebbe addirittura arrestarlo. Avvilito e umiliato, a F. non resta che rientrare a Mantova ove - in un sussulto di dolente dignità e per se stesso e a uso esterno - adotta per impresa delle verghe d'oro nel crogiuolo illustrate dal motto "probasti me Domine et cognovisti", così rivendicando la propria buona fede, così nobilitando la propria caduta in disgrazia presso la Repubblica, quasi l'imperscrutabile volontà divina abbia voluto mettere alla prova la sua forza d'animo. Sin fiera quest'impresa di F., il quale in effetti non ha mai perpetrato alcunché di realmente proditorio ai danni di Venezia; ma non per lealtà - come vuol far credere e come finisce egli stesso col credere - quanto perché non gli è mai stata offerta un'occasione, e vantaggiosa e, insieme, non rischiosa, di tradimento. Ad ogni modo il ritmo delle spese è così incalzante che F. non può concedersi tempo per meditare sulla mala sorte e per costruire in questa il suo statuario adergersi. Come uomo d'armi non può permettersi di rimanere sfitto. Perso lo stipendio veneziano, urge lo sostituisca con un altro. Non senza, nel contempo, occhieggiare ammiccante alla Francia, negozia con Ludovico il Moro sinché, il 24 giugno 1498, sottoscrive la condotta in virtù della quale s'impegna - col titolo di capitano imperiale e pel compenso annuo di 40.000 ducati - a combattere per lui. Ma poiché questi rilutta a formalizzare e ratificare l'elenco delle condizioni e sottocondizioni pretese e non anticipa danaro, F. già nell'agosto tenta di riannodare i rapporti con Venezia, mobilitando le sue conoscenze in quella e inviando in avanscoperta il fratello Giovanni. Dopo di che, il 20 ottobre, vi si reca di persona per autocandidarsi esplicitamente. Amorevolmente affettuoso con lui il doge Agostino Barbarigo, pel quale F. è ancora "figliuolo" della Serenissima. Ma non condiscendente il governo colle pretese di F. in fatto di titoli, poteri, stipendio. Sicché questi, deluso e ferito, si volge a Luigi XII alleandosi con lui ai primi di novembre. Col che, agli occhi di Venezia, s'appalesa traditore a pieno titolo. E sarcastico il patrizio Nicolò Foscarini osserva che F. non dispone del "conseio de niuno se non de rufiani".

Proclamata il 1° febbr. 1499 l'alleanza franco-veneta, F., che nel frattempo pur percependo lo stipendio dal Moro s'è accostato alla Francia, cerca di scorporare la propria posizione dal primo con un traccheggio spudoratamente ricattatorio. Il Moro, infatti, per non trovarselo contro, non può imporgli il rispetto dell'impegno sottoscritto: quello, cioè, per cui F. dovrebbe combattere per lui. Ed è altresì troppo legato all'imperatore per accettare l'offerta di F. che - con sconcertante disinvoltura - si propone quale mediatore tra lui, il Moro, e il re di Francia. Fatto sta che, alla venuta di questo in Italia, F. - nel frattempo talmente riaccostatosi a Venezia da ricandidarsi per la riassunzione già in agosto - non presta il minimo aiuto al Moro per quanto questi abbondi in promesse territoriali. Inutilmente il Moro lo supplica, gli offre Casalmaggiore, Piadena, Calvatone, Spineda. Immobile F. e ben deciso a non lasciarsi nemmeno lambire dalla rovina che l'attende, pronto, invece, a saltare sul carro del vincitore. Questi è ormai Luigi XII. Lasciata Mantova il 24 settembre, il 2 ottobre F. è tra quanti lo ricevono a Pavia e scodinzolano al suo seguito nella visita alla città. Segue, il 6, l'ingresso solenne del sovrano a Milano con un folto corteo di cui fa parte pure F., il quale, il medesimo giorno, scrive alla moglie ragguagliandola sull'"ordine dil entrare". Precisato quanti precedono il re "solo sotto il baldacchino", ecco che, dopo gli ambasciatori di Venezia e Firenze, dopo il duca di Ferrara e Cesare Borgia, sulla destra c'è F. stesso, ossia "il signor marchese de Mantoa" e "dreto" la guardia regia. Di tutto rispetto, insomma, nella segnaletica gerarchica espressa dalla predisposizione dell'ingresso, che F. s'illude spendibile. Ma amara, di lì a poco, la delusione. Ricevuto, il 10, da Luigi XII in udienza particolare F. in questa viene insignito dell'Ordine di S. Michele. Un po' di complimenti e una decorazione a indorare l'assegnazione, dell'11, d'una condotta di cinquanta uomini con una pensione di 12.000 franchi. Una ben misera cosa rispetto a quanto s'attendeva, persino irrisoria. E non a caso suscita frizzi e lazzi a Venezia, dove, invece, oltre a non assumerlo, si pretende il pagamento della fornitura di sale, per far fronte al quale F. è costretto a impegnare i gioielli d'Isabella. Non gli resta che far buon viso a cattiva sorte e cercare di risalire la china guadagnandosi la fiducia della Francia. Fermatosi a Milano sino al 28, cerca d'ingraziarsi Luigi XII con doni d'ogni sorta, da un quadro di Mantegna ai carpioni gardesani. E il re accetta e ringrazia di tanta cortesia. Però fa capire a F. che da lui ci si aspetta qualcosa di più impegnativo. Solo che F. non può fare gran che. E, in mancanza di meglio, si prodiga in informazioni sulla situazione politica della penisola e in previsioni sulle probabili mosse del Moro.

Ma Massimiliano - presso il quale quello è riparato senza però esserne concretamente aiutato - non manca di ricordare a F. che, in quanto feudatario imperiale, non può schierarsi impunemente colla Francia. Patetico, in effetti, il barcamenarsi di F. che da un lato mostra d'obbedire al richiamo imperiale, dall'altro informa i Francesi - quasi questi abbiano bisogno di lui per saperlo - che Massimiliano è a Trento puntando di lì a Rovereto. Quando poi la cacciata, del 1° genn. 1500, da Milano di Trivulzio permette al Moro il rientro seguito dal recupero del Ducato, F. si trova in una situazione imbarazzante. Non prestando ascolto a Isabella, che preme perché si schieri apertamente col cognato, F. accortamente evita di farlo sicché, nello sgonfiarsi dell'effimero reinsediamento del Moro catturato il 10 aprile, non è travolto dalla sua rovina. Ciò non toglie che Luigi XII sia con lui irritato per il suo comportamento tutt'altro che lineare durante la momentanea ripresa del cognato. Costretto dalla Francia ad allontanare i profughi milanesi presso di lui riparati, F. vive nell'angoscia che le pressioni d'Alessandro VI su Luigi XII per accontentare le mire del figlio Cesare Borgia non finiscano col penalizzarlo. Si sa che al Borgia annettersi Mantova non spiacerebbe. Nella speranza i suoi appetiti si volgano altrove, F., quando nasce, il 17 maggio, Federico, l'erede, l'invita a fargli da padrino. Ancor più temibile del Borgia Venezia, disposta a concedere ai Francesi Cremona e la Ghiara d'Adda se ricompensata col Mantovano. E pesante su F. la diffidenza - peraltro giustificata - del re di Francia che, in un primo momento, pretende in ostaggio l'erede appena nato. Anche se nessuno si fida di lui, che, a sua volta, non si fida di nessuno, F. deve fare il possibile per evitare il rischio del completo isolamento. Donde l'affannoso gioco su più versanti e i segnali lanciati in più direzioni. Nominato, il 20 sett. 1501, capitano generale dell'esercito imperiale in Italia, F. teme lo si catturi a Ferrara in occasione delle nozze del cognato Alfonso con Lucrezia Borgia; perciò a queste - prudentemente - è presente solo Isabella. Solo che, per quanto schivi i pericoli, sono questi a venirlo a cercare. Nel giugno del 1502 il cognato Guidobaldo da Montelfeltro con la moglie Elisabetta, sua sorella, e Francesco Maria loro figlio adottivo non possono che rifugiarsi a Mantova. Epperò, il 21, viene combinato il matrimonio tra Federico, primogenito maschio di F. e Luisa, figlia di Cesare Borgia e di Carlotta d'Albret. Un'intesa caldeggiata da Isabella che così aggancia F. - che recalcitra all'idea di ritrovarsi consuocero d'"un bastardo e fio di prete" - alle scelte estensi. F. non è poi disposto a dimenticare la brigantesca occupazione del Ducato urbinate perpetrata dal Borgia a danno del cognato, della sorella e del nipotino. Nel luglio, pertanto, si reca - con gran apprensione d'Isabella timorosa del veleno del Borgia - a Milano a perorare per la loro sorte presso Luigi XII. Ma senza frutto, ché il sovrano non intende contestare al Borgia la rapina d'Urbino limitandosi a consigliare a F. di non dar corso al concordato matrimonio del figlio Federico. Veda, insomma, d'evitare in futuro le nozze colla figlia del Valentino. Un buon consiglio, indubbiamente. Ma un po' poco per F. che sperava in un appoggio nel suo farsi paladino del legittimo duca d'Urbino. Sicché ci rinuncia. E, portatosi nell'autunno in Francia per assumere un comando militare - il che non lo trattiene dall'avviare trattative per la condotta dell'esercito fiorentino - lascia il Marchesato nelle mani della moglie nonché sotto la tutela dello stesso Valentino, il quale a Isabella, avida di cose belle, concede il Cupido di Michelangelo e una statua di Venere già vanto del palazzo urbinate.

Nel luglio del 1503 F. dovrebbe portarsi nel Napoletano per partecipare ad operazioni militari contro gli Spagnoli. Ma s'inferma e rientra a Mantova. Provvidenziale, il 18 agosto, la morte d'Alessandro VI col conseguente crollo del Valentino. Restituito al Montefeltro il Ducato e dissolto l'apparentamento imbarazzante costituito dalle nozze del primogenito di F. colla figlia del Borgia. Un sospiro di sollievo per F. la caduta in disgrazia di questo. Raggiunto il Napoletano F. vi partecipa a qualche scontro e all'arduo attraversamento del Garigliano. Riammalatosi in novembre, rientra a fine anno a Mantova. Una parentesi tenera e trepida nella sua vita di calcolo e di milizia è l'affettuosa amicizia - iniziata nell'ottobre del 1505 a Borgoforte e denunciata, visto il suo palese protrarsi, dalla solitamente tollerante Isabella al fratello Alfonso - con la cognata Lucrezia, sorella del Valentino, duchessa di Ferrara. Forse è l'unica vicenda vissuta da F. senza pratici tornaconti.

Una vicenda politicamente senz'altro sconveniente, a suo modo una storia d'amore. Sincero il trasporto di Lucrezia per l'uomo d'arme. Emozionato, commosso, turbato, vibrante pure F. - come può, per quel che può. Malgrado i sotterfugi, il ricorso a intermediari sino a un certo punto devoti e fidati, lo scontato inquinamento dello spettegolare cortigiano, finalmente una nota gentile, finalmente un che d'autentico, di disinteressato. Sin trasfigurato, agli occhi di Lucrezia, il rozzo vitalistico F., che non è più tale quando scrive alla cognata, poiché - al contrario che nelle lettere alla moglie sua complice nel mantenimento e rafforzamento del Marchesato con tutto ciò che questo comporta - con lei esprime il suo bisogno d'intimità, d'abbandono, di lontananza dai compiti gravosi, che per forza di cose l'induriscono. Duro con se stesso e con gli altri F. nella coazione a combattere, intrigare, calcolare, diffidare, ma non colla cognata. Con questa la tensione s'allenta. Con questa la dolcezza dell'umana debolezza. Una complicazione indubbia e anche un pericolo la relazione, ma anche una zona franca per il gioco dei sentimenti, di risarcimento interiore rispetto a un'esistenza altrimenti costretta a ignorarli. Uno spazio segreto, in ombra, nel quale conoscere il ristoro della pausa. Incapaci di questo, invece, le rapide tresche, che, fitte nella vita di F., di certo non gliela complicano, ma pure non gliela abbelliscono. D'altra parte queste più s'addicono all'indole, alle abitudini, alla concezione stessa della vita di F. che più che tanto non può trasformarsi dentro in una vicenda che le corti tendono a soffocare. Né F. è uomo di lettere da acconciarsi a ritualizzarla in amor platonico. Resta il fatto che, per quanto esile, per quanto rarefatta, quella vicenda un minimo l'ha costretto ad ascoltarsi e ad ascoltare e ad avvertire l'unidimensionalità impoverente d'un vivere a presidio d'uno staterello mettendo in vendita la propria professionalità militare per nutrire la voragine di spese costituita dalla corte il cui splendore di gran lunga eccede la modestissima entità di quello.

Vuote le casse del medesimo e desolato il Mantovano dalla peste. E, mentre Isabella impegna i propri gioielli, F. si guarda attorno per essere affittato come condottiero. Lasciata cadere l'offerta di Firenze, scartata l'eventualità di rimettersi al servizio di Venezia, F. - così consigliato anche dalla sorella Elisabetta non priva d'influenza a Roma se riesce a combinare il matrimonio d'Eleonora figlia di F. col proprio figlio adottivo nonché nipote di papa Giulio II, Francesco Maria Della Rovere - punta sulla bellicosità vendicativa e rivendicativa del pontefice, il quale con breve del 25 ott. 1506, lo nomina luogotenente generale dell'esercito pontificio. In tale veste, all'inizio di novembre, dirige la presa di Bologna. E - mentre a Mantova, il 3 giugno 1507, sono condannati a morte i fratelli Benedetto e Alessandro Gonzaga (forse del ramo di Corrado) accusati di congiurare contro di lui - F. è al seguito di Luigi XII nell'ingresso in una Genova domata e in una Milano recuperata. Di nuovo a Mantova lo preoccupano movimenti di truppe veneziane ai confini, possibili incursioni imperiali, eventuali transiti pel Marchesato di milizie francesi. Se fortificando Goito e Castiglione Mantovano può sperare di frenare, per un po', la pressione veneziana, non ignora che il passaggio delle forze dell'amico del momento può essere ancor più devastante d'un'incursione del nemico del momento. D'altronde la guerra, che sa esiziale se entra nei suoi territori, è la dimensione in cui si situa la sua attività di condottiero remunerato, che conta sulle condotte per restaurare le finanze dello Stato. Ma così non può impegnarsi nella direzione del buon governo. Proteso sì a salvaguardare il Marchesato nel turbinio delle vicende politico-militari, ma senza la pazienza di bene amministrarlo. Indicativo che il suo iniziale interesse per la Zecca con relativi provvedimenti concernenti l'andamento della circolazione monetaria, venga meno rapidamente; tant'è che, nel 1504, ne affida la gestione all'ebreo Spandolino, il quale - lucrando sulla differenza tra valore nominale delle monete e valore effettivo del metallo - partecipa agli utili della coniazione, laddove, in un primo tempo, provvedeva un maestro di zecca stipendiato, ma senza partecipazione agli utili. Proprio perché uomo d'armi F. difetta sul piano dell'operosità continuata, dell'attenzione sistematica. Donde il coinvolgimento dello Stato nelle sue avventure e disavventure, il rimbalzare su questi di quel che c'è di sussultante e d'improvvisato nella sua agitata esistenza. La costituzione della Lega di Cambrai del 10 dic. 1508, cui Giulio II aderisce ufficialmente il 23 marzo 1509, innalza F. - pungolato dall'occasione a rivendicare Asola, Peschiera e Lonato - a un ruolo di rilievo nell'assalto contro la Serenissima, le cui profferte a militare per lei ora può sdegnosamente respingere. Affidata alla consorte la reggenza, è attivo nella prima fase delle operazioni. Ma F. non può più che tanto rallegrarsi dei primi piccoli successi a Casalmaggiore e nel Bresciano ché teme la preponderanza delle forze venete concentrate a Pontevico e Asola; né manca la replica delle scorribande veneziane nel Cremonese da F. controllato. L'angustia, inoltre, l'appena pervenuto diploma d'investitura imperiale a suo riguardo decisamente riduttivo - omessa la menzione d'Ostiglia e di Peschiera - rispetto alle pretese territoriali da lui accampate. S'incontra, il 9 maggio, con Luigi XII a Cassano d'Adda, ma un attacco violento di lue - è un guaio che da tempo lo tortura sfibrandolo periodicamente nel fisico e non senza riflessi sulla lucidità mentale - gli impedisce di partecipare alla battaglia d'Agnadello. Un'assenza vistosa, oggetto di lazzi beffardi. Beneficiario comunque nell'immediato F. del tracollo veneziano, ché Asola, Peschiera e Lonato passano a lui; ma è francese la gestione della guerra ed è la Francia di fatto a disporre delle località acquisite. E F. - che continua a star male e rientra a Mantova - è emarginato dal prosieguo delle operazioni. Tanto più che non dà segni di particolare dinamismo e occorre che Luigi XII e Massimiliano insistano reiteratamente perché finalmente, il 1° agosto, si muova portandosi a Verona colle sue truppe. Dopo aver incontrato il vescovo di Trento Giorgio di Neideck, il 7, col conte Ludovico Pico della Mirandola, parte baldanzoso - e confida le sue speranze al fratello Sigismondo, fatto cardinale da Giulio II nel dicembre 1505 - alla conquista di Legnago. Gli abbisogna un onorevole successo per riqualificare la sua immagine screditata dall'assenza dal campo d'Agnadello. Ma mentre pernotta a Isola della Scala, è sorpreso dormiente da Lucio Malvezzi che, preposto alla difesa di Legnago, tempestivamente previene l'attacco con una fulminea sortita.

Catturato ignominiosamente F., e così marchiato da un discredito che spazza via ogni residuo della gloria di Fornovo, viene trasferito per Padova e lungo il Brenta sino a Venezia. E qui lo si fa attraversare la piazza S. Marco piena di folla contro di lui urlante, che l'ingiuria e lo sbeffeggia, che vorrebbe linciarlo, farlo a pezzi. Una cattura crudelmente spettacolarizzata questa di F. enfatizzata a monito dei nemici della Serenissima e a incitamento alla lotta contro gli aggressori. Rinchiuso nella "torretta" F. vive dapprima col terrore d'essere giustiziato. Ma, una volta compreso che la Repubblica l'utilizzerà come moneta di scambio e come ostaggio, non gli resta che acconciarsi alla carcerazione e cercare, pel momento, di mitigarne la durezza. E ciò può solo supplicarlo, non pretenderlo. Donde lo spettacolo ulteriore, a metà settembre, d'un F. che si prosterna ai savi del Collegio andati in sua "visitatione".

"Cum li zenochi in terra et segni de incredibile affecto, li pregò" - si ricorda, il 18, in Senato - di "ottenere" dalla "Signoria nostra" la grazia dei "duo suo servitori che se attrovano qui". Gratificante pel governo veneto l'inginocchiarsi di F.; inutile a questo punto infierire. E poiché già s'è provveduto a porgli accanto una persona che l'assista, si concede la sostituisca uno dei due "servitori" da lui richiesti.

Vani nel frattempo i tentativi di Isabella - che con mano ferma mantiene il pieno controllo del Marchesato - per liberarlo. Subito scartato da Luigi XII il ventilato scambio con Bartolomeo d'Alviano: troppo svantaggioso restituire ai Veneziani un uomo di tanto valore per veder ricomparire, magari con pretese a un ruolo di prestigio, un personaggio naufragato nel ridicolo come F. - il difensore della piazza da conquistare l'ha catturato a letto! Questi, pel re di Francia, può continuare a marcire in carcere. Così, almeno, non fa danni. Non c'è che da puntare su Giulio II, il quale, preoccupato per la piega assunta dagli avvenimenti, sta meditando il clamoroso voltafaccia dell'alleanza con Venezia per e pur di ridimensionare lo strapotere francese. E s'adopera presso il pontefice a far presente l'infelice sorte di F. la figlia Eleonora, che nel dicembre sposa Francesco Maria Della Rovere. Ma liberare F. è tutt'altro che semplice laddove sia impossibile conciliare le mosse d'Isabella e quelle del papa. La prima pensa anzitutto a salvaguardare il Marchesato dal ricatto d'un'occupazione - francese o imperiale o franco imperiale che sia - e non può e nemmeno vuole sganciarsi dalla politica estense, colla quale, anzi, sempre più si sintonizza. Scompaginando, di contro, i disegni d'Isabella, Giulio II, nel febbraio del 1510, giunge a proporre alla Serenissima di collocare al comando del suo esercito - a sostituzione del defunto conte di Pitigliano Niccolò Orsini - proprio F., sì da coinvolgerlo totalmente nel costituendo schieramento antifrancese. E, a garanzia d'eventuali defezioni di F., sia dato in ostaggio alla Serenissima il suo primogenito Federico. Una clausola questa che ferisce l'amor materno d'Isabella: si tratta di consegnare il figlio prediletto a quella Venezia cui, ancora il 22 dic. 1509, suo fratello Alfonso ha distrutto la flotta operante sul Po. Come madre e come Estense di nascita Isabella non può che opporsi alla soluzione caldeggiata da Giulio II. In cambio della liberazione di F. - ecco quanto suggerisce - che il papa revochi la scomunica scagliata contro Venezia. Una liberazione, insomma, a costo zero per lui, pei suoi, per Mantova al cui pagamento dovrebbe provvedere il pontefice rinfoderando, appunto, l'arma a suo tempo sguainata della scomunica.

Solo che, sempre nel febbraio del 1510, allorché il genero d'Isabella, Francesco Maria Della Rovere, azzarda un cenno in tal senso a Giulio II, questi lo caccia in malo modo. È furente con lui e, ancor più, con "quella ribalda putana", con quella "puttana della marchesana", come sin ossessivamente definisce Isabella. E F. - sempre più intollerante del carcere, disposto a tutto pur d'uscirne - non è da meno.

Anch'egli, nel protrarsi della prigionia, trascende verbalmente: "quella puttana di mia moier", prorompe a sua volta. Ma se è indubitabile l'avversione dell'iracondo pontefice per questa, F. esagera ad arte il contrasto tra sé e la moglie. Anche a F. conviene una soluzione che, liberando lui, salvi nel contempo lo Stato. Ingiuriando inoltre Isabella diventa persino gradito alla Serenissima, che alleggerisce via via la pesantezza della detenzione. E le sue condizioni di detenuto migliorano mano a mano s'esibisce nel dir "mal di soa moier", nel bollarla come "francese". Così può ostentare la più convinta animosità antifrancese non senza guadagnarsi per questo una certa qual simpatia da parte del governo veneto. E F. ne approfitta per propinare suggerimenti strategici contro la Francia, come la guerra di logoramento. Pei Francesi, sentenzia F., "il primo dì è d'oro, poi d'arzento, poi di stercho". Solo all'inizio, allora, sono "valorosi homeni". Più si temporeggia, più il loro esercito si decompone. Consigli questi di F. piuttosto scontati di cui il governo ha un relativo bisogno. Non è certo spacciando come prezioso segreto quel che il governo sa già che F. può meritarsi la scarcerazione. Pedaggio ineludibile per la liberazione quello di "dar el fiol" in ostaggio, sì che, una volta libero, la Repubblica abbia un adeguato strumento di ricatto e di ritorsione per trattenerlo da ulteriori giravolte. Ma è proprio questo che la "marchesana", a ciò "inducta dal duca di Ferrara suo fratello", rifiuta ostinatamente. E F. si sfoga e si consola nell'affettuosa corrispondenza con la cognata Lucrezia. Si sente solo e abbandonato: solo lei può capire le sue pene.

Inchiodato da una situazione di stallo, questa si sblocca quando, nel saldarsi dell'alleanza, antifrancese e antiestense, veneto-pontificia c'è il rischio d'una coalizione Ferrara-Mantova patrocinata dalla Francia. Un timore che dà a Isabella forza contrattuale: può gettare tutto il peso del Marchesato dalla parte della Francia. Il che può risultare squilibrante. Urge trattenerla. Donde il rapido addivenire alla soluzione in virtù della quale Venezia libera F. accontentandosi che il suo primogenito Federico sia dato in pegno al pontefice sicché a tal fine lo custodisca. Sia pure angosciata - corrono brutte voci sulle inclinazioni di Giulio II e Federico è un fanciullo grazioso - Isabella accetta. Liberato, di conseguenza, il 14 luglio F. che - incontrato a Bologna il figlio diretto a Roma - il 27 entra a Mantova. E il fatto che non s'avventi furibondo sulla marchesa, maledetta e stramaledetta tante volte sinché rinchiuso, fa appunto supporre abbia inveito ad arte contro di lei proprio per permetterle il conseguimento del risultato col minor costo possibile.

Il problema è ora per F. - designato capitano generale del proprio esercito dalla Serenissima e nominato, con breve papale del 3 ottobre, gonfaloniere della Chiesa al posto del cognato Alfonso d'Este scomunicato il 9 agosto - rimanere sostanzialmente neutrale eludendo gli impegni, che invece lo schierano, connessi colle due cariche colle quali Venezia e il papa non tanto hanno mirato a guadagnarsi la valentia (ormai la fama di questa è pressoché svanita) del condottiero, quanto a corresponsabilizzare il marchese nello schieramento antifrancese. Sicché F. si trova nell'imbarazzo di dover simulare un minimo di volontà di partecipazione procrastinandone il più possibile la relativa esecuzione. Ed ecco che fa presente al papa che, in quanto feudatario imperiale, se milita in campo anticesareo, scatta nei suoi confronti l'accusa di fellonia. Prontamente Giulio II replica che basta s'accordi con Venezia perché il suo apporto sia limitato e circoscritto a combattere solamente i Francesi. Messo alle strette F. ora deve vedersela colla Repubblica, colla quale cerca di giocare d'astuzia. Da un lato fa l'offeso perché il compenso prospettato è troppo esiguo e sin lesivo della sua dignità; dall'altro rivendica i territori promessigli dalla Lega di Cambrai. Né manca di far appello alla salute malconcia inviando certificati medici tutti attestanti che non può muoversi, che le nefaste conseguenze del suo notorio "mal francese" non accennano ad arretrare. Ma con tali scuse non può tirare avanti più che tanto. L'ira papale si sta gonfiando tumida, lo sdegno della Serenissima si sta caricando minaccioso. Smaccatamente pretestuoso il suo tergiversare. Per tirar in lungo ancora bisogna s'inventi qualcosa di più sofisticato. L'accusa che gli si muove da Roma e da Venezia è quella di non voler combattere. Non resta che fingere strepiti di battaglia, scontri di truppe. Serve alla bisogna la finta guerra con Ferrara e la Francia. Gran profluvio di bellicose dichiarazioni senza passare alle vie di fatto. Preavvisi reciproci dei reciproci movimenti, sicché quando si muove l'uno l'altro non si faccia trovare e viceversa. Quando poi Ippolito d'Este, il 16 novembre, entra con dei contingenti francesi nel Mantovano, i guasti sono limitati a bella posta e accompagnati dall'assicurazione del risarcimento. E i Francesi passano e ripassano pel territorio, mentre è la stessa Isabella a ordinare ai governatori delle fortezze di restare in queste rintanati. E nel contempo s'informano Roma e Venezia che, purtroppo, per quanto contrastato, il nemico, colle sue forze soverchianti, non è stato fermato. Ma quando il papa, che il 20 genn. 1511 partecipa di persona alla presa di Mirandola, esige da F. viveri e carri per marciare su Ferrara, Isabella col fratello Alfonso d'Este vagheggia addirittura di catturarlo in un'imboscata. Se il papa contro gli Estensi fa sul serio, anche Isabella vorrebbe fare sul serio. Fallisce, nel marzo, la Dieta a Mantova volta a un accordo generale, ché troppo rigide sono le rispettive posizioni, specie di Massimiliano con Venezia e di Giulio II con Alfonso d'Este. La guerra, quella vera, riprende. E, nel febbraio del 1512, F. è oggettivamente di grande aiuto non già al papa e alla Serenissima, ma a Gastone di Foix, che - forte del transito concesso da F. pel Mantovano - recupera Bologna e prende Brescia. E al solito F. dichiara di non disporre di forze sufficienti per fermarlo. Ma - dopo che Luigi XII non sa sfruttare la vittoria di Ravenna dell'11 aprile, dopo che alla Lega Santa aderisce, il 17 maggio, pure Massimiliano - ecco che F. assume un fiero cipiglio, ecco che, per lo meno a parole, sfodera la spada, adergendosi a fiero campione della crociata antifrancese. E contro la Francia s'accoda pure Alfonso d'Este sicché il 17 giugno Isabella può annunciare al pontefice che il fratello è in procinto di recarsi di persona a chiedere il suo perdono. Ma la disavventura romana del duca - è sì assolto, ma preferisce scappare, nel timore non infondato d'essere eliminato - scombussola le speranze d'Isabella e divarica, questa volta realmente, i successivi comportamenti della marchesa e del marchese: quella continua a favorire il fratello duca, mentre questo resta legato al papa.

Un successo per la marchesa la seconda Dieta di Mantova cui partecipano gli aderenti alla Lega Santa, la quale si scioglie il 21 agosto accantonando l'impresa di Ferrara. E protagonista in quella Isabella, che a far deporre i propositi guerrieri mobilita le disponibili grazie delle damigelle di corte. Spendibile politicamente la capacità seduttiva della più avvenente di loro, Eleonora Brogna, Brognina, di cui s'infatua Raimondo Cardona; e gli è rivale nel corteggiarla il card. Matteo Lang. Sicché a costui, pressata da F., Isabella, utilizzando il fascino della Brognina, fa presenti le aspirazioni gonzaghesche su Peschiera. Ma è inscalfita da tanto manovrare la determinazione di Giulio II a muovere contro Ferrara. E il marchese - la cui figura è ormai nascosta dal primeggiare di Isabella - quasi ne approfitta perché l'ira papale si indirizzi esclusivamente verso la moglie. Schiumante rabbia contro costei è in effetti Giulio II, che non solo vuole impadronirsi di Ferrara e scacciarne gli Estensi, ma pensa pure all'occupazione di Mantova. Una fortuna non solo per Isabella ma pure per F., che nella notte tra il 20 e il 21 febbr. 1513, il pontefice muoia. Svanisce così l'incubo delle sue minacciose mire su Mantova nella quale rientra, il 18 marzo, l'erede Federico, non più ostaggio a Roma, ove sale al soglio Leone X che sin da cardinale non ha manifestato sentimenti ostili ai Gonzaga. Ma laddove F. s'accontenta d'averla scampata, Isabella nel suo indefesso attivismo giunge a patrocinare un'audace spedizione per togliere Parma e Piacenza - ove osa entrare col nipote Massimiliano Sforza - alla Chiesa. Il che è decisamente eccessivo. Scosso dal suo torpore - il "mal francese" che continua ad affliggerlo lo tiene lontano dagli affari di Stato ché, come vogliono i medici, deve evitare "fastidi" e "occupationi mentali"; e al cicatrizzarsi delle "piaghe" e all'andar "repigliando" della sua "gagliardezza" segue puntuale la ricaduta che lo prostra; di fatto ormai il grosso della sua vita ha a che fare colle cure mediche, e per rimetterlo in sesto s'adopra soprattutto il frate Serafino d'Ostuni specialista proprio in "mal francese" - e aizzato contro la marchesa dal segretario Tommaso Spagnuoli a lei ostilissimo, F. l'investe con una sequela d'improperi. Veementi i suoi rimproveri e minacciosi. Questa volta il litigio è serio, non sanabile col passar del tempo. Offesa nell'intimo Isabella ne serberà per sempre rancore a Francesco II. E allo "star… abiecta in Mantua" dove è tenuta "bassa" ché F., deciso a ridimensionarla, conta soprattutto sul segretario, preferisce brillare altrove. Sicché, irrequieta, ora è a Genova, ora a Milano e, dall'ottobre del 1514 al marzo del 1515 a Roma, anche se F. non è d'accordo con questo suo deliberato allontanarsi dalla corte che le permette di svolgere una sua personale politica. E pare una soluzione sensata quella che vede a Mantova il ripiegamento mugugnante d'un F. incupito dalla sofferenza fisica e fuori l'effervescenza spiritosa della dinamica Isabella che, se intriga, lo fa a titolo personale.

Fosse per F. i grandi eventi dovrebbero situarsi lontano da Mantova. Ogni volta che s'avvicinano s'appalesano la strutturale debolezza del piccolo Stato, la sua ricattabile subalternanza rispetto, appunto, agli eventi. Angosciante per F. la vittoria francese, del 13 sett. 1515, di Marignano. Si sente stritolato dai belligeranti. E ancora una volta si finge più malato di quanto non lo sia effettivamente. Di per sé remissivo con entrambi i contendenti, è naturalmente soprattutto riguardoso col vincitore, Francesco I, al quale invia, il 19 ottobre, il primogenito Federico che, ostaggio di lusso, andrà alla corte di Francia. Foriero di pericolo, altresì, il riparare a Mantova del genero Francesco Maria Della Rovere con la moglie Eleonora, figlia di F., e la suocera Elisabetta, di F. sorella. Per fortuna del marchese, Leone X non è come Giulio II. Sicché l'ospitalità ai congiunti urbinati anziché diventare ribellione al papa trova una sua formalizzazione nella convenzione, del 10 ag. 1516, tra quello e Francesco II. Ben più grave per questo il transito devastante delle truppe francesi guidate da Lautrec. Proseguono intanto l'opacizzarsi in F. della mente e il fiaccarsi del corpo. Si sta avviando verso la fine. È consunto dalla lue che i medici non riescono a domare. E muore, con accanto Isabella - non senza che, nel descrivere le sue ultime ore, Mario Equicola gli faccia pronunciare un esplicito elogio della consorte - il 29 marzo 1519.

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