LOREDAN, Francesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 65 (2005)

LOREDAN, Francesco

Matteo Casini

Nacque a Venezia il 9 febbr. 1687, da Andrea di Leonardo del ramo di S. Vidal e da Caterina di Antonio dei Grimani dei Servi.

Della prestigiosa famiglia, che aveva dato a Venezia due dogi, i membri di spicco più recenti erano gli zii Francesco di Leonardo, ambasciatore della Serenissima presso l'imperatore durante le trattative per la pace di Carlowitz, e Leonardo di Andrea, fratello del padre, rettore in importanti città del dominio veneto. Il L. - che mai contrasse matrimonio - ebbe otto fratelli (un altro Francesco, due Antonio, due Leonardo, due Girolamo e Giovanni, l'unico che gli sopravvisse, morendo nel 1767) e due sorelle, Contarina e Alba, monaca nel monastero di S. Lorenzo. Solo un fratello, Girolamo, ebbe figli (Andrea, morto giovanissimo, e Caterina).

Il cursus honorum del L., che lo portò fino al dogado, nonostante il rango familiare non fu di rilievo. Dal 1711 al 1714 fu savio agli Ordini; dal 1721 al 1735 savio di Terraferma; dal marzo 1735 al 1751 savio del Consiglio (salvo gli obbligatori periodi di "contumacia"). Nel frattempo tenne uffici non di vertice: fu provveditore sopra Camere, sopra Dazi, in Zecca, alle Pompe, sopra Feudi; fu pure cassier del Collegio, savio alla Mercanzia, procuratore agli Ori e Monete, deputato alla Provvisione del denaro. Si limitò a svolgere i suoi compiti con diligenza, come appare dalla scarsa documentazione sopravvissuta. Per esempio, quando nel 1734 il Senato lo incaricò, in quanto savio di Terraferma, di indagare sulla "passata neutralità delle cernide [milizie ausiliarie] dell'Istria", il L. si limitò a consigliare di spedire un inviato in quel territorio o di "ravvivare" gli ordini precedenti del Senato sulle cernide stesse, perché fossero pronte in un momento minaccioso per la stabilità europea.

È da sottolineare il suo scarso interesse per le cariche fuori città. Eletto fra il 1716 e il 1723 podestà e capitano a Rovigo, poi capitano a Verona, infine podestà e capitano a Crema, rifiutò od ottenne di venire "dispensado". Ancora nel 1748 rifiutò l'incarico di commissario ai confini della provincia di Friuli e Istria. Parve considerare solo compiti cerimoniali di alto livello.

È certo solo che all'inizio del 1747 accettò l'incarico di provveditore generale a Palmanova, se non altro per sostituire il fratello Leonardo, morto in servizio; fu la sua maggiore carica prima del dogado. Il L. fu a Palmanova fino al luglio del 1749; restano i suoi dispacci e la relazione finale (Relazione letta in Senato il giorno 2 aprile 1750…, Venezia 1861) che ha spunti di un certo interesse. Qui egli ricordava di avere provato a tessere buoni rapporti con il rappresentante di Gorizia e capitano di Gradisca, nonché con i "primarii soggetti confinanti". Ma al centro dell'attenzione era Palmanova stessa, allora in un periodo difficile soprattutto a causa di una carestia (il L. giunse a spendere del proprio per mantenere la guarnigione e aiutare gli abitanti). Soprattutto gli pareva necessario accrescere la Comunità, ancora piccola malgrado i grandi vantaggi commerciali concessi dal governo da un secolo e mezzo (2000 abitanti, in gran parte "miserabili"). I mercati inoltre non funzionavano a dovere e l'esiguo territorio limitrofo non attraeva commercio e industria. Il L. proponeva di introdurre libertà di circolazione e vendita delle "biade", delle quali il territorio veneto abbondava, al contrario dei confinanti. Aggiungeva poi consigli per migliorare la produzione e il commercio della seta, principale industria locale, e indicava alcuni provvedimenti adottati dagli Austriaci per incrementare il commercio a Trieste.

Rientrato a Venezia riassunse incarichi di media levatura. Nel luglio 1750, quale savio del Consiglio, si fece portavoce di una proposta sul problema del momento, cioè l'intento di Benedetto XIV di inviare un vicario apostolico nel patriarcato di Aquileia. La proposta rifletteva le posizioni della fazione che G. Nani chiamò dei "signori", conservatrice e filoromana, guidata da Marco Foscarini: quella che due anni dopo - insieme con la ricchezza di famiglia - portò il L. a essere eletto doge sconfiggendo il capo del "partito" avverso, Giovanni Emo. L'elezione avvenne il 18 marzo 1752 e l'incoronazione il 6 aprile (i festeggiamenti iniziarono il 5 sera). L'avvento al dogado ebbe un'importante sanzione il 17 apr. 1752 con il sontuoso matrimonio della nipote Caterina, figlia del fratello Girolamo, con Giovanni Alvise dei Mocenigo di S. Samuele.

Come scrisse nel 1756 G. Nani, il L. poté affrontare gli oneri per divenire doge ed esercitare la carica perché la famiglia era una di quelle di "classe prima", cioè "assai ricche" (egli figurava appunto tra i senatori di "classe prima"). Nel 1741 dichiarava entrate per quasi 11.000 ducati; nel solo 1758 ne spese quasi 43.000 per il dogado e alla morte le sue entrate superavano ancora i 118.000 (seppure a fronte, come si dirà, di parecchi debiti). A questo si univano le estesissime proprietà terriere familiari. I costi delle feste per l'elezione sono stati spesso stimati incorrettamente, anche da contemporanei (una scrittura del 1772 nei fascicoli dei Loredan parla di 90.000 ducati, mentre S. Romanin li stima in circa 21.700). L'elenco sopravvissuto delle singole voci consente però di valutare il costo a poco più di 38.600 ducati (di questi, 2310 per l'orchestra, 7635 per i rinfreschi, 5800 donati al popolo e 2140 agli arsenalotti). L'emissione di denaro da parte della Zecca fu di 5500 ducati, 3500 scudi d'argento, 180 ducatoni, 180 "doppie" in oro, 186 zecchini e 400 soldoni, non straordinaria rispetto a quella per altri neo dogi; sembra però elevatissima la cifra per le celebrazioni (che Romanin stima molto superiore rispetto ai dogi precedenti e insuperata da diversi successori). Nonostante ciò uno dei sonetti composti per l'occasione lamentò risultati insufficienti, sbeffeggiando le musiche e affermando che la "macchina" dei fuochi artificiali aveva richiami funerari. Impressionanti, comunque, anche le spese del L. nel primo anno di dogado: più di 117.000 ducati (i 6250 spesi per pellicce non erano del tutto saldati - stando alle proteste dei pellicciai - ancora nel 1781). Tali esborsi furono consentiti anche da operazioni finanziarie. Nel settembre 1751 con il fratello Giovanni accese un livello su proprietà presso Rovigo e Badia Polesine, per ottenere 30.000 ducati da Chiara dei Pisani di "Ca' Moretta" (nel 1755 il debito residuo era di 18.000 ducati). Nel gennaio 1755 il L. ricevette da Elisabetta Corner Foscarini, dei Corner della Ca' Granda, 18.000 ducati "per le urgenze sole del dogado" (come recita un documento successivo; alla morte del L. restava ancora un debito di 3000 ducati). Nel giugno dello stesso anno il L. e il fratello furono al centro di una complessa compravendita di proprietà fra le famiglie Rezzonico e Bon per un valore di quasi 59.000 ducati, mirata a trasferire definitivamente ai Rezzonico la proprietà del celebre palazzo di S. Barnaba. I Loredan profittarono della transazione per far fronte ad alcuni debiti (tra i due fratelli, tuttavia, pare che la situazione debitoria peggiore fosse quella di Giovanni).

Il dogado del L. non registrò eventi particolari, tranne, negli anni Cinquanta, un nuovo accordo con Ragusa sul commercio adriatico e soprattutto un'altra vertenza con Benedetto XIV sull'obbligo dell'exequatur per le bolle pontificie sul territorio della Repubblica e sul controllo dei numerosissimi ricorsi di sudditi veneti a Roma. Nel 1754 il Senato emise al proposito un'importante e rigida legge, osteggiata dal papa e ritirata solo dopo che nell'agosto 1758 salì al pontificato Clemente XIII, il veneziano Carlo Rezzonico (la momentanea riconciliazione ebbe un apice simbolico nel 1759, con il dono della rosa d'oro papale al doge).

Lo scarso ruolo del L. negli avvenimenti del periodo dipese anche dalla salute, precaria almeno dal 1755 a giudicare sia da improvvisi cali nelle spese annuali del dogado, sia da voci popolari che presto lo descrissero come "un che morto non è / bensì mal vivo" (sberleffi simili continuarono dopo la morte). Anche nei mesi che fra 1761 e 1762 videro Angelo Querini e il suo gruppo portare attacchi all'autorità del Consiglio dei dieci e degli inquisitori di Stato non poté assumere un ruolo perché malato. In sintesi, non hanno torto Gullino e Del Negro nell'affermare che non fu personaggio di spicco. Perfino la Laudatio in funere serenissimi principis Francisci Lauredani di N. Dalle Laste parla esclusivamente dei suoi gloriosi antenati, senza soffermarsi sulla sua vita. La stessa religiosità del L., enfatizzata in passato, non sembra si sia elevata al di sopra di atteggiamenti del tutto consueti per l'epoca.

Prodigo e generoso, fu definito "padre dei poveri" in due quadri di P. Longhi. Non ebbe una cultura particolare e possedette una biblioteca limitata mostrando solo un certo attivismo in campo artistico; oltre a farsi ritrarre da pittori minori come B. Nazzari e F. Pasquetti, progettò il rifacimento delle Mappe commerciali dei territori e dei paesi nella sala dello Scudo in palazzo ducale e dei ritratti degli ultimi quarantasei dogi nella sala dello Scrutinio. Fece inoltre affrescare da G. Angeli parte del piano nobile del palazzo di famiglia a S. Stefano. Ma il suo interesse più costante fu la gestione del patrimonio di famiglia. Oltre al celebre palazzo, a due stabili in S. Stefano e a una abitazione nelle procuratie a S. Basso, dalla condizione di decima del 1739 e da altre fonti risultano a Venezia e Mazzorbo almeno 76 case e botteghe in vari sestieri (soprattutto S. Polo, Cannaregio e Castello). Vi erano poi moltissimi stabili, livelli agrari e campi: nell'entroterra veneziano (Marghera, Meolo), nel Polesine (Canda, Anguillara Veneta, S. Martino di Venezze, Rovigo, Badia Polesine, Polesella) e nel Padovano (Montagnana, Cittadella, Piove di Sacco, Altichiero), Trevigiano (Monastier, Conegliano, Asolo), Vicentino (Noventa Vicentina) e Veronese; poi ancora nel Friuli (Latisana) e in Istria (Rovigno e Barbana). Importanti in particolare le ville e i terreni a Stra, Canda e Noventa Vicentina. Sembra che tali possessi - fino al 1755 in comproprietà con lo zio Giovanni di Leonardo, fratello del padre - in buona parte risalissero al matrimonio, negli anni '20 del Seicento, di Francesca Barbarigo con Francesco Loredan, bisnonno del Loredan. Secondo una stima del 1755, le terre ex Barbarigo rendevano ben 11.000 ducati annui (ma in quell'anno una parte considerevole fu ceduta ai Rezzonico con il citato "instrumento").

Degne di menzione sono due intraprese commerciali del L. per vitalizzare le fortune famigliari. In un allegato al testamento, dell'aprile 1758, scrisse di avere investito 9000 ducati "nel negozio dell'oglio" (poi affrancati dopo la sua morte, nel 1763). Soprattutto, poi, investì 22.500 ducati in parte della libreria-tipografia "all'Insegna della Fortuna Trionfante a S. Salvador", una delle principali della città, gestita da F. Pitteri e dotata di ben sei torchi. Ne acquistò un quarto nel 1741 e un secondo nel 1759, assieme a un Domenico Pagan. Difficile valutare il successo dell'investimento: in un elenco di introiti dei Loredan dal 1759 al 1762 quelli della stamperia risultano di poche centinaia di ducati all'anno. Alla morte del L. l'investimento era ancora in atto, ma Giovanni dovette risolvere una situazione che si era fatta complicata, cedendo nel 1763 al Pagan per 10.000 ducati l'ultima quota della stamperia posseduta dalla famiglia. Tuttavia lo stesso Pagan cumulò debiti coi Loredan per quasi 20.000 ducati e parve inoltre dedito a "raggiri forensi". Da scritture successive appare infine che Giovanni riuscì a chiudere la questione.

Il L. ebbe pure complessi problemi per le doti giunte in famiglia. Il più grave fu quello dei 46.000 ducati di Caterina di Nicolò Corner (sposa nel 1726 del fratello Girolamo), che il contratto di nozze affidò al marito, ai suoi fratelli (fra i quali il L.) e allo zio Giovanni. Girolamo morì nel 1749, ma la dote non fu integralmente restituita. La Corner continuò a vivere con i Loredan: nel maggio 1752, dopo il loro spostamento a palazzo ducale, le fu assicurato - come ad Anna Maria Vendramin Loredan, moglie di Giovanni, un "vitalizio" con una percentuale della dote e il "giornaliero trattamento alla tavola". Inoltre fu restituita annualmente una percentuale della dote. Nel 1762, dopo la morte del L., restavano da versare 40.000 ducati, dei quali il L. rispondeva per metà, mentre il vitalizio della Corner era di 2000 (entro il 1778 furono restituiti solo 15.000). Furono a carico della famiglia anche altre doti. Nel marzo 1760 il L. impegnò argenti di casa per pagare 6000 ducati di decima e companatico sulla dote di Caterina Loredan Mocenigo; nel 1762 quella di Anna Vendramin pesava per 2000. Non vanno poi dimenticati cospicui prestiti del L. a familiari (6000 ducati al cognato G.T. Mocenigo Soranzo e 9000 ducati al fratello Giovanni, concessi nel 1755 e ancora insoluti per più di metà alla morte del Loredan).

Il L. morì a Venezia il 19 maggio 1762.

Morendo il L. lasciò una situazione non florida. Dettagliati inventari dei suoi beni mobili, depositati presso i Procuratori di S. Marco e i Giudici di petizion, segnano un esiguo attivo; ancora nel sett. 1764 i "giudici al Procurator" stimarono in 19.275 ducati il residuo dei debiti accumulati "per l'occorrenze della casa" e per i "censi". Se a ciò si aggiunge la situazione debitoria difficile di Giovanni, si può concludere che alla morte del L. la situazione del patrimonio familiare era assai critica sul fronte della liquidità e dei debiti, sebbene la storiografia discordi sulle cifre. Ma il problema principale, ben presente al L., fu l'assenza di "posterità mascolina". Nel testamento egli prima stabilì che, saldati i debiti, i beni residui andassero al fratello e ai suoi eredi maschi "nati abili al Serenissimo Maggior Consiglio"; aggiunse poi che in mancanza di tali eredi una metà andasse alle figlie di Giovanni e ai loro figli, l'altra metà alla sorella Contarina (moglie di Giovanni Tommaso Mocenigo dei Soranzo di S. Polo) e alla nipote Caterina, nonché ai loro figli maschi. Nella realtà la linea maschile della famiglia si estinse nel 1767, con la morte di Giovanni, donde lunghissimi litigi sulla spartizione dell'eredità.

Il fratello Giovanni dovette spendere 18.700 ducati per "funeral e corrotti", mentre le rime popolari insistevano sulle passate malattie del Loredan. Un sonetto titolò "Per la stessa morte più, e più volte vociferata, e poi finalmente accaduta". Altri poemetti narrarono l'incontro del L. con Caronte, che si rifiutava di fargli traversare il Lete perché "corbellato" in passato dal doge, sempre sul punto di morire. Nel testamento il L. ricordava che nel 1726 aveva fondato una cappella presso la S. Casa di Loreto, spendendo 4344 scudi. Diversi, poi, i suoi oggetti devozionali: una reliquia del "legno della Serenissima Croce legata in oro"; altre reliquie "venute da Roma"; quadri e "offizi" della Vergine; dipinti ricevuti da confraternite. Secondo Moroni il L. avrebbe fornito di "preziosi ornamenti" la basilica di S. Marco e dato maggior ordine al suo personale.

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