MARESCOTTI, Francesco (Franco). – Figlio di Pietro e di Rosa Badioli, nacque il 10 genn. 1908 a Pesaro, dove nel 1927 conseguì il diploma nell’istituto agrario. Trasferitosi con la famiglia a Roma, ebbe una breve e deludente esperienza lavorativa dal 1930 al 1934, nello studio romano dell’architetto e accademico d’Italia Armando Brasini, che si chiuse con il trasferimento del M. a Milano, in cerca di lavoro. Con l’ingegnere Irenio Diotallevi, conosciuto a Roma, costituì nello stesso anno lo studio professionale Diotallevi e Marescotti, che resterà in attività per un ventennio. Il 24 genn. 1936 sposò Ines Tonin.
A Milano stabilì un fecondo e durevole rapporto con Giuseppe Pagano, direttore della rivista Casabella, con il quale collaborò sia nella redazione della rivista sia nell’ufficio tecnico della Triennale di Milano, impegnandosi, nell’edizione della VI Triennale, alla preparazione della Mostra dei materiali edilizi e costruttivi. I primi studi del M. sulla standardizzazione e sulla prefabbricazione contribuirono, nel 1938, a modificare il titolo della rivista di Pagano in Casabella costruzioni.
È del 1940 la pubblicazione, nel n. 148 di Casabella costruzioni, del progetto della cosiddetta «città orizzontale» di Diotallevi, del M. e di Pagano. Essa è costituita da un tessuto urbano che ha come sottomultiplo la «casa-unità» e che presenta la dimensione di un unitario quartiere residenziale nel quale trovano posto, secondo precise e necessarie relazioni spaziali e qualitative, le case, i servizi e le infrastrutture urbane. Attraverso tale meccanismo l’assetto di ampi settori urbani viene subordinato alla funzione residenziale non monumentale e di questa funzione la casa popolare rappresenta la parte prevalente.
La «casa-unità» ideata per la «città orizzontale» è alla base anche di un altro progetto: quello per la «città del sole» predisposto da Diotallevi e dal M. per la prima Mostra del problema nazionale della casa, tenutasi a Catania nel 1945 e patrocinata dal Partito comunista italiano, a cui il M. aderì dal 1945 al 1959. Nel dopoguerra partecipò all’elaborazione del piano del lavoro voluto dalla C0nfederazione generale italiana del lavoro (CGIL).
L’impianto tipologico della «casa-unità», basato sui due corpi di fabbrica che abbracciano il patio, conferisce alla casa l’attributo della ampliabilità. Tale attributo, che si riscontra anche nelle case della «città orizzontale», consente di commisurare la superficie abitabile e quella all’aperto al differente numero dei componenti di ciascuna famiglia. È questa una caratteristica che Diotallevi e il M. rilevarono dal prolungato e attento studio delle moderne esperienze internazionali di abitazioni popolari. Tra queste essi esplicitamente citano le proposte tedesche di W. Gropius e L. Hilberseimer e le realizzazioni per le comunità di disoccupati di A. Klein a Berlino e di F. Schuster a Francoforte sul Meno.
La «città orizzontale» si presenta con una struttura compatta e raccolta intorno al centro, che contiene tanto l’edificio alto di una casa albergo quanto altri servizi collettivi. Dal canto suo la «città del sole» ha uno sviluppo lineare molto accentuato, basato su un lungo nastro continuo di abitazioni affiancate a una fascia di uguali dimensioni che comprende gli impianti sportivi, il parco pubblico, la piazza e i differenti edifici dei servizi collettivi: sanitari, amministrativi, scolastici, culturali. In realtà l’assetto lineare della «città del sole» è la sintesi della ricerca progettuale e degli studi sulla casa popolare europea condotti da Diotallevi e dal M. dal 1933 al 1947.
Un primo studio per case operaie è datato 1933-35 e consiste in una fascia di case a un solo piano, con patio alberato, e aggregate a schiera. A tale iniziale proposta seguono infiniti schemi autografi, tracciati quasi quotidianamente dalla mano del M. e alcuni progetti a sviluppo lineare di case collegate alla fabbrica. Tra questi ci sono: le case per gli impiegati del Lanificio Rossi a Schio (1938); numerose proposte, a uno o due piani, per la «casa dell’uomo» (1942-44); le case operaie per il Lanificio Fila a Cossato (1943); infine il progetto di abitazioni per l’Istituto case popolari al villaggio Baravalle di Milano (1947), oggi demolito (Giura Longo, 1979).
Per il M. era «casa» anche la città, «casa per uno e per infiniti uomini». Così la chiama perché è il luogo dove si deve esercitare il diritto di uno e di infiniti uomini ad avere la casa e perfino a costruirla con le proprie mani per la famiglia. Dopo la caduta del fascismo, nel corso della ricostruzione postbellica e delle realizzazioni INA-Casa (1949-63), la sua tenace attività progettuale e il suo impegno politico e divulgativo si svolsero nell’ambito delle organizzazioni sindacali della Sinistra e delle cooperative di produzione e lavoro. Questa nuova fase della vita del M. si aprì con il gran premio vinto alla Triennale di Milano per la Mostra sull’abitazione da lui curata nel 1947.
Tra le esperienze proposte spicca, nella sua meritata importanza, il caso di Francoforte sul Meno, a cui Diotallevi e il M. dedicarono otto schede. La lettura delle schede consente di seguire i criteri e le modalità di attuazione del piano regolatore di sviluppo della città, grande opera dei tecnici della Municipalità guidati dall’architetto urbanista Ernst May dal 1924 al 1932. Quella che storicamente è definita «la nuova Francoforte» si basa sulla realizzazione di ventisei nuclei di case popolari chiamati «unità satellite», correttamente adagiate nel paesaggio dei due versanti della Valle del Nidda. Alle unità satellite sembra fare riferimento la lineare sequenza teorica proposta dal M. per il rinnovo urbano, e applicata sia nel progetto per la «città orizzontale» (1940) sia in quello per la «città del sole» (1945): dalla «casa dell’uomo» si passa alla «casa-unità» e con questa si costruisce la «casa per uno e per infiniti uomini» cioè la città o il quartiere.
Ma la «casa per uno e per infiniti uomini» si può realizzare anche costruendo nelle periferie delle città esistenti, i centri sociali cooperativi. A questo tema il M. dedicò gran parte dell’attività progettuale nel suo Studio sociale di architettura, che dopo l’uscita definitiva di Diotallevi, nel 1950, continuò a operare con la collaborazione di C. Ceccucci prima e di G. Rizzi poi.
Ogni centro era costituito da alcuni corpi di fabbrica di varia altezza che contenevano complessivamente circa un centinaio di alloggi destinati alle famiglie dei cooperatori inquilini. Questi spesso costituivano anche la manodopera nel cantiere e gli interlocutori ascoltati nelle decisioni circa le soluzioni. I fabbricati residenziali si innestano sui fabbricati più bassi destinati alle attività di uso pubblico, come lo spaccio, il bar-ristorante, la biblioteca, il cinema-teatro e le sale e i saloni per conferenze, assemblee, feste e balli. Agli usi pubblici erano destinati anche gli spazi liberi all’aperto: per la sosta, lo sport, il gioco e le feste. Il primo dei centri sociali cooperativi realizzati è il Grandi e Bertacchi, del 1951-53. Il secondo è il Lampugnano del 1953-55. Entrambi sono impostati su un impianto urbano e spaziale molto chiaro e, se il Grandi e Bertacchi appare più unitario nell’insieme, la loro architettura è parimenti austera e disadorna. Il progetto non realizzato, il Novate Milanese del 1956, appare più ambizioso e punta sulla frammentazione delle volumetrie. Qui gli edifici destinati agli usi pubblici e alle attività sociali collettive sembrano cadere nel simbolismo piuttosto che esprimere una loro funzione. Appaiono infatti ispirati ai progetti di Gropius per il teatro di Khar’kov (1930) e per il palazzo dei Soviet a Mosca (1931) sia il torrione dei saloni per le feste, i bar e i ristoranti sia il cinema-teatro: il M. sembra credere che il proletariato della periferia milanese abbia bisogno anche di simboli per riconoscersi come parte degli infiniti uomini che hanno il diritto di costruirsi la «casa-città».
Tra i progetti realizzati dal M. negli anni Sessanta si deve ricordare villa Flavia (1967) a Roma.
A seguito dell’esperienza di insegnamento universitario a Firenze negli anni Sessanta, come docente a contratto, dopo aver chiuso lo Studio sociale di architettura di cui era titolare con Rizzi, il M. si trasferì a Catania per insegnare nel settore disciplinare della progettazione architettonica della facoltà di ingegneria dell’Università dal 1971 al 1978.
Il M. morì a San Gregorio di Catania il 12 giugno 1991.
Fonti e Bibl.: E. Persico, Scritti critici e polemici, a cura di A. Gatto, Milano 1947, pp. 206, 236 e passim; T. Giura Longo, Contributi italiani al tema della unità di abitazione, in Lotus, 1975, n. 9, pp. 62-75; Intervista a F. M., a cura di F. La Cecla - A. Delfo, in Parametro, 1978, n. 72, pp. 58 s.; C. Guenzi, M. documentato, in Casabella, XLIII (1979), 447-448, p. 4; Quaderni dell’Ist. dipartimentale di architettura e urbanistica dell’Università di Catania, 1979, n. 9 (dedicato interamente al M. con testi di T. Giura Longo, A.D. Durante, Z. Dato Toscano, F. Imbrosciano, E.D. Sanfilippo, U. Cantone, G. Tosto); G. Ciucci - M. Casciato, F. M. e la casa civile 1934-56, Roma 1980; T. Giura Longo, Le architetture di F. M.: la casa dell’uomo tra natura e produzione, in Controspazio, 1981, n. 1, pp. 2-5; Z. Dato Toscano, Gli studi di F. M. per «La città del sole», ibid., pp. 25-30; T. Cannarozzo, Cultura dei luoghi e cultura del progetto, presentazione di V. Cabianca, Firenze 1986, pp. 89-97; M. Casciato, La «casa dell’uomo» un ricordo di F. M., in Casabella, LV (1991), 584, pp. 26 s.