MICHETTI, Francesco Paolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 74 (2010)

MICHETTI, Francesco Paolo. –

Michele Di Monte

Nasce il 4 ott. del 1851 a Tocco da Casauria (oggi in provincia di Pescara) da Crispino, direttore della banda musicale del paese, nonché compositore dilettante, e Aurelia Terzini (Di Tizio, 2007, p. 15). La prematura scomparsa del padre e le conseguenti difficoltà economiche della famiglia lo costringono a lavorare, sebbene ancora bambino, come apprendista presso la bottega di un fabbro (Ciglia, p. 49). L’impiego però è di breve durata perché, poco tempo dopo, in seguito al nuovo matrimonio della madre, il M. si trasferisce con tutto il resto della famiglia a Chieti. Avviato alle scuole tecniche, il M. dimostra subito una spiccata abilità per le arti grafiche tanto che, nel 1864, appena tredicenne, inoltra una domanda di sussidio – per poter «avere mezzo di istruirmi nel disegno, arte per cui sento un trasporto irresistibile» (Di Tizio, 2007, p. 20) – al Consiglio provinciale di Chieti, che però non l’accoglie. Tuttavia, quattro anni dopo, nel 1868, il M. riesce ad ottenere dalla stessa amministrazione una modesta borsa di studio, di appena 30 lire mensili, che gli permette comunque di trasferirsi finalmente a Napoli (Sillani). Qui, grazie alla mediazione dell’amico Edoardo Dalbono, riesce a iscriversi all’Istituto di belle arti e frequenta le lezioni di Domenico Morelli, il quale apprezza immediatamente le doti coloristiche e disegnative del giovane allievo. La vivacità dell’ambiente artistico e culturale partenopeo non può non influenzare il M., che presto entra in contatto con le personalità di maggior spicco e artisticamente più all’avanguardia. Riesce infatti a conoscere e a visitare spesso lo studio di Filippo Palizzi e soprattutto stringe legami con Giuseppe De Nittis e Marco De Gregorio, vale a dire con alcuni dei componenti del gruppo di artisti che allora formava la cosiddetta Scuola di Resina. Queste frequentazioni non fanno che rafforzare l’innata inclinazione del M. verso una pittura fortemente realistica e naturalistica, anche – e soprattutto, in questa prima fase – nella scelta dei soggetti: per lo più animali, preferiti dall’artista «perché Palizzi li aveva messi di moda in pittura, perché gli facevan pensare alla campagna desiderata e lontana, infine perché come modelli non gli costavan niente» (Ojetti, 1910, p. 405).

A causa di problemi disciplinari (ibid., pp. 407 s.), ma anche per un’insofferenza verso i rigidi insegnamenti accademici, nel 1869 il M. abbandona temporaneamente l’Accademia napoletana per far ritorno in Abruzzo, recandosi da principio presso la famiglia a Chieti e in seguito, per le vacanze estive, a Francavilla a Mare, dove tornerà sempre più spesso fino a stabilirvisi in maniera definitiva nel 1878 (Di Tizio, 2007, p. 61). Nel frattempo anche per il M. diventa una necessità intraprendere un viaggio a Parigi che, alla fine del XIX secolo, è il centro del mercato d’arte. Il pittore decide perciò di partire nel 1871, avendo già stipulato, grazie alla mediazione di Giuseppe De Nittis e del collezionista Beniamino Rotondo, un contratto con il mercante d’arte Reutlinger, accordo che prevedeva un mensile di 200 lire e che gli avrebbe assicurato la partecipazione agli ambitissimi salons parigini (ibid., pp. 31 s.). Il M. è infatti ammesso al Salon del 1872, dove esibisce il Ritorno dall’erbaggio, Sonno dell’innocenza, nonché, come pare confermato dagli studi più recenti (ibid., pp. 39 s.), La raccolta delle zucche. Successivamente il M. è invitato a presentare le proprie opere al Salon del 1875, dove espone il dipinto La raccolta delle olive in Abruzzo (oggi disperso), e a quello del 1876, con La processione del Venerdì santo, Pastorelle abruzzesi, Matrimonio negli Abruzzi e il bozzetto per la Processione del Corpus Domini.

In tutte queste occasioni le sue opere non passano inosservate e, oltre all’apprezzamento del pubblico, gli valgono anche l’interessamento di A. Goupil, avversario storico di Reutlinger, con il quale il M. non mancherà di collaborare in seguito, consolidando così la propria fama e la propria presenza sul mercato internazionale (Borgogelli, pp. 21 s.).

Nonostante la discreta notorietà ottenuta a Parigi, tuttavia, il M. non abbandona definitivamente Napoli dove, nel 1874, conosce Mariano Fortuny, stabilitosi a Portici in quello stesso anno. L’incontro con il celebre pittore spagnolo produce inevitabilmente degli esiti tangibili nella produzione del M.: la tavolozza cromatica è schiarita e alleggerita, abbondano i brani di virtuosismo, si stempera l’aspetto realistico, declinato piuttosto verso il folkloristico e il pittoresco. Proprio questi elementi sostanziano i giudizi, perlopiù mossi con intenti denigratori, di una parte della critica – Adriano Cecioni arrivò addirittura a considerare il M. un «copiatore di Fortuny» e la sua pittura «falsa, bugiarda e ciarlatana» (Di Tizio, 2007, p. 55) – quando, nel 1877, il M. realizza per l’Esposizione nazionale di belle arti di Napoli la Processione del Corpus Domini, il dipinto che, nonostante i pareri discordanti, consacra comunque la sua fama in Italia. Grazie a quest’opera, infatti, il M. ottiene il primo premio per la pittura, che gli vale insieme una discreta somma di denaro, ben 4000 lire, e la nomina a professore onorario dell’istituto di belle arti di Napoli (ibid.).

Ormai economicamente indipendente dalla famiglia, il M. elegge a propria residenza stabile la cittadina di Francavilla a Mare dove, inizialmente, abita in una casa presa in affitto da Tommaso Cermignani, suo futuro suocero. Qui comincia a ricevere i propri amici gettando in questo modo le basi per quello che di lì a poco diventerà un vero e proprio cenacolo artistico e letterario. Fra coloro che per primi frequentano la dimora michettiana sono il musicista Francesco Paolo Tosti e lo scultore Costantino Barbella, che suggerisce al M., probabilmente proprio durante uno di questi soggiorni, di sperimentare il lavoro con la terracotta, spingendolo a produrre alcune sculture, una delle quali è presentata dall’artista all’Esposizione universale internazionale di Parigi del 1878 (Ojetti, 1910, p. 406). Interessato dunque a esplorare le possibilità di diversi linguaggi artistici, il M. subisce anche il fascino dello stile giapponese, come del resto molti artisti del suo tempo. Nel suo caso, però, l’interesse per l’arte orientale è vissuto non come una moda passeggera bensì come un nuovo stimolo da approfondire e perseguire.

Con questo proposito, infatti, il M. prende in considerazione addirittura la possibilità di andare a insegnare all’Accademia di Tokio dove, nel 1878, era rimasta scoperta la cattedra di pittura occupata in precedenza da Antonio Fontanesi. Soltanto l’intervento del re Umberto I di Savoia eviterà la sua partenza, quando ormai erano già stati presentati tutti i documenti necessari per la domanda di assunzione (Ojetti, 1910, pp. 414 s.).

Abbandonati quindi i propositi di espatrio, il M. consolida piuttosto le proprie radici e progetta un edificio – andato distrutto durante la seconda guerra mondiale – da utilizzare come studio, che fa realizzare nel 1879 sul litorale di Francavilla al Mare (Di Tizio, 2007, pp. 69-74). A questo stesso periodo dovrebbe anche risalire la sua amicizia con Gabriele D’Annunzio, il quale, nel 1880, ancora diciassettenne entra a far parte del cosiddetto cenacolo michettiano: sodalizio mai interrotto e anzi consolidatosi vieppiù nel tempo, come dimostra, oltre il sostegno critico e le numerose dediche e citazioni sparse nell’opera letteraria del poeta, anche la copiosa e regolare corrispondenza intercorsa tra i due (Id., 2002).

Pur essendo un artista eclettico e versatile, il M. continua a dedicarsi soprattutto alla pittura, lavorando a una serie di dipinti che presenta nelle diverse esposizioni nazionali del nuovo Stato unitario. Partecipa infatti all’Esposizione di Firenze e a quella di Torino del 1880, mentre l’anno seguente espone le sue opere alla mostra milanese, ottenendo in ogni occasione consenso e di pubblico e di critica. Ma l’opera che indubbiamente segna un’ulteriore svolta nell’ascesa professionale del M. è Il voto (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), la celebre grande tela (7 metri di lunghezza per 2.50 di altezza) realizzata in occasione della Mostra internazionale di belle arti di Roma del 1883.

Il dipinto rappresenta il momento culminante della processione che ogni anno si svolgeva a Miglianico, piccolo paese d’Abruzzo, in occasione della festa del patrono, S. Pantaleone. Qui i fedeli, all’interno della chiesa, assistevano al rituale voto penitenziale che consisteva nel leccare il pavimento dal sagrato fino alla statua del santo. Come era già successo a Napoli nel 1877, anche in questo caso la critica si divise in due opposti schieramenti. Se da un lato si accusava il M. di tradire gli ideali del verismo – e tra i detrattori c’erano Cecioni in primis, ma anche, più moderatamente, Nino Costa e Camillo Boito – dall’altro si elogiava invece proprio la capacità del M. di coniugare al sommo grado gli aspetti più propriamente realistici e popolari con un idealismo religioso e sentimentale che in certo modo continuava e completava l’opera della natura – e su questo versante favorevole figuravano D’Annunzio, naturalmente, ma anche Francesco Netti e Primo Levi, solo per citarne alcuni (Id., 2007, pp. 109-121).

Che il M. fosse sinceramente interessato a rendere in modo analitico e fidedegno il «vero» lo prova peraltro il ricco archivio fotografico custodito nella sua abitazione di Francavilla, scoperto nel 1966 da Raffaele Delogu insieme con numerosi disegni e pastelli.

Il ritrovamento ha in effetti confermato ciò che gli studiosi da tempo supponevano, vale a dire un attento e rigoroso impiego della fotografia da parte del M. quale ulteriore strumento di indagine del reale: non per caso il cospicuo materiale raccolto era stato scrupolosamente ordinato e catalogato in trenta sezioni diverse (Miraglia, 1975, p. 8). Va comunque sottolineato che l’uso che il M. ha fatto del mezzo fotografico non rispondeva esclusivamente a una ragione strumentale. Il M. infatti considerava la fotografia al pari della pittura e aveva pienamente intuito le potenzialità propriamente artistiche del nuovo mezzo, in quanto forma di espressione visiva autonoma e compiuta (ibid., p. 25). Forse troppo in anticipo su molti suoi contemporanei, il M. dovette però spesso nascondere o comunque tenere riservata ai soli amici intimi la sua passione fotografica, ché, non di rado, fu accusato di copiare dalle fotografie tradendo così, secondo i suoi detrattori, una carenza di quella capacità inventiva necessaria a ogni buon artista.

Il successo raggiunto alla mostra romana, e comunque assicurato nonostante le aspre polemiche, consente al M. di vendere Il voto al ministero della Pubblica Istruzione ricavandone ben 40.000 lire. Tornato nella sua Francavilla, l’artista progetta di impiegare la cospicua somma ricevuta nella fondazione di una fabbrica di ceramiche. L’idea però non troverà realizzazione e, il 2 giugno del 1885, il M. deciderà piuttosto di acquistare un antico convento di fondazione quattrocentesca ormai abbandonato di proprietà del Comune di Francavilla.

Il «conventino», come veniva spesso soprannominato nell’epistolario, diventa la sua abitazione e il suo atelier, oltre a svolgere una funzione di «albergo» per i suoi numerosi ospiti, fra i quali, naturalmente, D’Annunzio, che proprio in una delle antiche celle comporrà, nel 1888, il Piacere e nel 1894 Il trionfo della morte.

La partecipazione all’Esposizione di Venezia del 1887 interrompe un periodo di relativa inoperosità artistica, dovuto sia a questioni connesse alla ristrutturazione del convento sia a problemi di salute. Per la mostra veneziana il M. appronta tredici opere, dedicate a soggetti campestri e festività popolari, di cui cura da sé l’allestimento, recandosi appositamente nella città lagunare per incorniciare e disporre i suoi lavori, giacché, come egli stesso scrive alla commissione esaminatrice, «l’operazione è alquanto delicata e, io sono geloso» (Di Tizio, 2007, p. 170). Anche in questo caso alcuni dipinti vengono acquistati dallo Stato e destinati alla novella Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, mentre tre piccole opere sono espressamente acquisite dalla casa reale.

L’anno seguente, il 1888, segna profondamente la vita personale e artistica del pittore. Il 22 agosto, alla presenza di quattro testimoni, fra i quali l’immancabile amico D’Annunzio, il M. sposa la giovane Annunziata Cermignani. L’unione è però celebrata, contrariamente all’usanza, senza grandi cerimonie e dal sindaco di Francavilla, nel «conventino», al riparo dagli inevitabili commenti dei benpensanti, visto che la sposa aveva già dato alla luce, nel maggio dello stesso anno, il primogenito Giorgio. Dalla coppia nasceranno poi altri due figli: Aurelia, nel 1889, e Alessandro, nel 1891 (ibid., pp. 188, 193 s.). Alla completa realizzazione familiare si accompagna, nello stesso anno, anche quella professionale, che arriva con la prestigiosa commissione ufficiale, da parte del re Umberto I di Savoia, del proprio ritratto e di quello della consorte, la regina Margherita (ibid., pp. 187 s.).

Da questo momento in poi si susseguono per l’artista le partecipazioni alle esposizioni nazionali, come quella di Roma del 1893, e soprattutto internazionali: a Vienna (1888), a Berlino (1891) – dove presenta addirittura 325 dipinti – a Monaco (in due occasioni, nel 1891 e nel 1894), ad Anversa (1894), a Düsseldorf e a Londra (entrambe nel 1904). È però alla prima Biennale di Venezia del 1895 che il M. imprime una nuova svolta al proprio percorso artistico esponendo la grande tela La figlia di Jorio (Pescara, Biblioteca provinciale).

Sebbene la versione finale del dipinto sia stata realizzata in breve tempo, la sua gestazione era stata invece piuttosto lunga e laboriosa. La scelta del tema, ripreso nove anni dopo, nel 1904, da D’Annunzio per la sua tragedia, era avvenuta, secondo la testimonianza lasciataci dallo stesso poeta (Ciglia, pp. 60, 65), a seguito di un episodio verificatosi nella piazza di Tocco a Casauria, al quale avevano assistito entrambi gli amici. Una bella e giovane donna «perduta» era stata fatta oggetto di lazzi e provocazioni e inseguita per le strade del paese da alcuni uomini, perlopiù mietitori al ritorno dal lavoro nei campi, forse ubriachi. La scena colpisce profondamente il M., che si propone di farne il soggetto di una sua opera, elaborando una quantità di schizzi, disegni preparatori e numerosissime fotografie (per uno dei personaggi utilizzò alcuni ritratti fotografici dell’amico De Cecco) realizzati nell’arco di alcuni anni. Il pittore esegue quindi una prima stesura ad olio dell’opera, che abbandona però a favore di una seconda versione rifatta servendosi della tempera. Molto probabilmente la modifica è dettata dal bisogno di ottenere un particolare effetto cromatico e luministico, una minore pastosità a favore di un aspetto più chiaro e luminoso, con contrasti chiaroscurali più nitidamente marcati. Oggi purtroppo l’aspetto originale del dipinto è compromesso a causa della corruzione del colore, dovuta alla cattiva riuscita della tempera usata dal pittore: una miscela a base di glicerina di sua invenzione, per la quale aveva ideato anche un sistema di stesura sul supporto (ibid., p. 70; Ojetti, 1910, p. 404). Resta nondimeno inalterata la costruzione complessiva della scena, dove, secondo le parole di D’Annunzio, «non vi è ombra di esteticismo. Ma il genio michettiano si è rivelato nei suoi caratteri essenziali con più rigore, con più disdegno, con più asprezza, con più violenza. È una larga tela dipinta a tempera, severissima di disegno, sobria nel colore, semplice e fiera di sentimenti. L’anima della nostra vecchia terra d’Abruzzo v’è manifestata con una concentrazione mirabile» (Ciglia, p. 71).

Alcuni anni più tardi, nel 1903, il poeta chiederà all’amico pittore di curare tanto la scenografia quanto i costumi per la rappresentazione a Milano dell’omonimo dramma pastorale. Alla mostra veneziana il dipinto è comprato da Ernest Seeger per la Galleria nazionale d’arte di Berlino, anche se successivamente, nel 1932, lo Stato italiano deciderà di acquistarlo, grazie alla mediazione del ministro Giacomo Acerbo, per collocarlo in uno dei saloni del palazzo del Governo della Provincia di Pescara, dove ancora oggi è esposto.

La lunga serie di consensi che arridono al M. sembra arrestarsi nel 1900 quando, per l’Esposizione universale di Parigi, il M. presenta due grandi tempere intitolate rispettivamente Le serpi e Gli storpi.

Di nuovo, l’artista trae ispirazione dal mondo religioso contadino, richiamandosi, nel primo dipinto, alla tradizionale festa di S. Domenico a Cocullo – in occasione della quale la statua del santo viene portata in processione ricoperta di serpenti– e, nel secondo, al triste pellegrinaggio degli infermi che, nella speranza di una grazia, si dirigevano al santuario di Casalbordino. Sebbene la preparazione dei due dipinti fosse stata complessa e faticosa, come sempre avveniva per le opere di grande formato, e nonostante le aspettative del M. che sperava in un altro successo, all’esposizione parigina le tele passano praticamente inosservate e restano purtroppo invendute. Per tale motivo l’artista le ritirerà tenendole poi arrotolate nel proprio studio e permettendone la visione a pochi intimi. Solo nel 1927 saranno esposte alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma e quindi acquistate dal ministero della Pubblica Istruzione. Oggi i due dipinti si possono ammirare nel Museo Michetti di Francavilla (Di Tizio, 2007, p. 372).

La critica ha spesso considerato la delusione ricevuta dal M. a Parigi il motivo principale del suo allontanamento dalla pittura a favore di un maggiore interesse per la fotografia e, negli ultimi anni della sua vita, anche per la cinematografia. In effetti, dopo l’esperienza parigina il M. non dipingerà più opere di grande formato, ma continuerà comunque costantemente a produrre piccoli dipinti, schizzi e disegni, soprattutto pastelli e tempere, oltre ad impegnarsi in attività «parallele» quali l’illustrazione libraria e la preparazione di bozzetti filatelici. Già nel 1895 aveva ricevuto l’incarico da parte della società Arti et Amicitiae, sostenuta dalla regina reggente d’Olanda, Emma di Waldeck-Pyrmont, di eseguire delle illustrazioni per un progetto editoriale di ampio respiro. Si trattava della pubblicazione della Bible par les plus grands artistes du monde entier – anche nota come Bibbia di Amsterdam – che, secondo il piano dei suoi ideatori, avrebbe dovuto essere illustrata da ventisei diversi pittori europei e tradotta in più lingue.

Il M. è chiamato a partecipare, forse anche grazie alla mediazione di Morelli già coinvolto nell’impresa, con sei scene tratte dal Nuovo Testamento: L’Annunciazione, Gesù scaccia i mercanti dal Tempio, Il miracolo degli apostoli, Saul accecato presso Damasco, La visione di Pietro e Paolo e Paolo e Sila. Benché portato a compimento, il progetto non ebbe tuttavia la grande diffusione sperata e lo stesso artista non rimase soddisfatto del lavoro eseguito, tanto che acconsentì a mostrare i propri disegni solo alla Mostra del Bianco e Nero organizzata a Roma nel 1902 (Di Tizio, 2007, pp. 384, 387).

Ben diversi risultati raggiunse invece lavorando per le Poste Italiane. Il M. aveva infatti cominciato a presentare dei bozzetti filatelici fin dal 1901, ma per varie ragioni le proposte del pittore non avevano mai raggiunto il definitivo completamento dell’opera in francobolli. Finalmente, nel 1905 l’amministrazione postale sceglie uno dei disegni approntati dal M. ed emette un francobollo da quindici centesimi, realizzato, per la prima volta nella storia della filatelia italiana, grazie alla tecnica calcografica (ibid., pp. 423 s.).

La lunga carriera artistica del M. è punteggiata dai numerosi incarichi e dalle onorificenze ricevute da diverse istituzioni.

Fu membro dell’Accademia Pontaniana di Napoli nel 1896, dell’Accademia romana di belle arti di S. Luca nel 1903, presidente onorario del comitato regionale per l’Esposizione pescarese nel 1911, membro della commissione ordinatrice della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma nel 1913, per limitarsi solo a un elenco parziale. Ma il riconoscimento indubbiamente più prestigioso gli giunge nel 1909, allorché venne nominato senatore del Regno.

Risale al 1910 l’ultima apparizione del M. ad una mostra pubblica. In quell’anno partecipa infatti alla IX Esposizione internazionale d’arte di Venezia con quindici paesaggi abruzzesi (tempere), esposti in una sala a lui riservata.

Ancora una volta il pittore ricorre soprattutto alla tempera giacché, come ricorda la testimonianza di Ugo Ojetti, che lo incontrò nella città lagunare, «adesso egli pensa che la sua tempera sia trasparente, maneggevole, definitiva, e solo per questo ha dipinto in poco tempo quindici paesaggi e ha accettato l’invito di Venezia e li ha esposti. Ha perduto molto tempo per far presto» (Ojetti, 1910, p. 404).

Negli ultimi anni, la pittura del M. sembra in effetti improntata a una deliberata rapidità di esecuzione che, nelle intenzioni dell’artista, riduce l’immagine alla sua essenza primaria, conferisce all’opera un autentico realismo e rende possibile il perfetto connubio fra la rappresentazione e il vero.

Di nuovo emerge qui il confronto ormai costante con gli studi fotografici: l’interesse del M. si concentra infatti non solo sulle nuove possibilità tecniche, ma si sforza di emancipare le inedite capacità espressive e testimoniali del mezzo fotografico. Attraverso la documentazione diretta e immediata garantita dalla fotografia e grazie alla sua possibilità di esaltare gli effetti di movimento – come si vede nella serie dedicata alla mattanza dei tonni ad Acireale del 1907 – il M. approda, nel secondo decennio del Novecento, alle esperienze cinematografiche, esperienze di cui, purtroppo, rimangono poche tracce. Il lungometraggio dedicato ai Volti d’Abruzzo e realizzato tra il 1923 e il 1925 è andato disperso, mentre restano solo alcuni frammenti cinematografici girati a Roma ed un breve documentario (Miraglia, 1977, p. 37).

Nel febbraio del 1929 il M. si ammala di broncopolmonite durante un soggiorno a Casoli, dove si era recato per far visita alla figlia Aurelia. Trasportato immediatamente nella sua casa di Francavilla a Mare, muore poco più tardi, il 5 marzo 1929.

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