Nitti, Francesco Saverio

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia (2012)

Francesco Saverio Nitti

Roberto Artoni

Francesco Saverio Nitti è stato economista e uomo politico. Come economista ha dato importanti contributi alla conoscenza della situazione sociale ed economica dell’Italia meridionale, inserendoli in una più vasta analisi dei problemi dello sviluppo dell’economia italiana. Sul piano teorico ha tratto ispirazione dalle correnti dottrinali prevalenti in Germania alla fine dell’Ottocento, come testimoniato dal suo manuale diffuso a livello internazionale. All’interno della sua attività politica, oltre a ricoprire importanti incarichi governativi durante la Prima guerra mondiale ed essere stato primo ministro nel biennio 1919-20, ha promosso provvedimenti legislativi che hanno profondamente innovato le modalità d’intervento del settore pubblico, sia nel campo delle infrastrutture sia nel settore assicurativo e finanziario.

La vita

Nato a Melfi il 19 luglio 1868 da famiglia piccolo borghese di tradizioni liberali, Nitti completò i suoi studi a Napoli dove si laureò in giurisprudenza nel 1890. Pubblicò prima della laurea un saggio sui problemi dell’emigrazione, in cui si dichiarava contrario al blocco dell’emigrazione, previsto da un disegno di legge del governo Crispi. Nel corso degli anni Novanta, adottò come riferimento analitico il socialismo ‘della cattedra’ tedesco, sostenendo in particolare la necessità dell’introduzione di un’organica legislazione sociale, intesa come strumento di conservazione dell’assetto esistente in opposizione al socialismo rivoluzionario.

Di particolare rilievo in quel periodo è l’inizio della direzione di «La riforma sociale», una rivista di grande spessore scientifico, aperta ai contributi internazionali, che divenne portavoce delle istanze interventiste di politica economica in opposizione al liberismo del «Giornale degli economisti».

Ottenne nel 1896 la cattedra universitaria presso la Scuola di Portici cui seguì nel 1899 il conferimento dell’insegnamento di scienza delle finanze nella facoltà di Giurisprudenza di Napoli.

Nel 1900 fu dato alle stampe Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97, dove si dimostrava che nel Mezzogiorno le spese statali non erano maggiori dei tributi raccolti. Seguì, sempre nel filone meridionalista, Napoli e la questione meridionale (1903), presupposto per la Legge speciale per Napoli approvata nel 1904, cui contribuì direttamente lo stesso Nitti. L’attività scientifica è stata poi caratterizzata dalla pubblicazione nel 1903 dei Principi di scienza delle finanze (opera nota anche come La scienza delle finanze), un manuale tradotto in numerose lingue, e nel 1905 di La conquista della forza, in cui si sosteneva che l’industrializzazione dell’Italia e la modernizzazione del Paese dovevano passare necessariamente, data la carenza di risorse minerarie, per un ampio utilizzo dell’energia elettrica ottenuta da fonti idriche.

Nel 1904 fu eletto deputato in un collegio della Basilicata. Nel 1911 ottenne il primo incarico ministeriale, come ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel governo Giolitti. In questa veste promosse la legge che portò alla creazione dell’Istituto nazionale delle assicurazioni (INA) nel 1912.

Ministro del Tesoro nel 1917 nel governo Orlando, ricoprì l’incarico di presidente del consiglio dal giugno 1919 al giugno 1920. Oggetto di intimidazioni e di violenze prima e dopo l’avvento del fascismo, nel 1923 Nitti andò in esilio con la sua famiglia, prima a Zurigo e poi a Parigi. In questo periodo, oltre all’attività antifascista, pubblicò numerosi lavori politologici di ispirazione liberaldemocratica. Dopo essere stato internato dai nazisti in Austria dal 1943 al 1945, rientrò in Italia, dove fu deputato all’Assemblea costituente e poi senatore. Morì a Roma il 20 febbraio del 1953.

Il quadro metodologico

Francesco Saverio Nitti ha occupato una posizione di particolare rilievo nell’elaborazione della teoria e delle politiche economiche all’inizio del Novecento. In contrapposizione alle tesi liberiste, si è opposto con vigore a quella che egli denominava

scuola individualistica, la quale pretendeva che il semplice agire delle forze economiche tenda a stabilire l’equilibrio fra la produzione e il consumo, a far coincidere il prezzo e il costo dei prodotti, ad attuare la legge del minimo mezzo, quando vede nella realtà avvenire il contrario (La scienza delle finanze, 1903-1936, in Id., Edizione nazionale delle Opere, Scritti di economia e finanza, 4° vol., a cura di F. Forte, 1972, p. 58).

Anche alla luce del lungo periodo di difficoltà economiche che avevano caratterizzato a livello internazionale l’ultima parte dell’Ottocento e in forte assonanza con le linee interpretative sviluppate in Germania dai socialisti ‘della cattedra’ (V. Cusumano, Le scuole economiche della Germania, 1875), Nitti riteneva al contrario che nella società moderna ai tre principi della responsabilità individuale, della concorrenza sfrenata e della lotta fra individui e classi sociali si dovessero sostituire tre altri principi: responsabilità sociale, giustizia sociale e arbitrato sociale (Artoni 1985).

Dall’impostazione generale delineata discende una prima fondamentale conseguenza riguardante il ruolo dello Stato: lo Stato non può essere considerato l’antitesi dell’individuo. Nitti scriveva infatti che «non è che ogni forma di attività dello stato sia una diminuzione della libertà individuale; ne rende spesso possibile l’applicazione» (La scienza delle finanze, cit., p. 53), con ciò anticipando molte tematiche che nel secondo dopoguerra sarebbero state collegate alla realizzazione dei diritti di cittadinanza.

Tuttavia, rifiutando concezioni cui i teorici tedeschi hanno fatto ampio e ingiustificato uso, «lo Stato etico non è che un’astrazione la quale non ha riscontro nella realtà». Infatti,

lo stato non ha missioni da compiere, né è al di sopra degli individui. Lo stato è una forma naturale di cooperazione sociale; nessuno sviluppo dell’individuo è possibile senza questa forma prima e più importante di cooperazione sociale (La scienza delle finanze, cit., p. 51).

Se Nitti rifiuta alcune tesi proprie dell’ambiente culturale tedesco (pur condividendo nella sostanza le indicazioni di politica economica) è ugualmente negativo nei confronti del darwinismo sociale, allora reso particolarmente influente dall’opera di Herbert Spencer:

il dire che lo Stato e le società sono governati dalle stesse leggi, le quali regolano gli organismi, non può che essere un’analogia. Infatti tutte quelle teorie le quali, mettendo a base la rassomiglianza fra la società, e gli organismi viventi, fanno derivare da questa rassomiglianza leggi e rapporti relativi allo sviluppo e all’avvenire della società non solo non hanno alcun fondamento, ma si può dire che spesso abbiano contribuito ad accrescere il disordine (La scienza delle finanze, cit., p. 55).

Lontano, quindi, sul piano teorico dagli opposti estremismi dello Stato etico tedesco e del darwinismo sociale anglosassone, Nitti si colloca in una posizione di positivismo empirico (Barbagallo 1984, p. 163), in base al quale, evitando di adattare schemi determinati a una realtà in movimento o di abusare del metodo deduttivo, «se le teorie sono contro i fatti, non è a questi ultimi che bisogna dar torto» (La scienza delle finanze, cit., p. 85).

Proprio per questa sua impostazione fondamentalmente antidogmatica, Nitti non può definirsi né statalista, né liberista, avendo continuamente oscillato nel corso della sua vita fra queste due visioni, pur rimanendo sempre fedele alla concezione originaria dello Stato come strumento essenziale per lo sviluppo della società:

poiché lo Stato è la maggiore forma di cooperazione sociale, lo Stato può avere sullo sviluppo della società un’azione grandissima: le più grandi opere collettive sono compiute mediante esso. Ma nessuna azione collettiva può prodursi senza che si svolgano tante attività individuali: le ricchezze di cui lo stato dispone sono prodotte dagli individui (La scienza delle finanze, cit., p. 52).

[…] se l’azione dello Stato non può ridursi ad un minimo dati i caratteri della produzione moderna, non si deve cadere nell’errore opposto, di avere eccessiva fiducia nell’azione dello Stato. Si deve valutare la convenienza economica relativa di Stato e privati (p. 61).

La scienza delle finanze

Il profilo intellettuale di Nitti può essere ulteriormente precisato sulla base dei contributi alla scienza delle finanze sintetizzati nel suo manuale, pubblicato in una prima edizione nel 1903.

Nitti, in quanto scienziato delle finanze, è fortemente critico nei confronti di quella che sarebbe stata denominata scuola sociologica, la quale traeva origine da Spencer, ma che nei primi decenni dell’Ottocento fu fortemente influenzata dai lavori economici e sociologici di Vilfredo Pareto: nella formulazione di uno dei suoi più illustri esponenti il fenomeno finanziario è

un fenomeno generale di circolazione della ricchezza fra i gruppi governanti e governati degli aggregati sociali, il risultato di pressioni e reazioni, le cui leggi si riallacciano evidentemente a quelle dei fenomeni politici e sociologici, ed hanno contenuto ben diverso dalle leggi economiche (M. Fasiani, La teoria della finanza pubblica in Italia [1932], in Il pensiero economico italiano 1850-1950, a cura di M. Finoia, 1980, p. 165).

La caratterizzazione dello Stato come maggiore forma di cooperazione sociale, già richiamata, risultava evidentemente incompatibile con una concezione che riconduceva la vita associata a una contrapposizione sistematica, di natura fondamentalmente predatoria, fra governanti e governati.

Nello stesso tempo Nitti non si allineò mai con la scuola volontaristica, rappresentata da Antonio De Viti de Marco e Luigi Einaudi, che interpretava la finanza pubblica con gli schemi razionalistici dell’economia politica, per la quale il fenomeno finanziario tende a svolgersi nel tempo secondo un calcolo di sacrifici e di utilità, di pene e di convenienze. Oltre a fare ampio ricorso al metodo deduttivo, questa scuola concentrava di fatto l’attenzione sul lato delle entrate del bilancio, ritenendo livello e composizione della spesa il risultato della forma politica e delle condizioni economiche e sociali di un Paese. Nell’impostazione di De Viti de Marco ed Einaudi le spese pubbliche erano di fatto un dato per lo studioso di finanza pubblica.

Nitti, al contrario, riteneva che il fenomeno delle spese pubbliche fosse antecedente e comunque in stretta relazione con quello delle entrate. Più precisamente, e qui sta l’elemento di maggiore originalità della sua produzione scientifica, l’analisi della composizione delle spese pubbliche e delle cause che ne determinano l’evoluzione nel corso del processo storico è prioritaria rispetto all’individuazione delle forme più appropriate di finanziamento, che potranno essere o entrate tributarie o proventi del demanio o utili d’imprese pubbliche.

L’espansione delle spese pubbliche

Lo studio della composizione della spesa pubblica e delle sue variazioni, sulla scorta dei lavori di Adolph Wagner (1835-1917), il più influente socialista ‘della cattedra’, occupa una significativa parte del manuale. Nitti prende le mosse da un dato empirico inoppugnabile: il forte aumento delle spese pubbliche in termini reali verificatosi a partire dalla metà dell’Ottocento, per cause di natura assai differente. Si è in primo luogo verificato un continuo e incessante aumento delle spese militari: «In passato si facevano molte più guerre: ma si spendeva molto meno; le armi moderne sono quasi sempre costosissime». Nell’ultima edizione del manuale si fa un accenno alla Prima guerra mondiale, definita più che una guerra «un cataclisma sociale, che ha sconvolto tutta l’Europa, deprimendone per lungo tempo le condizioni della esistenza» (La scienza delle finanze, cit., p. 113).

La seconda causa di crescita delle spese pubbliche è costituita dai grandi lavori pubblici riconducibili all’impiego del vapore e dell’elettricità come forze motrici, che hanno indotto una trasformazione inimmaginabile solo pochi anni prima. In tutti i Paesi sviluppati lo Stato ha costruito, oltre alle strade pubbliche, estesissime reti ferroviarie e telegrafiche.

La terza causa di incremento è costituita dai debiti pubblici. Se è vero che molte spese possono essere finanziate solo con il ricorso all’indebitamento, si deve tenere presente, scrive Nitti, che

i pericoli del debito sono tanti che è buona norma di politica finanziaria di sopperire anche alle spese straordinarie con entrate ordinarie, salvo la eccezione delle opere sicuramente produttive. Il male è che nella pratica si abusa dei debiti per costruire molte, spesso troppe ferrovie, che non hanno carattere industriale, ma qualche volta, addirittura elettorale (La scienza delle finanze, cit., p. 164).

All’espansione della spesa pubblica ha poi contribuito lo sviluppo di tutte le forme di prevenzione sociale. Se in passato si curavano i problemi sociali nel momento in cui si manifestavano, lo sviluppo delle conoscenze scientifiche, soprattutto nel campo igienico e sanitario, ha sollecitato azioni indirizzate alla prevenzione dei mali sociali. Nell’opinione di Nitti queste azioni di prevenzione non potevano essere affidate all’iniziativa privata, ma dovevano essere prese dallo Stato o dagli enti collettivi minori.

Infine, la partecipazione sempre crescente delle classi popolari alla vita pubblica ha fatto sì che molte attività, tradizionalmente trascurate, siano diventate di competenza pubblica, quali le spese per l’istruzione obbligatoria e la cultura popolare, o le spese d’igiene e di previdenza sociale e le assicurazioni obbligatorie. Anticipando eventi e tendenze dei decenni successivi, Nitti concludeva la sua analisi dei fattori di crescita della spesa pubblica fra l’Ottocento e il Novecento, sottolineando che «la estensione del principio sociale nella politica degli Stati moderni non è ultima causa dell’accrescimento grandissimo delle spese» (La scienza delle finanze, cit., p. 164).

Al di là dell’individuazione delle cause immediate che hanno portato all’espansione della spesa pubblica, Nitti propone un’interpretazione sostanziale della destinazione da parte delle società moderne di masse ingenti, e almeno fino a quel punto crescenti, di ricchezza alla vita collettiva. Fondamentalmente, le modalità produttive prevalenti hanno determinato, attraverso una sempre più accentuata divisione del lavoro, una più grande specializzazione delle funzioni con effetti radicali su tutti i rapporti sociali. Si sono di conseguenza rafforzati i rapporti di mutua dipendenza fra le parti e il tutto o, nella terminologia di Nitti, una più grande solidarietà. Questa maggiore solidarietà, da un lato, «rendendo più stretti i rapporti fra gli uomini, permette uno sviluppo di libertà che altrimenti non sarebbe stato possibile» (La scienza delle finanze, cit., p. 40); dall’altro, un’azione sempre più articolata delle autorità pubbliche ha determinato la destinazione alla vita collettiva di masse ingenti di ricchezza. È poi vero che l’azione individuale è generalmente inadeguata per la soddisfazione dei bisogni collettivi storicamente determinati.

Le prospettive dell’economia italiana

L’analisi accademica di Nitti è sempre inserita in un esame molto attento delle realtà e delle prospettive dell’economia italiana. Alla questione meridionale egli ha dedicato numerosi contributi pionieristici nella raccolta e nell’elaborazione delle informazioni. Dai suoi studi spicca la situazione di grave arretratezza in cui si trovavano le regioni meridionali, ma emerge anche un indebolimento relativo rispetto alle regioni settentrionali nei decenni successivi all’unificazione. Oltre alle carenze morali e sociali che sistematicamente caratterizzano le classi dirigenti di tutte le aree arretrate, alcune scelte di politica economica, a giudizio di Nitti, hanno contribuito al mantenimento e all’aggravamento dello stato di arretratezza del Sud dell’Italia: l’elevatezza della pressione fiscale, rispetto al reddito meridionale, cui ha peraltro corrisposto una distribuzione della spesa pubblica che ha favorito le regioni settentrionali; una politica doganale che ha tutelato la nascente industria del Nord e danneggiato l’agricoltura del Sud; la vendita dei beni demaniali che ha drenato risorse finanziarie dal Sud, destinandole di fatto allo sviluppo dell’Italia Settentrionale. Sono questi i fattori che a suo parere hanno inciso negativamente sulle possibilità di sviluppo delle regioni meridionali, e che ogni politica responsabile avrebbe dovuto, dai primi anni del Novecento, circoscrivere attivando manovre economiche appropriate (Barbagallo 1987).

Le politiche appropriate si risolvevano nell’esigenza di avviare su scala nazionale un significativo processo d’industrializzazione. L’Italia, nella descrizione di Nitti, è un Paese povero di materie prime, in cui le condizioni naturali per la conformazione del territorio sono cattive. D’altro canto,

le ragioni per cui l’Italia è oggi di secondo ordine vanno cercate non in una pretesa decenza della razza, ma nelle mutate sorti della produzione (dalle risorse umane al commercio per via marittima l’Italia era favorita). Oggi la ricchezza mineraria è decisiva. Senza risorse minerarie e fuori dai grandi traffici l’Italia è vissuta quasi esclusivamente di agricoltura (La conquista della forza, 1905, in Id., Scritti di economia e finanza, 3° vol., a cura di D. Demarco, 1966, p. 9).

Ma l’Italia, se voleva collocarsi nel novero dei Paesi più sviluppati, non poteva che essere simultaneamente industriale e agricola. Di qui la famosa proposta di Nitti del 1905 (visionaria e suggestiva al tempo stesso) di sopperire alla mancanza di carbone e ferro conquistando una forza motrice prodotta all’interno del Paese. La sostituzione della forza idraulica a quella del vapore «permetterà di utilizzare quelle che parevano le nostre inferiorità: il suolo accidentato e le frequenti cadute d’acqua» (La conquista della forza, cit., p. 18). Affermava anche che

il problema della sostituzione dell’energia elettrica a quella del vapore è il più grande problema nazionale, interessando le basi stesse della produzione e tutto l’avvenire dell’industria, dell’agricoltura e degli scambi (La conquista della forza, cit., p. 62).

In altro contesto e con altri riferimenti tecnologici le stesse tematiche sarebbero ricomparse nel periodo della ricostruzione successivo alla Seconda guerra mondiale, all’avvio del secondo, grande periodo di sviluppo industriale del nostro Paese dopo quello giolittiano. Tutto ciò testimonia se non altro la grande propensione alla lettura dei problemi economici concreti da parte di Nitti. Questa propensione trovò una prima manifestazione nella legge speciale per Napoli, approvata nel 1904, dove l’obiettivo era uno sviluppo locale di tipo industriale fondato sulla grande impresa, ma sostenuto da agevolazioni fiscali e dal controllo pubblico delle fonti d’energia e delle risorse idriche.

Problema centrale era quello delle acque pubbliche, da cui finiva per dipendere tutta la complessa strategia di rinnovamento agro-industriale per il mezzogiorno e per Napoli: produzione della forza motrice a buon mercato, bonifiche, irrigazione, trazione elettrica, sistemazione dei fiumi, malaria (Barbagallo 1987, p. XXVII).

A conclusione di questo punto deve essere ricordato che il problema della vocazione produttiva dell’Italia fu ampiamente dibattuto in quegli anni. L’opinione di Nitti, come abbiamo visto, è che solo lo sviluppo industriale avrebbe garantito il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, non essendo possibile trovare la soluzione dei problemi della diffusa povertà in un settore agricolo orientato alle esportazioni. Ne conseguiva anche una valutazione non del tutto negativa delle politiche di protezione doganale seguite dall’Italia, ma in buona misura adottate da tutti i Paesi con l’eccezione dell’Inghilterra (che peraltro controllava un vasto impero). Se è vero che in linea di principio il regime di libero scambio produce i maggiori vantaggi, è altrettanto vero, a dimostrazione del tipico antidogmatismo di Nitti, che non si potevano formulare regole rigide di politica economica. Riprendendo in buona misura l’argomento delle industrie nascenti, agevolmente applicabile all’Italia postunitaria, «vi sono casi non pochi in cui il libero scambio può risultare dannoso allo sviluppo di una nazione; impoverirla delle sue risorse, impedirle ogni sviluppo futuro» (La scienza delle finanze, cit., p. 699).

Gli strumenti

Stabilito che nelle società moderne una rilevante e tendenzialmente crescente quota della ricchezza nazionale era ed è destinata a finalità collettive per larga parte determinate dallo sviluppo economico e sociale degli ultimi decenni e che l’Italia, in particolare, avrebbe potuto circoscrivere arretratezza e povertà solo con un processo di modernizzazione delle strutture produttive, Nitti ha logicamente affrontato il problema di individuare gli strumenti più adatti per raggiungere gli scopi di rinnovamento sociale ed economico che a suo giudizio la classe politica si doveva proporre.

Studiare quanta ricchezza vada destinata alla vita dell’insieme, in quale forma queste ricchezze vadano riscosse, quale sia il modo più conveniente per le economie private di contribuire alla vita dell’insieme, quali effetti porti l’estensione del sacrificio che ciascuna economia privata deve compiere sullo sviluppo della produzione è l’oggetto della scienze delle finanze (La scienza delle finanze, cit., p. 44),

ma anche, aggiungiamo, di qualunque politica economica consapevole. Questi temi, ampiamente trattati nei Principi possono essere organizzati nei seguenti capitoli: demanio pubblico, legislazione sociale, sistema tributario e burocrazia.

Il demanio pubblico

Due componenti del demanio pubblico sono oggetto di particolare attenzione da parte di Nitti; il demanio boschivo e quello idrico, con spunti che di nuovo sono ancora oggi attuali. La funzione dei boschi era ed è importantissima dal punto di vista idrologico e climatico, oltre che per la produzione di energia elettrica di origine idrica. Infatti tutti i Paesi o hanno sviluppato il loro patrimonio boschivo o hanno introdotto vincoli ai disboscamenti dannosi. Ma aggiunge Nitti: «E in Italia è stato non poco male la vendita tumultuaria fatta dallo Stato» (La scienza delle finanze, cit., p. 277).

Con riferimento alla seconda componente, l’Italia era ed è caratterizzata da un elevato livello di forze idriche che nella visione di Nitti, come già osservato, costituisce un prerequisito essenziale per l’avvio di un processo di sviluppo dell’industria e di modernizzazione dell’agricoltura. Si tratta, però, di una proprietà collettiva che richiede un intervento pubblico sotto forma di nazionalizzazione, non essendo in generale adeguata l’iniziativa privata. Nella sua visione non rigidamente statalista, Nitti sottolinea tuttavia che

nella nazionalizzazione delle energie idrauliche lo Stato non deprime alcuna attività individuale in quanto non esercita, né protegge l’industria: esso fornisce la forza come può fornire la strada, cioè il mezzo (La scienza delle finanze, cit., p. 280).

In questo caso, come in altri riguardanti i rapporti intercorrenti fra intervento pubblico e attività economica privata, deve risultare evidente il ruolo strumentale che hanno sempre le ipotesi di intervento statale: l’azione pubblica si giustifica solo in quelle circostanze in cui per eredità storiche negative, per carenze di risorse naturali o per ritardi rispetto agli altri Paesi le potenzialità dei privati sono inadeguate. Ne deriva altresì che l’intervento pubblico dovrebbe essere circoscritto temporalmente e settorialmente.

La legislazione sociale

Abbiamo già osservato che nell’opinione di Nitti le società moderne dovrebbero essere guidate dai tre principi dell’arbitrato sociale (qui il riferimento è all’atteggiamento che dovrebbero assumere i governi nei conflitti fra datori di lavoro e lavoratori, favorendo gli accordi sindacali senza privilegiare una parte e attenuando per questa via i conflitti di classe conformemente alla politica seguita dai governi Giolitti nei primi anni del Novecento), della giustizia sociale (su questo punto ci soffermeremo in seguito) e della responsabilità sociale. Sulla base di quest’ultimo principio si richiede l’adempimento da parte di privati ed enti pubblici di tutti i doveri che, se non rispettati, peggiorerebbero lo stato della società. Vi rientrano ovviamente tutti gli interventi che o impediscono la degradazione della popolazione o di parte di essa, come la legge sul lavoro dei fanciulli e delle donne e sull’igiene e la sicurezza dei luoghi di lavoro, o sottraggono le classi lavoratrici a situazioni di bisogno derivanti da infortunio, vecchiaia o invalidità.

A questi temi sono dedicate alcune pagine del manuale, dove sono evidenziati due aspetti. In primo luogo, si sottolinea che i grandi rischi sociali non possono essere affrontati individualmente:

anche l’operaio più previdente può senza sua colpa essere travolto da una macchina; anche l’operaio più abile può, dopo alcuni mesi di malattia ridursi nella indigenza. Infine, la vecchiaia è generalmente minacciosa per i lavoratori. In secondo luogo, è interesse della società provvedere a questi rischi del lavoro; qualche volta è savio calcolo. La società moderna non può espellere gli elementi decaduti […]: ora è molto più savio evitare la decadenza (La scienza delle finanze, cit., p. 280),

recependo in questa maniera gli insegnamenti della legislazione tedesca del 1883.

Le considerazioni contenute nel manuale costituiscono la sintesi di un fondamentale dibattito svoltosi a cavallo del secolo sugli effetti dell’introduzione di un compiuto sistema di sicurezza sociale nel nostro Paese (Artoni 1985). Da un lato, gli economisti liberisti raccolti intorno al «Giornale degli economisti» si opponevano con forza allo sviluppo di istituti che coprissero i rischi di infortunio, vecchiaia e malattia. L’argomento di fondo era tipicamente spenceriano e riconducibile ai temi del darwinismo sociale.

Nella formulazione particolarmente esplicita di Pantaleoni (ma le posizioni di De Viti de Marco e di Pareto non erano sostanzialmente diverse)

lo sviluppo delle provvidenze sociali è indice del restringimento della sfera economica a favore di quella politica o parassitaria con effetti certamente negativi sugli incentivi all’iniziativa individuale. Infatti, è suddiviso tutto il mondo industriale in gruppi che lottano contro altri gruppi […] Ma havvi un déchet sociale, una specie di scoria sociale, che va eliminata e che la selezione elimina dal corpo sociale (M. Pantaleoni, Erotemi di economia, 1° vol., 1925, pp. 335 e 265),

sempre che non intervengono ostacoli artificiali allo sviluppo dei meccanismi concorrenziali, quali quelli tipicamente contenuti nei sistemi di sicurezza sociale.

La posizione di Nitti e degli scienziati sociali che contribuirono sistematicamente alla «Riforma sociale» era radicalmente diversa. Ma, oltre che da considerazioni attinenti all’impossibilità individuale di coprirsi dai rischi sociali (che saranno alla base dello sviluppo dello Stato sociale nel secondo dopoguerra nei Paesi europei), le sollecitazioni allo sviluppo di un moderno sistema di provvidenze sociali erano ricollegate anche alle trasformazioni in corso nel sistema produttivo italiano. Il miglioramento della qualità della forza lavoro (cui doveva provvedere il sistema di istruzione pubblica) richiedeva, in una realtà che progressivamente si industrializzava e si urbanizzava, allontanandosi dai tradizionali riferimenti tipici del mondo agricolo, un adeguato grado di coesione sociale o la realizzazione del principio della responsabilità sociale attraverso l’introduzione nel nostro Paese di istituti già sperimentati altrove.

Anche se il dibattito su questi temi fu allora particolarmente vivace e le istanze riformistiche autorevoli, non si deve pensare che le realizzazioni siano state particolarmente significative. Solo nel 1898 fu introdotta l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro nell’industria, estesa nel 1917 al settore agricolo. Nel 1919 venne introdotto l’obbligo di assicurazione di invalidità e vecchiaia dei lavoratori subordinati, dopo il fallimento di un analogo istituto in cui l’iscrizione era volontaria. Infine, con una legge del 1926 fu avviato a soluzione il problema dell’assicurazione contro le malattie.

Il sistema tributario

La realizzazione della giustizia sociale richiede come elemento fondamentale un sistema tributario equo. Ovviamente l’equità non è un concetto astratto, ma deve essere collegato alle caratteristiche dei singoli Paesi. Ricordando le cautele con cui Nitti giustificava il ricorso all’indebitamento pubblico, il livello della pressione tributaria dipendeva, da un lato, dalla delimitazione delle spese pubbliche superflue (tipicamente quelle militari) e, dall’altro, dalla definizione degli interventi necessari per promuovere lo sviluppo economico e la modernizzazione del Paese.

Sui temi tributari l’elaborazione di Nitti si fonda su un’accurata analisi dei dati allora disponibili sulla distribuzione del reddito (e delle sue variazioni) riguardanti numerosi Paesi. Ne risultava che la distribuzione dei redditi presentava una regolarità assai grande: i redditi superiori non formavano che una piccola parte del reddito nazionale, cui corrispondeva una tendenza dei redditi medi a svilupparsi nel numero e nella loro importanza relativa, e di quelli minimi, la gran massa, a diminuire. Tutto ciò consentiva a Nitti di rifiutare la tesi marxiana della progressiva proletarizzazione delle masse, associata alla concentrazione delle ricchezze:

non solo non vi è il minaccioso accentramento; ma la ricchezza tende sempre più a ripartirsi largamente. La condizione delle classi operaie si eleva il popolo partecipa alla distribuzione della ricchezza in misura sempre crescente (La scienza delle finanze, cit., p. 174).

Nello stesso tempo, in piena aderenza ai canoni del positivismo empirico, ridimensionava la portata della cosiddetta legge di Pareto sulla distribuzione dei redditi: anche se si riscontra nella realtà una certa uniformità nella distribuzione spaziale e temporale dei redditi, Nitti è lontano «dal credere che la normalità constatata risponda ad un rapporto di necessità» (La scienza delle finanze, cit., p. 191).

Egli attribuisce al sistema tributario quasi esclusivamente il compito di garantire allo Stato i mezzi per finanziare le spese pubbliche; è al contrario molto diffidente nei confronti dell’uso delle imposte come strumento di redistribuzione del reddito, sia in generale, sia nella concreta applicazione italiana. Infatti,

l’imposta non può mutare l’organismo sociale di cui è essa stessa un’emanazione, può essere un utile strumento di riforme sociali, attutire gli abusi più dannosi, compensare le ingiustizie più stridenti (La scienza delle finanze, cit., p. 455).

Di conseguenza, un certo grado di progressività del sistema d’imposizione diretta era auspicabile, ma doveva essere ottenuto con l’esenzione dei redditi minimi e con regimi di favore per i carichi familiari (oltre che con l’attenuazione delle imposte sui consumi necessari), ma non con aliquote espropriatici.

Nel campo dell’imposizione diretta, si può affermare che i sistemi tributari dei Paesi sviluppati si sono avvicinati alle indicazioni di Nitti (esentando i redditi di capitale forse al di là di quanto da lui auspicato). Con qualche limitata eccezione, i sistemi tributari non hanno peraltro visto la prevalenza dell’imposizione diretta come si sosteneva essere auspicabile all’inizio del secolo scorso, essendosi in generale il gettito complessivo tripartito in modo relativamente equilibrato fra imposte dirette, imposte indirette e contributi sociali. Se poi si assimilano i contributi sociali all’imposizione indiretta, sembra confermata la tesi nittiana delle necessità di ricorrere a forme di prelievo ad alta produttività.

La burocrazia

Abbiamo più volte sottolineato che alla base dell’analisi di Nitti sta la convinzione che il superamento dello stato di arretratezza e di povertà dell’Italia richiedeva la modernizzazione di tutto l’apparato produttivo. Oltre a un’adeguata valorizzazione delle risorse naturali, all’introduzione di una legislazione sociale moderna e di un sistema tributario tendenzialmente equo era necessario che lo Stato italiano si dotasse di una burocrazia, tecnicamente preparata e dotata di strumenti d’intervento efficaci. Non appariva più sufficiente una burocrazia solo ministeriale, quale quella che aveva guidato il Paese nei decenni successivi all’Unificazione (sia pure con risultati certamente non disprezzabili); le nuove esigenze imponevano al contrario la ricerca di aggiornate forme organizzative al servizio di una moderna politica economica.

Accanto all’amministrazione ordinaria di tipo ministeriale si svilupparono infatti, sulla base di interventi legislativi in deroga e su ispirazione determinante di Nitti e dei suoi collaboratori, amministrazioni parallele che hanno consentito una maggiore funzionalità all’azione pubblica in alcuni fondamentali settori d’intervento, superando l’uniformità legislativa dei decenni precedenti.

La legislazione speciale dei primi del Novecento nelle regioni meridionali [...] o la nascita di enti autonomi come l’Acquedotto pugliese ebbero un carattere fortemente innovativo, e fecero parte di quella fecondità amministrativa che in Italia come in altri paesi caratterizzò la crescita delle funzioni e dell’impegno pubblico, e si espresse soprattutto nelle forme privatistiche attribuite alla gestione di servizi nazionali e locali (D’Antone 1997, p. 583).

Lo spirito innovativo di Nitti e del suo più stretto collaboratore, Alberto Beneduce (1877-1944), si manifestò anche nella creazione di grandi istituti assicurativi e finanziari, quali l’INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni) nel 1912 e il Crediop (Consorzio di credito per le opere pubbliche) e l’Icipu (Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità) nel primo dopoguerra, con lo scopo di raccogliere risorse finanziarie sul mercato dei capitali e di indirizzarle sia al finanziamento del Tesoro sia a iniziative in settori strategici per lo sviluppo del Paese.

Su natura e ruolo dell’INA Nitti si sofferma a lungo nel suo manuale, inserendoli nel più vasto tema del monopolio pubblico delle assicurazioni sulla vita. Con l’assunzione del monopolio lo Stato non doveva perseguire finalità di gettito o fiscali, imponendo premi superiori a quelli attuarialmente equi: «l’assicurazione è necessità individuale e sociale insieme: ostacolarne l’esercizio, arrestarne la diffusione, mantenendo elevati i premi sarebbe errore e colpa» (La scienza delle finanze, cit., p. 789).

Non è d’altra parte pensabile di utilizzare il monopolio delle assicurazioni per risolvere, come allora si era ventilato, il problema del finanziamento delle pensioni operaie; le dimensioni dell’intervento avrebbero trasceso tutti i possibili utili del monopolio, a premi equi. Lo scopo di un monopolio pubblico delle assicurazioni della vita non poteva quindi che essere la promozione e la diffusione dello spirito di previdenza con gestioni più avvedute e meno costose di quelle tipiche delle compagnie private e con una garanzia pubblica delle prestazioni. Nello stesso tempo le riserve finanziarie, nel quadro di una gestione ispirata a criteri di economicità, avrebbero potuto essere impiegate in modo proficuo per l’economia nazionale. Si può qui solo ricordare che il disegno originario di attribuzione a una compagnia pubblica del monopolio sulle assicurazioni sulla vita subì un drastico ridimensionamento nel 1923, poco dopo l’avvento del regime fascista: Nitti scrive «che l’istituto è stato abbattuto nel suo pieno rigoglio» (La scienza delle finanze, cit., p. 796).

Una sintesi

Non è agevole formulare una valutazione sintetica di una personalità poliedrica e complessa quale è quella di Nitti. Soffermandoci sulla sua figura di economista e ignorando la sua azione strettamente politica, i criteri di giudizio devono essere articolati.

Sul piano della ricerca accademica non vi è dubbio che Nitti sia stato completamente eclissato dagli economisti liberisti, a lui sistematicamente contrapposti. Nel campo della scienza delle finanze, come generale riflesso dell’evoluzione dell’economia politica, il metodo deduttivo ha finito per prevalere totalmente con conseguente emarginazione dell’impostazione più problematica e meno generalizzante tipica del germanesimo economico (dalla scuola storica al socialismo ‘della cattedra’). Oggi nella letteratura sono ancora presenti riferimenti a De Viti de Marco, a Pantaleoni e, sia pure in un quadro meno analitico, a Einaudi, mentre Nitti, complice anche il suo lungo esilio durante il fascismo, è sul piano accademico totalmente ignorato. Le precedenti considerazioni suscitano ovviamente il problema della definizione di criteri appropriati per la valutazione della ricerca economica, dovendosi scegliere se privilegiare il rigore e la coerenza delle deduzioni da pochi principi generalissimi o la capacità di lettura e d’interpretazione dei fenomeni sociali ed economici.

Diverso deve essere il giudizio retrospettivo su Nitti quando lo si valuta, appunto, nella sua capacità d’interpretazione della realtà attraverso l’utilizzo di tutte le informazioni storiche, sociologiche e comparative disponibili. Non a caso Nitti, in un passo del suo manuale, afferma che la scienza delle finanze non è una scienza, ma un’arte, dove l’arte ha una funzione fondamentalmente precettiva. Sotto questo profilo, credo che si possa affermare che Nitti è stato un notevole artista: le sue indagini sul Mezzogiorno o i suoi tentativi di collegare il ruolo degli istituti di finanza pubblica ai problemi dello sviluppo dell’economia italiana in quelle specifiche circostanze storiche costituiscono, a mio giudizio, al di là degli specifici risultati, un significativo esempio.

D’altro canto, l’impostazione nittiana è chiaramente riconoscibile in un lungo periodo della storia dell’economia italiana e della politica economica del nostro Paese sia per l’azione dei suoi diretti collaboratori nel periodo fascista e nel secondo dopoguerra, sia per la rilevanza delle tematiche da lui enucleate (dal ruolo integrativo o sostitutivo dell’iniziativa privata da parte dell’operatore pubblico, all’attenzione alle problematiche distributive, alla capacità di definire soluzioni istituzionali innovative). Sia pure in un contesto tendenzialmente, ma non totalmente, sovranazionale queste tematiche, con la connessa ricerca di soluzioni appropriate, continuano a essere di assoluta rilevanza.

Opere

L’Edizione nazionale delle Opere di Francesco Saverio Nitti è stata curata dalla casa editrice Laterza di Bari. Si tratta di 17 volumi divisi in tre sezioni: Scritti sulla questione meridionale (1958-1978), Scritti politici (1959-1980) e Scritti di economia e finanza (1960-1972). Fra questi, in particolare, si segnalano:

Da Scritti sulla questione meridionale:

Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97 (1900), 2° vol., a cura di A. Saitta, 1958.

Napoli e la questione meridionale (1903), 3° vol., a cura di M. Rossi-Doria, 1978.

Da Scritti di economia e finanza:

La scienza delle finanze, 1903-1936, 4° vol., a cura di F. Forte, 1972.

La conquista della forza (1905), 3° vol., t. 2, a cura di D. Demarco, 1966.

Da Scritti politici:

La democrazia (1933), 12° vol., 2 tt., a cura di L. Firpo, Bari 1976.

Si veda inoltre:

Il Mezzogiorno in una democrazia industriale: antologia degli scritti meridionalistici, a cura di F. Barbagallo, Bari 1987.

Bibliografia

A. De Viti de Marco, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Roma 1930.

F. Forte, Prefazione a F.S. Nitti, La scienza delle finanze, 1903-1936, in Id., Edizione nazionale delle Opere, Scritti di economia e finanza, 4° vol., a cura di F. Forte, Bari 1972.

F. Barbagallo, Francesco Saverio Nitti, Torino 1984.

R. Artoni, Gli economisti e le origini della sicurezza sociale, «Rivista di storia economica», 1985, 2, pp. 211-35.

F. Barbagallo, Introduzione a F.S. Nitti, Il Mezzogiorno in una democrazia industriale: antologia degli scritti meridionalistici, a cura di F. Barbagallo, Bari 1987.

L. D’Antone, Straordinarietà e stato ordinario, in Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, a cura di F. Barca, Roma 1997.

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