NITTI, Francesco Saverio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)

NITTI, Francesco Saverio

Giuseppe Barone

NITTI, Francesco Saverio. – Nacque a Melfi (Potenza), il 19 luglio 1868 da Vincenzo e da Filomena Coraggio.

La famiglia aveva salde convinzioni antiborboniche e democratiche. Il nonno paterno, medico di tendenze liberali e unitarie, era stato ucciso nel 1861 a Venosa e la sua casa incendiata dai briganti di Carmine Crocco, che prima era stato soldato borbonico poi garibaldino. Il padre, Vincenzo, aveva partecipato come volontario garibaldino, nel 1860 e col grado di caporale, alle battaglie di Capua e del Volturno.

Compiuti i primi studi nel paese natale, frequentò il ginnasio a Melfi e il liceo a Napoli, dove si trasferì nel 1883. Conseguì la laurea in giurisprudenza nel 1890 nell’Ateneo partenopeo, in cui entrò in contatto con docenti prestigiosi come Federico Persico (diritto amministrativo), Giorgio Arcoleo (diritto costituzionale) e Francesco Scaduto (diritto ecclesiastico). Grazie a queste amicizie influenti e a quelle del padre (soprattutto Giustino Fortunato ed Ettore Ciccotti) da studente universitario avviò un’intensa attività giornalistica nel Corriere di Napoli e come corrispondente della Gazzetta Piemontese, e dal 1892 trovò ampio spazio di collaborazione sul Mattino, il nuovo quotidiano fondato da Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao.

La precocità intellettuale di Nitti si manifestò nel primo libro, pubblicato da Roux a Torino nel 1888, L’emigrazione italiana e i suoi avversari, nel quale sostenne la necessità di una legislazione favorevole ai flussi migratori verso l’estero come via d’uscita dall’arretratezza e dalla miseria di milioni di contadini oppressi «dalla cattiveria e infingardaggine delle classi dirigenti». Schierato sulle posizioni del germanesimo economico, applicò lo stesso ‘metodo positivo’ nella monografia Il Socialismo cattolico (edita da Roux, 1891) che intendeva dar conto del grande successo delle ideologie socialiste tra le masse popolari europee, dall’anarchismo al marxismo fino alle varianti del cattolicesimo.

Parallelamente all’attività pubblicistica, intraprese con successo la carriera accademica, con la nomina a professore pareggiato di economia e legislazione agraria presso la Scuola superiore d’agricoltura di Portici. Nello stesso tempo fu cooptato dal ministro Pietro Lacava nella Commissione per la modifica dei contratti agrari, dove insieme al socialista e storico del diritto Giuseppe Salvioli assunse posizioni progressiste per un intervento dello Stato in grado di ‘umanizzare’ i rapporti di lavoro nelle campagne e ridurre il peso della rendita fondiaria parassitaria. Le sue idee al riguardo sono condensate nel saggio Agricultural contracts in South Italy (in The Economic Review, III, 1893) e nel volume uscito l’anno successivo, per i tipi di Roux, La popolazione e il sistema sociale.

In questi primi scritti la questione meridionale si identificava con la questione agraria e con i caratteri semifeudali della struttura fondiaria. Le derivazioni di questa organica concezione ruralista sono essenzialmente due: da un lato la persistente influenza di Achille Loria, che nella sua classica monografia La Terra e il sistema sociale aveva individuato nella cattiva distribuzione della proprietà e nelle inique relazioni contrattuali tra proprietari e contadini il nocciolo della questione sociale in Italia; dall’altro la grande lezione di Fortunato, che insisteva sulla naturale povertà del Sud, sul suo ‘sfasciume’ idrogeologico e sui caratteri parassitari delle classi dominanti. Queste idee erano le sue chiavi iniziali di lettura dell’arretratezza meridionale, ma non potevano offrirgli strumenti concettuali e operativi capaci di indicare soluzioni efficaci di cambiamento, dal momento che né il determinismo economicistico di Loria né il riformismo conservatore di Fortunato (liberismo, sgravi fiscali, patti agrari), sembravano idonei a innescare un processo di modernizzazione.

Rilevante per Nitti fu, nel 1894, la fondazione della rivista La Riforma sociale, di cui assunse la direzione su incarico dell’editore e deputato giolittiano Luigi Roux.

In chiara antitesi con Il Giornale degli economisti, che nelle mani di Antonio De Viti De Marco e Maffeo Pantaleoni diffondeva le teorie liberiste aggiornate dal marginalismo di Léon Walras, il periodico accolse studiosi di diversa estrazione ma accomunati dal metodo positivo dell’analisi sul campo e dal dialogo scientifico tra liberalismo progressista e socialismo riformatore. Con una redazione composta da firme prestigiose – come Riccardo Bachi, Pasquale Iannaccone e Salvatore Cognetti De Martiis –, La Riforma sociale negli anni nittiani (Luigi Einaudi subentrò nel 1908) si aprì a un ricco ventaglio di saggi e ricerche di statistica, sociologia, diritto del lavoro, economia applicata, privilegiando i temi dello sviluppo industriale, della finanza pubblica e della municipalizzazione dei pubblici servizi, con attenzione al contesto internazionale e alla comparazione su scala europea dei sistemi sociali nazionali.

Gli anni di fine secolo segnarono tappe decisive nella carriera accademica e nella vita privata di Nitti: nel 1895 perse il concorso a ordinario di economia politica a Napoli a vantaggio di Pantaleoni, il che guastò i rapporti con Loria (presidente della commissione giudicatrice), ma tre anni dopo ebbe la cattedra di scienza delle finanze. Nel 1898 sposò Antonia Persico, figlia dell’illustre giurista cattolico Federico e della marchesa Barbara Cavalcanti; dal matrimonio nacquero cinque figli.

Nel 1900 il Reale Istituto di incoraggiamento di Napoli pubblicò Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97. Prime linee di un’inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese pubbliche in Italia, che Roux diede alle stampe in un’edizione divulgativa (Nord e Sud.) Sull’onda dell’ampio dibattito suscitato dalla grande stampa nazionale, le tesi del Bilancio dello Stato diedero a Nitti la maggior fama di meridionalista: il giudizio positivo sulla politica mercantilistica dei Borboni, la denuncia del trasferimento dei capitali da Sud a Nord mediante il debito pubblico, i danni provocati dall’alienazione dei beni ecclesiastici e dalla sperequazione fiscale, infine la valutazione negativa sulle tariffe protezionistiche del 1887 che avrebbero decapitato le esportazioni ortofrutticole e ridotto il Mezzogiorno a ‘mercato coloniale’ dell’industria settentrionale.

Il suo scritto più celebre presenta non poche debolezze come modello esplicativo delle disuguaglianze territoriali. L’insistenza sulla dipendenza coloniale (ripresa da De Viti De Marco e dai liberisti) appare forzata sotto il profilo statistico e anche i confronti regionali relativi al carico tributario e alla spesa pubblica non sempre risultano congrui. L’impianto dell’opera, tuttavia, si caratterizzò per alcuni elementi di originalità che inauguravano una seconda stagione del meridionalismo nittiano, quali il riconoscimento dell’industrializzazione come strategia obbligata dello sviluppo economico, il giudizio positivo sul ruolo trainante della grande impresa anche nel Sud, la consapevolezza della spesa pubblica infrastrutturale per colmare il divario territoriale. All’inizio del nuovo secolo questa complessa visione intellettuale e politica maturò nel suo lavoro L’Italia all’alba del XX secolo. Discorsi ai giovani (Torino 1901) che segnò il definitivo passaggio dall’agrarismo loriano alla centralità dell’industria come motore della modernizzazione italiana.

Il Mezzogiorno entra a pieno titolo in questa dimensione industrialista con il saggio La città di Napoli. Studi e ricerche, stampato in soli 100 esemplari (Napoli 1902) e dedicato a Fortunato, ridefinito l’anno dopo col più accattivante titolo Napoli e la questione meridionale presso l’editore partenopeo Pierro, che nel 1903 pubblicò i Principi di Scienza delle finanze. L’analisi era lucida e impietosa, perché coglieva il lungo declino dell’ex capitale ormai declassata a semplice capoluogo di provincia, spogliata della sua antica armatura commerciale e manifatturiera, come pure dell’esercito, della burocrazia e delle rappresentanze diplomatiche. Per Nitti le alternative per un rilancio della città non potevano essere cercate nelle ‘illusioni pericolose’ di Napoli grande albergo, grande museo o porto dell’Oriente, ma nell’industrializzazione collegata allo sfruttamento delle risorse idrauliche del Volturno e alle altre misure incentivanti da inserire in una legge speciale.

La sua originale progettualità non fu destinata al limbo delle ipotesi teoriche, ma si tradusse con eccezionale rapidità nella legge del 31 luglio 1904 voluta dal governo Giolitti e affidata alla consulenza tecnica di Nitti. Il provvedimento incontrò non poche resistenze sul nodo cruciale della pubblicizzazione delle fonti d’energia, poiché la Società generale per l’illuminazione e la Società napoletana per le imprese elettriche si opposero con successo al disegno nittiano di costituire un ente autonomo del Volturno e del Tusciano. Fu merito di quella legge, tuttavia, la creazione a Bagnoli del grande stabilimento siderurgico a ciclo completo dell’Ilva; sul medio periodo, inoltre, si registrò un incremento delle iniziative e dell’occupazione industriale nel Napoletano, tale da far fronte alla crisi economica e dotare la città di un’armatura industriale ben più moderna della residuale imprenditorialità borbonica, portando Napoli, quanto a cifre assolute di addetti e di attrezzature, a essere la quarta città industriale d’Italia.

Quando, nel novembre 1904, Nitti entrò in Parlamento come deputato del collegio di Muro Lucano aveva 36 anni ed era un protagonista della vita politica italiana, diviso tra le attività di docente universitario, avvocato, pubblicista e membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. Alla Camera si collocò nel gruppo radicale di opposizione, un ‘partito’ molto eterogeneo sul piano politico e ideologico, perché vi convivevano il protezionismo di Napoleone Colajanni e il liberismo di De Viti De Marco. Lo stesso Nitti, tuttavia, non era antigiolittiano per principio, anzi mostrò rispetto per Giolitti, con cui aveva collaborato fattivamente nella stesura della legge per Napoli.

Questo ‘filo rosso’ mai interrotto tra Giolitti e Nitti all’insegna di un riformismo pragmatico per il Mezzogiorno serve a comprendere le origini e gli sviluppi della legislazione speciale varata nel primo quindicennio del secolo. In tale prospettiva si mossero le argomentazioni dei saggi La conquista della forza (Torino-Roma 1905), e Il partito radicale e la democrazia industriale (ibid. 1907): il primo dedicato al ‘carbone bianco’ come bene pubblico e il secondo sulla necessità di selezionare una classe dirigente modernizzatrice.

Il ruolo di Nitti deputato meridionalista emerge soprattutto nella Commissione parlamentare d’inchiesta, istituita nel 1906, sulle condizioni dei contadini del Sud. Rispetto ai problemi legati all’industrializzazione di una grande città come Napoli, qui si trattava di studiare ‘il lato agricolo’ della questione meridionale e le connessioni profonde tra territorio e ambiente, tra montagna e pianura, tra interno e costa. Nitti fu nominato responsabile della Sottocommissione per la Basilicata e la Calabria con la consulenza tecnica di Eugenio Azimonti. Insieme al collega deputato e amico Antonio Cefaly nel triennio 1907-09 battè palmo a palmo campagne e paesi di quattro province (Potenza, Cosenza, Catanzaro, Reggio) interrogando personalmente migliaia di contadini, amministratori locali, funzionari statali ed esperti.

Per Nitti natura e storia erano state entrambe ‘matrigne’ verso queste due regioni. I terremoti devastanti dal 1783 al 1908 avevano non solo provocato morte e distruzione, ma soprattutto avevano generato insicurezza e paura collettiva in intere generazioni di calabresi e lucani. Fattore negativo non meno dannoso, ma qui con precise responsabilità degli uomini, era stato il disboscamento, che aveva distrutto un grande ecosistema di spontanea difesa del suolo. L’abolizione della feudalità, nel 1806, aveva dato il via allo scempio del territorio, ma lo Stato italiano aveva fatto peggio consentendo, dal 1861 al 1890, la quotizzazione in Basilicata e Calabria di 260.000 ettari. Il principale rimedio era perciò indicato in un piano nazionale di rimboschimento degli Appennini calabro-lucani per ricostituire un grande demanio forestale (dove far confluire le terre non ancora quotizzate, usi civici, zone boscose residue, terreni espropriati per la pubblica utilità) per il riassetto idrogeologico della montagna meridionale. Su questa scommessa ‘storica’ si giocavano le sorti del Mezzogiorno, e innanzitutto la battaglia contro la malaria, principale causa della miseria di paesi e campagne ma pure conseguenza del dissesto ambientale.

All’urgenza del risanamento idrogeologico e sanitario si affiancò, nell’Inchiesta, la nuova consapevolezza dell’emigrazione come causa modificatrice profonda degli equilibri economici e sociali del Mezzogiorno. La rarefazione della manodopera e le rimesse dall’estero avevano provocato l’aumento dei salari agricoli, il progressivo abbandono delle pratiche usuraie, il ricorso dei proprietari più intraprendenti a risolvere la mancanza di maestranze con macchine agricole, concimi chimici e innovazioni tecniche.

L’impulso modernizzatore dell’emigrazione stava cambiando i connotati sociali del vecchio Sud agrario. Gli ‘americani’ tornavano più istruiti e civilizzati, più laici e orgogliosi di avere conosciuto ‘il mondo nuovo’, molto più attenti all’azione collettiva organizzata e alla politica. Nei paesi di Lucania e Calabria nascevano così società di mutuo soccorso, cooperative di produzione e lavoro, leghe di miglioramento. Non meno importante risultava la mobilitazione degli ‘americani’ calabro-lucani per la diffusione dell’istruzione elementare. Sono queste tra le pagine più efficaci della Relazione che Nitti scrisse nel 1910: mentre i «galantuomini» restano diffidenti verso la scuola percepita come apprendistato di pericolose idee sovversive, «il popolo reclama le scuole e molti contadini, invece di dolersi delle sofferenze materiali che li affliggono, si dolevano soprattutto della poca istruzione». Questo imperioso e universale bisogno d’istruzione convinse perciò Nitti a chiedere l’avocazione allo Stato dell’istruzione elementare, anticipando l’indirizzo della legge Daneo-Credaro del 1910.

Nel marzo 1911 Nitti entrò come ministro di Agricoltura, industria e commercio nel ‘lungo ministero’ Giolitti. Ebbe così l’occasione di applicare i provvedimenti caldeggiati nell’Inchiesta. Prerequisito indispensabile restava però la riorganizzazione del dicastero, che era stato spogliato di competenze, privo di fondi adeguati e con una burocrazia insufficiente e impreparata. La rimodulazione di funzioni, compiti e strutture partì innanzitutto dalla riforma del Consiglio superiore del ministero e fu rilanciata la pubblicazione degli Annali di agricoltura, industria e commercio con originali contributi sulle finanze locali, sull’andamento dei salari e sull’istruzione: la statistica come scienza della misura dei fenomeni sociali diventò strumento indispensabile per orientare l’intervento dello Stato. Dal più efficace assetto organizzativo della macchina amministrativa prese le mosse l’intensa produzione legislativa del 1912-13, che abbracciò la riforma dell’istruzione tecnico-professionale, l’ordinamento delle Borse di commercio, la creazione dell’Ispettorato del lavoro, il trasferimento del Corpo delle foreste dalle province allo Stato, il nuovo profilo giuridico delle cattedre ambulanti d’agricoltura, i provvedimenti contro la fillossera e le malattie arboree, il finanziamento dell’edilizia popolare.

La formazione di uno staff tecnico di prestigiosi collaboratori fu contestuale a questa azione di rimodellamento dell’amministrazione centrale: con Alberto Beneduce all’Ufficio centrale del censimento, e subito dopo nel consiglio d’amministrazione dell’Istituto nazionale delle assicurazioni (INA), istituito nel 1912, di Vincenzo Giuffrida alla Direzione generale del credito e della previdenza, di Antonio Sansone a capo della Direzione delle foreste, e di tanti altri giovani funzionari selezionati personalmente dal ministro in base alle loro capacità, si veniva aggregando un corpo scelto di manager pubblici che avrebbero alimentato la cosiddetta tecnocrazia nittiana, vera spina dorsale dello Stato amministrativo italiano.

Buona parte dell’impegno ministeriale di Nitti si concentrò nella legge che fondò l’INA come ente pubblico nel settore assistenziale e delle pensioni operaie. Il monopolio statale per le assicurazioni sulla vita doveva però incontrare resistenze fortissime da parte delle compagnie (con prevalente capitale straniero come le Assicurazioni Generali) che foraggiarono sui principali quotidiani una durissima campagna stampa contro il governo, subito ripresa dagli economisti liberisti antigiolittiani. Il compromesso finale costrinse Giolitti a cedere sul monopolio statale, ma fu salvaguardato il principio di un polo assicurativo pubblico a gestione autonoma e parallela rispetto all’amministrazione centrale, in concorrenza e con funzioni regolative rispetto alle società private.

L’altro grande obiettivo dell’azione ministeriale di Nitti riguardò lo sviluppo del Mezzogiorno. Fino a quel momento l’idea-cardine della nazionalizzazione dell’energia elettrica era stato il principale ostacolo che aveva separato Nitti dalla grande industria. Con buona dose di realismo, tuttavia, aveva abbandonato nel 1911 le posizioni stataliste per proporsi come alfiere dell’elettrificazione privata. Ciò restituì slancio progettuale e dimensione operativa allo sviluppo idroelettrico del Mezzogiorno. Nel contesto della nuova saldatura fra imprese elettriche, manager pubblici e ceti politici riformatori prese corpo, al tramonto dell’età giolittiana, un disegno meridionalistico di vasto respiro, centrato sull’originaria intuizione nittiana dell’interdipendenza fra sistemazioni idrauliche montane, produzione di energia e trasformazioni fondiarie elettro-irrigue in pianura. Era l’idea condivisa dall’ingegnere Angelo Omodeo, collaboratore di Filippo Turati e vicino agli interessi e alle strategie imprenditoriali delle società elettriche e della Banca commerciale italiana (BCI).

L’obiettivo era una modernizzazione pilotata da un capitalismo organizzato, capace di eliminare residui feudali e rendite parassitarie nella zona arretrata del paese. Attraverso una dosata miscela di intervento pubblico e privato gestito dalle maggiori società elettrofinanziarie, il progetto tendeva a trasformare vaste aree latifondistiche non tanto con riforme del regime di proprietà (colonizzazione e modifica dei patti agrari) secondo il modello sonniniano, né per mezzo degli sgravi fiscali e del liberismo doganale (secondo la linea che da Fortunato giungeva a De Viti De Marco), quanto con una moderna impostazione infrastrutturale fondata sul governo delle acque e l’elettrificazione, come la più congrua a modificare in profondità i rapporti sociali di produzione e a integrare alcune aree del Sud a più elevata suscettività di sviluppo con le zone forti dell’industria settentrionale.

Nel 1911 erano ripresi i lavori per la costruzione dell’impianto idroelettrico del Volturno, e nel 1914 si completarono la centrale e il serbatoio artificiale di Muro Lucano, collegio elettorale di Nitti, il primo impianto realizzato in applicazione della legge 21 marzo 1912 sui bacini montani: il ‘lago Nitti’ (così allora denominato) consentì il recupero di una zona appenninica fra le più povere ad opera della Società lucana per imprese idroelettriche, controllata dalla Società meridionale di elettricità (SME). In collaborazione col collega dei lavori pubblici, Ettore Sacchi, nel 1912 Nitti elaborò un disegno di legge allo scopo di agevolare la costruzione di laghi artificiali nelle regioni meridionali, che sarebbe diventato esecutivo soltanto nel primo dopoguerra. Pur di accelerare i tempi si fece allora promotore di un’altra legge speciale, approvata nel luglio 1913, per la costruzione di un sistema multiplo di invasi artificiali sul Tirso in Sardegna e sul Neto nell’altipiano silano. Gli impianti sarebbero stati completati negli anni Venti da un pool di società controllate dal gruppo elettrofinanziario Comit-Bastogi. Quello sul Tirso permise la bonifica idraulica e agraria dei Campidani di Oristano e di Cagliari, realizzata dalla Società bonifiche sarde, un’impresa collegata alla Società elettrica sarda; i laghi silani, sempre su progetto di Omodeo, assicurarono l’autosufficienza energetica del Mezzogiorno continentale.

Escluso dalla compagine ministeriale dopo la formazione del governo Salandra (5 novembre 1914), Nitti rimase appartato dalla scena politica allo scoppio della Grande Guerra. Inizialmente assunse un atteggiamento neutralista, ma ben presto la consapevolezza dell’impossibilità per l’Italia di restare isolata lo convinse a sostenere le ragioni dell’alleanza con le potenze dell’Intesa e con gli Stati Uniti, garanti degli approvvigionamenti di petrolio, grano e carbone. In Il capitale straniero in Italia (Bari 1915) dimostrava, contro le polemiche dei nazionalisti e dei socialisti, la scarsa incidenza degli investimenti esteri e la necessità per l’economia italiana di contare sulle proprie forze e di incentivare l’afflusso di capitali ‘freschi’ dagli Stati Uniti. La stesura del saggio avvenne contemporaneamente alla consulenza prestata al gruppo Pogliani-Ansaldo per la fondazione della Banca italiana di sconto, il nuovo istituto di credito sorto dalla fusione tra la Società bancaria italiana e la Società di credito provinciale con l’apporto di capitali francesi, allo scopo di ridurre l’influenza della BCI e della finanza tedesca.

Le dimissioni di Paolo Boselli in seguito alla sconfitta militare di Caporetto riportarono, nell’ottobre 1917, Nitti al governo nel delicato incarico di ministro del Tesoro nel gabinetto di unità nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando. Di fatto controllò da quella posizione-chiave tutti gli altri dicasteri e la complessa macchina dell’economia di guerra, diretta con piglio deciso e mano sicura per riorganizzare l’esercito, la finanza pubblica e la produzione bellica.

A dicembre furono emanati tre decreti-legge di straordinario impatto economico e sociale. Col primo fu autorizzata l’emissione del quinto prestito nazionale di 6 miliardi di lire da destinare allo sforzo militare; col secondo si fondò l’Istituto nazionale per i cambi con l’estero, a cui venivano riservati il monopolio delle valute e il controllo sulle importazioni delle materie prime e dei manufatti; col terzo si dava vita all’Opera nazionale combattenti per l’assistenza dei reduci e il loro reinserimento nel mercato del lavoro attraverso la colonizzazione e la trasformazione fondiaria dei latifondi incolti. Questi provvedimenti e gli altri (come la commessa di 10.000 carri ferroviari all’Ansaldo, che avrebbe suscitato non poche polemiche) si inscrivono nel contesto europeo del ‘socialismo di guerra’, sperimentato da Walter Rathenau in Germania e perseguito in differente misura da tutti gli Stati belligeranti per la centralizzazione degli approvvigionamenti e della produzione bellica.

La pianificazione economica e l’intreccio tra burocrazia e grande industria suscitarono forti tensioni politiche e rivalità fra gruppi finanziari che finirono per pesare sulle dimissioni di Nitti a vittoria ormai conquistata, allorché nel gennaio 1919 si sommarono il divieto del ministro per gli Affari esteri Sidney Sonnino alla sua partecipazione alla Conferenza di Versailles e l’ostracismo dichiarato di banchieri e industriali, contrari alla revisione dei contratti imposta da Nitti per contenere gli ‘extraprofitti’ di guerra. Il contrasto col ministro degli Esteri riguardò la conduzione delle trattative di pace con gli Alleati, che Orlando e Sonnino svilupparono in modo confuso e contraddittorio. Essi rivendicarono da un lato l’integrale applicazione del Patto di Londra (cessione all’Italia del Trentino e Venezia Giulia, Istria, Dalmazia, porti albanesi, Dodecanneso), che cozzava con i quattordici punti di Woodrow Wilson, e chiesero dall’altro l’annessione della città di Fiume in base al principio di nazionalità. Nella sua corrispondenza con i colleghi di governo Nitti aveva caldeggiato una linea più prudente e di leale collaborazione con il presidente degli Stati Uniti per evitare il prevedibile smacco diplomatico, ma non fu ascoltato. Orlando e Sonnino abbandonarono Parigi per protesta compiendo un ulteriore passo falso, cosicché quando tornarono al tavolo della Conferenza le potenze vincitrici avevano già chiuso il trattato con la Germania senza concessione alcuna all’Italia. L’insuccesso diplomatico costrinse Orlando alle dimissioni e alla fine di giugno del 1919 Nitti fu incaricato dal re di formare un nuovo ministero.

Come presidente del Consiglio Nitti si pose l’obiettivo prioritario di una rapida smobilitazione militare e del risanamento del bilancio statale gravato dagli enormi debiti di guerra, allo scopo di riconvertire il sistema produttivo a un’economia di pace. Nell’arco di due mesi furono perciò congedati i due terzi dell’esercito (oltre un milione di soldati e 50.000 ufficiali), dimezzando la spesa mensile da 2 miliardi a 400 milioni di lire. La linea di moderazione in politica estera e di rigore finanziario con gli Stati Uniti entrò subito in rotta di collisione con i programmi espansionistici dell’industria bellica (il governo aveva bloccato una spedizione militare in Georgia) e con l’irredentismo nazionalista di Gabriele D’Annunzio, Alfredo Rocco e Benito Mussolini, che si coalizzarono in una campagna diffamatoria contro Nitti, definito «Cagoia» per avere rinunciato alla difesa degli interessi nazionali.

Con cortei e manifestazioni fu Gabriele D’Annunzio a coniare lo slogan della «vittoria mutilata» per colpa di una classe politica inetta che aveva svenduto i destini della patria all’‘immondizia serbo-croata’. E fu lo stesso poeta-vate a organizzare, nel settembre 1919, la marcia di Ronchi, cioè la spedizione di volontari e di militari ammutinati che occuparono Fiume e ne proclamarono l’annessione all’Italia.

Un secondo fattore che rese più fragili le basi di consenso al ministero Nitti fu l’eccezionale ondata di lotte e rivendicazioni sociali note come biennio rosso, giustificate dalla disoccupazione dilagante e dall’inflazione, ma pure alimentata dalla radicalizzazione politica connessa alla rivoluzione bolscevica.

Nel 1919 il conflitto sociale si aprì nelle campagne, dove si registrarono tre fenomeni: l’invasione dei latifondi e delle terre incolte nel Mezzogiorno, le lotte contrattuali dei mezzadri nelle regioni dell’Italia centrale, gli scioperi dei braccianti per l’aumento dei salari nella Valle Padana. Nell’estate del 1919, in forme largamente spontanee, si verificarono in tutte le città tumulti e manifestazioni contro l’aumento dei prezzi. A questo si aggiunsero, infine, gli scioperi organizzati dai sindacati e dal Partito socialista italiano (PSI) a difesa della classe operaia, che (a partire dallo ‘scioperissimo’ del luglio 1919 per solidarietà con la Russia e l’Ungheria sovietiche) punteggiarono con agitazioni continue a singhiozzo le regioni centro-settentrionali, culminando nello ‘sciopero delle lancette’ organizzato dalla Federazione impiegati operai metallurgici (FIOM) a Torino e nell’occupazione delle fabbriche nella primavera-estate del 1920.

A raccogliere i frutti dell’imponente mobilitazione di massa del dopoguerra furono così le forze d’opposizione allo Stato liberale come i cattolici, che con Luigi Sturzo avevano fondato il Partito popolare italiano (PPI), e i socialisti sempre più distanti dal riformismo di Filippo Turati e proiettati su posizioni massimaliste e rivoluzionarie. Quando nel novembre del 1919 si svolsero le elezioni politiche con la nuova legge elettorale proporzionale il PPI raccolse il 20,6% e il PSI il 32,6% dei suffragi, mettendo in minoranza per la prima volta i liberali, ridotti dai 200 deputati del 1913 a 90. L’equilibrio del tradizionale sistema politico era ormai andato in frantumi.

Battuto nel maggio 1920 alla Camera per una questione procedurale, Nitti riuscì a ricostituire il ministero e assunse la decisione impopolare di abolire il prezzo politico del pane (da lui stesso introdotto) come misura indispensabile per contenere il disavanzo statale. Attaccato dalle opposizioni e abbandonato da gruppi consistenti della sua maggioranza, a giugno fu costretto a dimettersi, sostituito dall’anziano Giolitti, che non sarebbe stato capace di evitare il crollo dello Stato liberale. Le elezioni del 1921, caratterizzate dai ‘blocchi nazionali’ con l’inserimento dei fascisti, registrarono un duro scontro tra Giolitti e i candidati nittiani, che furono vittime di brogli e violenze con la collusione dei prefetti.

Isolato nella sua villa di Acquafredda a Maratea, Nitti stese quell’estate il saggio L’Europa senza pace (subito pubblicato dall’editore fiorentino Bemporad) col quale criticò aspramente i trattati di Parigi, secondo lui condizionati dall’aggressivo spirito di revanche della Francia e destinati a prolungare lo stato di guerra senza una radicale revisione delle loro inique clausole sulle riparazioni e sui confini. Le tesi esposte coincidevano largamente con quelle di John M. Keynes: non a caso, Le conseguenze economiche della pace era stato tradotto in Italia quell’anno con una prefazione del ‘fedelissimo’ Vincenzo Giuffrida.

Sempre nel ritiro di Acquafredda vide la luce La decadenza dell’Europa (Firenze 1922), uno scritto ricco di lucide e amare considerazioni sull’anarchia delle relazioni fra gli Stati europei che richiamava la caduta dell’Impero romano. Nell’estate-autunno del 1923, a completamento della trilogia dedicata alla crisi post-pubblica, Nitti consegnò all’editore Gobetti di Torino La tragedia dell’Europa. Che farà l’America?, rivolto soprattutto ai lettori americani per spingere il governo degli Stati Uniti ad abbandonare la linea neoisolazionista e a intervenire contro l’espansionismo francese, che rischiava di provocare una seconda guerra mondiale. Questa iperattività pubblicistica gli valse ampi riconoscimenti internazionali e per tre anni (1922-24) una proposta di candidatura al premio Nobel per la pace, che non ebbe successo per l’aperta ostilità della Francia e dei numerosi nemici interni (dai giolittiani alla destra nazionalista e fascista).

Lontano per due anni dalla capitale e dai palazzi del potere, Nitti sottovalutò i nuovi partiti di massa e i caratteri totalitari del movimento fascista, cadendo nell’errore di Giolitti e avviando illusorie trattative con D’Annunzio e Mussolini per la formazione di un governo di ‘concentrazione nazionale’. Criticato dall’amico Giovanni Amendola per questa sua iniziale cedevolezza (comune del resto a tanta parte del mondo liberale), dopo la marcia su Roma Nitti comprese che il regime non avrebbe tollerato il protagonismo politico di un capo democratico e pacifista come lui. Quando nel novembre 1923 rientrò a Roma con la famiglia dovette assistere inerme alla devastazione della sua casa a opera di alcune centinaia di camicie nere su disposizioni di Cesare Rossi e dello stesso Mussolini. Nel giugno 1924 l’intero nucleo familiare si trasferì quindi a Zurigo. E dopo il discorso alla Camera di Mussolini del 3 gennaio 1925, che inaugurava la ‘dittatura a viso aperto’ del fascismo, Nitti indirizzò una lunga lettera a Vittorio Emanuele III per sottolineare le connivenze della Corona con un regime liberticida.

Furono parole destinate a restare inascoltate. Il fascismo trionfante anzi lo licenziò dall’Università. Ormai convinto dell’impossibilità di un prossimo rientro in Italia, nel gennaio 1926 Nitti si rifugiò a Parigi.

L’esilio francese coincise con l’uscita del volume Bolscevismo, fascismo, democrazia (l’edizione italiana fu stampata nel 1927 a New York), nel quale l’analisi comparata dei sistemi totalitari si coniuga con la riaffermazione dei valori della democrazia e della cooperazione internazionale.

Nitti diventò subito uno dei principali riferimenti dell’antifascismo italiano all’estero, anche se non aderì a nessuna delle organizzazioni politiche nella capitale francese. Il suo lealismo monarchico gli impedì tuttavia di entrare nella Concentrazione antifascista, che aveva escluso monarchici e cattolici, così come il suo riformismo liberale era estraneo al radicalismo di Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli e all’ideologia marxista di socialisti e comunisti.

Nel 1932 fu pubblicata in Spagna (e l’anno dopo in Francia) la sua trentennale ricerca La Democrazia, a cento anni dalla comparsa della Démocratie en Amérique di Alexis de Tocqueville: il lungo viaggio nella storia del pensiero, da Tucidide ad Aristotele, da Machiavelli a Montesquieu, da Hegel a Marx e a Croce, aveva ancora una volta l’obiettivo di rivendicare la libertà come fondamento della democrazia e della civiltà occidentale contro le deviazioni dell’imperialismo e del totalitarismo. Con accenti più accorati gli stessi concetti furono ribaditi in L’inquiétude du monde (1934), dove i suoi bersagli polemici erano il collettivismo sovietico e tutte le esperienze di dirigismo economico considerate come negazione della libertà; lo stesso avvio del New deal rooseveltiano fu definito «une tentative insensée d’économie dirigée». Potrebbe sembrare paradossale questa condanna senza appelli da parte di uno dei più originali sostenitori dell’intervento statale, ma la contraddizione era giustificata dalla torsione protezionista e autarchica dell’Italia fascista, la Germania nazista e la Russia comunista, che sotto il manto della pianificazione economica avevano ucciso l’iniziativa privata e le libertà politiche. Lo statalista Nitti si convertiva dunque al liberismo economico pur di restaurare il liberalismo politico.

Nel ventennale esilio a Parigi le vicende private s’intrecciarono strettamente con quelle pubbliche. Problemi di lavoro e di salute avevano scandito la vita dei suoi figli: Giuseppe si trasferì a Buenos Aires per esercitare l’avvocatura ma tornò deluso, nel 1934, per fare il corrispondente di testate argentine; Luigia, apprezzata studiosa di lingue indiane e attivista antifascista, senza il consenso paterno sposò nel 1937 un operaio repubblicano già confinato a Lipari e due anni dopo morì per embolia post partum; Vincenzo, dopo aver lasciato Giustizia e Libertà, diventò nel 1932 amministratore delegato di una società francese che coltivava miniere d’oro in Iugoslavia e Bulgaria, ma lì s’ammalò gravemente e morì nel 1941; Federico, ricercatore medico all’Istituto Pasteur, contro la volontà di Nitti sposò nel 1938 Giuliana Cianca (figlia del direttore del Mondo, esule anch’egli in Francia) e fu il terzo figlio a premorire al padre, nel 1947; Filomena, infine, sposò un giornalista ebreo d’origine polacca e lo seguì a Mosca nel 1935, ma il matrimonio presto finì e al suo rientro a Parigi divorziò. L’amatissima moglie, Antonia, ammalatasi gravemente, sarebbe morta a Roma nel 1948.

Dolori e tragedie familiari segnarono fortemente Nitti, ma non ne intaccarono la robusta fibra. Quando Hitler, nel settembre 1939, invase la Polonia scatenando la seconda guerra mondiale, Nitti mise da parte l’antifascismo pur di concorrere alla salvezza della Patria e scrisse a Mussolini un’argomentata relazione in cui gli consigliava di abbandonare la Germania che aveva tradito il Patto di Monaco e di schierarsi a fianco di Francia e Inghilterra. Con la caduta del fascismo, pensando di offrire la propria disponibilità per la restaurazione della democrazia scrisse al re e al generale Pietro Badoglio, ma il 30 agosto 1943 i nazisti lo prelevarono nella casa parigina per internarlo, insieme con gli ex presidenti francesi Édouard Daladier e Paul Reynaud, in una località tirolese da dove fu liberato dalle truppe francesi solo il 2 maggio 1945.

La drammatica esperienza della deportazione fu raccontata nel Diario di prigionia (pubblicato postumo, Bari 1967), mentre gli scritti di quel periodo comparvero nel col titolo Meditazioni dall’esilio (Napoli 1947).

Al rientro nell’Italia liberata si trovò però lontano dagli ideali della Resistenza e dalla nuova dimensione dei partiti di massa. Il suo discorso al teatro S. Carlo di Napoli, nell’ottobre 1945, si risolse in un aspro attacco al movimento partigiano, al Comitato di liberazione nazionale, ai sei partiti che lo componevano, al governo Parri. Rientrato in servizio come ordinario di Scienza delle finanze su proposta del ministro e suo allievo Vincenzo Arangio Ruiz, a 77 anni si schierò nel Partito liberale sulle posizione di Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando e Luigi Einaudi e fu eletto, nel giugno 1946, all’Assemblea costituente, restando però escluso (con vivo disappunto) dalla Commissione dei 75 che predispose il testo della Costituzione repubblicana. Grazie ai buoni rapporti con Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, il capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola pensò di affidargli l’incarico per la formazione del governo nel gennaio 1947, in seguito alla crisi provocata dalla scissione socialdemocratica di Giuseppe Saragat. De Gasperi riuscì nella circostanza a ricostituire la maggioranza, ma dovette gettare la spugna nel mese di maggio al rientro dal viaggio negli Stati Uniti, quando si ruppe il rapporto con i partiti di sinistra. Nitti ottenne formalmente l’incarico da De Nicola, ma l’ostilità della Democrazia cristiana e dei partiti minori fece fallire il tentativo, aprendo la strada al governo centrista De Gasperi - Einaudi.

Rieletto in Parlamento, votò nel 1949 contro l’adesione dell’Italia al Patto atlantico considerato un’alleanza militare pericolosa per la pace, pur restando favorevole agli aiuti americani del Piano Marshall. Rimase politicamente attivo fino all’ultimo, e nel 1952 capeggiò con successo il ‘listone’ di sinistra per le elezioni amministrative di Roma.

Ebbe ancora il tempo di correggere le bozze della sua ultima fatica, Meditazioni e ricordi (Milano 1953), quando un’influenza degenerata in broncopolmonite lo portò alla morte a Roma il 20 febbraio 1953.

Fonti e Bibl.: I documenti e il cospicuo carteggio di Nitti sono stati versati dalla figlia Filomena all’Archivio centrale dello Stato, a Roma, e alla Fondazione Einaudi di Torino. Il fondo dell’Archivio centrale dello Stato riguarda soprattutto l’attività politica di Nitti. Per deliberazione della Camera dei deputati dal 1973 al 1975 sono stati stampati in cinque volumi i Discorsi parlamentari. Il Parlamento nel 1954 ha approvato una legge per l’Edizione nazionale delle Opere di F.S. Nitti, affidandone il compito a un Comitato presieduto da Luigi Einaudi con Filomena Nitti Bovet nelle funzioni di segretaria. La Casa editrice Laterza ha completato nel 1984 la pubblicazione di 17 volumi (in 20 tomi) organizzati in tre sezioni: Scritti sulla questione meridionale (I-IV); Scritti di economia e finanza; (V-X); Scritti politici (XI-XVII). Non hanno visto la luce gli ultimi due volumi, dedicati alla corrispondenza, alla biografia e alla bibliografia. Le Prefazioni ai singoli volumi dell’Opera omnia, firmate da autorevoli studiosi (tra gli altri, D. De Marco, P. Villani, L. Del Pane, F. Forte, F. Caffè, M. Rossi Doria) contengono spunti interessanti su molti aspetti dell’attività nittiana, approfonditi dalla letteratura successiva. Una svolta significativa nella riconsiderazione critica di Nitti è segnata dal volume di F. Barbagallo, Nitti, Torino 1984, che può considerarsi il contributo più completo sul tema. Cfr. inoltre: Id., F.S. N., un intellettuale e politico riformista, in F.S. N.: atti del Convegno nazionale di studi, a cura di F. Barbagallo - P. Barucci, Napoli 2010, pp. 11-21. Sulla formazione e le opere giovanili, cfr. G. Are, Il pensiero economico di F.S. N. fino al dibattito sulla «conquista della forza», in Critica storica, 1972, n. 2; G. Fiorot, Il giovane N. (1880-1905), Milano 1993; M. Scavino, Lavoro e alti salari nel pensiero giovanile di F.S. N., in Marginalismo e socialismo nell’Italia liberale, 1870-1925, a cura di M.E.L. Guidi - L. Michelini, Milano 2001, pp. 463-484; S. Perri, Il giovane N. economista e le idee di Achille Loria: positivismo, materialismo storico e ruolo delle riforme, in F.S. N.: atti del Convegno nazionale di studi... cit., pp. 189-214. In particolare, sulla carriera universitaria cfr. L. Costabile - V. Gambardella, La vita accademica di F.S. N., ibid., pp. 237-276. Per la fondazione e la direzione del periodico La Riforma sociale: M. De Luzenberger, La “Riforma sociale” di F.S. N., in Prospettive Settanta, 1982, n. 2, pp. 236-289; Una rivista all’avanguardia. La «Riforma sociale» 1894-1911, a cura di C. Malan-drino, Firenze 2000. Sul ruolo di Nitti nella legge speciale per Napoli cfr. M. Marmo, L’economia napoletana alla svolta dell’inchiesta Saredo e la legge dell’8 luglio 1904 per l’incremento industriale di Napoli, Napoli 1969; A. Dell’Orefice, Una occasione mancata. La legge speciale per Napoli del 1904, Gèneve 1981; R. Patalano, Stato, industrializzazione e questione meridionale: la legge per Napoli: 1901-1904, in M.M. Augello - M.E.L. Guidi, La scienza economica in Parlamento 1861-1922. Una storia dell’economia politica dell’Italia liberale, I, Milano 2002, pp. 443-481. Per i rapporti con le imprese elettriche: G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Torino 1986; G. Bruno, Risorse per lo sviluppo. L’industria elettrica meridionale dagli esordi alla nazionalizzazione, Napoli 2004. Per l’Inchiesta del 1909: S. Rogari, Mezzogiorno ed emigrazione, Firenze 2002; G. Barone, N. deputato e ministro, in F.S. N.: atti del Convegno nazionale di studi ... cit., pp. 37-52. Per l’attività di ministro nel governo Giolitti: G. Barone, La modernizzazione italiana. Dalla crisi allo sviluppo, in Storia d’Italia, III, Liberalismo e democrazia, a cura di G. Sabbatucci - V. Vidotto, Roma-Bari, 1995, pp. 249-362; A. Scialoja, L’Istituto nazionale delle assicurazioni ed il progetto giolittiano di un monopolio di Stato delle assicurazioni sulla vita, in Quaderni storici, 1971, n. 18. Per l’attività durante la prima guerra mondiale e come ministro del Tesoro nel governo Orlando cfr. l’ancora valido contributo di A. Monticone, N. e la grande guerra, Milano 1961; G. Barone, Statalismo e riformismo nel primo dopoguerra. N., Beneduce e la creazione dell’Opera nazionale combattenti (1917-1923), in Alberto Beneduce e i problemi dell’economia italiana del suo tempo, Roma 1985, pp. 19-51. Per i contrastati rapporti con le banche: E. Galli Della Loggia, Problemi di sviluppo industriale e nuovi equilibri politici alla vigilia della prima guerra mondiale: la fondazione della Banca italiana di sconto, in Rivista storica italiana, 1970, pp. 824-886; A.M. Falchero, La Banca italiana di sconto. Sette anni di guerra, Milano 1990. Per l’esperienza di presidente del Consiglio nel 1919-20 rimane essenziale la ricerca di R. Vivarelli, Il dopoguerra in Italia e l’avvento del fascismo, I, Dalla fine della guerra all’impresa di Fiume, Napoli 1967, mentre per il contesto economico cfr. P. Frascani, Politica economica e finanza pubblica in Italia nel primo dopoguerra, Napoli 1975. Per la politica estera si rimanda ai classici studi di P. Alatri, N., D’Annunzio e la questione adriatica (1919-1920), Milano 1959 e G. Sabbatucci, Al governo e alla Conferenza della Pace, in F.S. N.: atti del Convegno nazionale di studi ... cit., pp. 53-62. Per gli anni dell’esilio v. F. Festa, Il pensiero politico di N. negli anni dell’esilio, in Bollettino storico della Lucania, XXI, 2006, n. 22; Id., A proposito dell’emigrazione politica in Francia fra le due guerre. L’antifascismo di F.S. N., in F.S. N.: atti del Convegno nazionale di studi ... cit., pp. 449-490; S. Fedele, L’esilio e la critica della Resistenza, ibid., pp. 63-76. Per il secondo dopoguerra e le ultime esperienze politiche P. Bini - F. Cattabrini, N. e la ricostruzione economica nel secondo dopoguerra (1945-1953), in F.S. N.: atti del Convegno nazionale di studi ... cit., pp. 335-353.

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