Francisco Goya y Lucientes

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Alessandra Acconci

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

“Incubo colmo di cose ignorate, di feti cucinati nel cuore dei sabba”. Nei versi che Charles Baudelaire gli dedica in Les Fleurs du Mal (Les Phares, 1857) Goya è pittore del tenebroso e del fantastico.

Maestro di ombre ed esorcismi, Goya viene riscoperto nella seconda metà dell’Ottocento: è proprio l’aspetto irrazionale e visionario colto dal poeta francese a essere esaltato da simbolismo, espressionismo e dalle avanguardie. Tuttavia le oscurità del Sonno della ragione e dei Disastri della Guerra , della Fucilazione e delle pinturas negras non possono da sole esaurire la complessità di questo ritrattista di re e generali amato da anarchici e rivoluzionari.

A cavallo di due secoli e di due mondi, Goya attraversa i rivolgimenti della storia, legge e interpreta il passaggio tra mondo moderno e contemporaneo, tra monarchia borbonica e governo rivoluzionario, tra grazia rococò e disillusione romantica.

La Real Fabbrica di Arazzi di Santa Barbara

Nato nel 1746 nel piccolo villaggio aragonese di Fuendetodos, vicino a Saragozza, Francisco José de Goya y Lucientes matura nella tradizione del barocco devozionale di Napoli e dell’Italia meridionale, che conosce dapprima nella bottega del maestro José Luzán e poi in Italia, nel 1770.

Le prime commissioni ufficiali sono la volta del coretto di Nuestra Señora del Pilar (1771-1772) e la chiesa della certosa dell’Aula Dei (1772-1774), decorazioni murali a soggetto sacro riecheggianti la grandiosità scenografica del Baciccia che gli valgono il trasferimento a Madrid, all’inizio del 1775.

Grazie all’intercessione dell’amico e cognato Francisco Bayeu viene chiamato da Anton Raphael Mengs nella capitale, per prestare servizio presso la Real Fabbrica di Arazzi di Santa Barbara da lui diretta. Goya vi collabora per quasi vent’anni e realizza oltre una sessantina di cartoni per arazzi che permettono al giovane provinciale di affacciarsi alle stanze reali e pregustare la futura, grandiosa carriera.

Opere a tema profano e di genere, questi cartoni assecondano il gusto settecentesco della pittura galante degli ozi e dei piaceri e incontrano la personale predilezione dello stesso Goya per le feste, la vita di strada, le fiere di paese, il majismo. Nei primi dipinti, come Il parasole, realizzato nel 1777 per il principe delle Asturie e oggi al Museo del Prado, la cromia, luminosa e vivace, e la composizione, geometrica e limpida, rimandano a Boucher, Tiepolo, Giordano. Nei cicli successivi vengono introdotti soggetti dalle tematiche sociali più evidenti, come I poveri alla fonte o La nevicata (1786), o dai contenuti allegorici più complessi, come La mosca cieca (1789) o Il fantoccio (1791-1792). Nei contrasti cromatici e nelle lunghe ombre di queste opere più tarde si leggono già lo sgomento e l’inquietudine che saranno costanti nelle produzioni più note dell’artista.

Dai primi ritratti alla carica di Pintor de Cámara del Rey

Con l’arrivo a Madrid e l’ingresso alla corte di Carlo III, la particolare maestria nell’uso delle luci e di tinte sgargianti e vivaci assicura a Goya un successo immediato e l’accesso alle collezioni reali d’arte. Tra queste opere inavvicinabili e ignote scopre quelle di Diego Velázquez, maestro ideale dell’artista che le riproduce all’acquaforte in una serie di tredici incisioni.

Nel corso degli anni Ottanta Goya si impone come ritrattista, ricercato soprattutto per la pennellata larga e disinvolta, la materia pittorica vibrante e la sottile capacità di analisi caratteriale.

Ritrae il Conte di Floridablanca, primo ministro del Regno e uomo nodale per le sorti del Paese, al culmine della carriera nell’ostentazione dello splendore di ori e broccati (1783, Banco de España). Mutuando da Las meninas di Velázquez la pratica dell’inserimento, nei quadri, del proprio autoritratto, l’artista documenta per immagini la propria ascesa sociale. Al cospetto del politico, il giovane aragonese introduce se stesso, da poco giunto nella capitale, in dimensioni ridotte e atteggiamento ossequioso.

Il ritratto del ministro segna l’ingresso di Goya nell’alta società madrilena. All’importanza crescente degli effigiati e del loro ruolo a corte corrisponde la fama sempre maggiore del pittore che, a distanza di meno di un anno, si raffigura nella posa consapevole dell’artista intento al proprio lavoro, in primo piano, mentre ritrae la famiglia dell’infante Don Luis de Borbón, fratello minore del re (1784, Fondazione Magnani Rocca). Al centro del dipinto il principe delle Asturie, che aveva rinunciato al proprio ruolo e si era ritirato a vita privata dopo aver sposato una donna giovane e bellissima, ma di rango inferiore, siede al tavolo da gioco con la consorte. Questa piccola corte, raccolta attorno all’infante di Spagna senza distinzione di ruolo e di rango, testimonia, nei toni terrosi e nella composizione severa, una sensibilità intima e già borghese.

In questa rapidissima ascesa Goya viene nominato, nel 1785, vicedirettore di pittura dell’Accademia di San Fernando, poi direttore, e, nel 1789, pittore di camera del re, incaricato di dipingere le effigi ufficiali della famiglia reale.

Quindici anni dopo aver descritto la dimessa domesticity di Don Luis de Borbón, con investitura formale e solenne Goya ricompare sulla tela che raffigura i membri della famiglia reale, mentre dall’ombra getta verso l’osservatore il proprio sguardo acuto. Questo ritratto ufficiale di Carlo IV e della sua corte si pone come bilancio simbolico di un regno in crisi eppur ancora in vita; una raffigurazione nella quale il pittore sancisce, al di là dell’implacabile analisi fisiognomica, la sopravvivenza dell’autorità regale sulla destabilizzazione compiuta dalla Rivoluzione francese. Appena nominato primo pittore del re, l’artista è ancora lontano dai desideri di denuncia indignata e di livellamento sociale che la critica ha voluto attribuirgli e che oggi è difficile non leggere sotto le onorificenze e i damaschi, tra le pappagorge e gli sguardi atoni dei regnanti.

La Rivoluzione

Al momento della nomina a pittore di corte scoppia la Rivoluzione francese, che ha presto forti ripercussioni nella vita politica e culturale spagnola. A causa delle tensioni tra la monarchia e gli intellettuali più progressisti molti degli amici più stretti del pittore vengono mandati in esilio. Le alternanze repentine nelle nuove strutture del potere, di invasori, governi rivoluzionari, conquistatori, amplificano nell’artista la sensazione di precarietà e inquietudine.

Sotto il vento rivoluzionario Goya presta i propri pennelli agli alterni vertici di questo instabile scenario politico, realizzando ancora magnifici ritratti degli amici afrancesados, dei governanti spagnoli, degli invasori francesi, dei soccorritori britannici, dei patrioti spagnoli.

Lontano dall’astrazione idealizzante neoclassica, l’artista gioca con forti contrasti, pennellate ampie e pastose, assenza di contorno e stesura a macchia del colore. Giungendo a una penetrazione psicologica e caratteriale inedita, lascia trasparire, nelle pieghe delle ombre e negli sguardi acuti, la consapevolezza amara del momento di trapasso di questa fine secolo.

Per il plenipotenziario primo ministro Manuel Godoy, favorito di Carlo IV e intimo della regina, Goya delinea due dei suoi più noti capolavori, la Maja vestida e la Maja desnuda (1800, Prado), che ritraggono probabilmente la giovane amante e più tardi sposa del capo di Stato, la bella Pepita Tudó. L’ostentata sensualità di quello che può essere considerato il primo nudo profano della storia dell’arte trova ancora una volta in Velázquez, nella Venere allo specchio , il proprio modello formale. Nonostante gli antecedenti celebri, tuttavia, il dipinto procura al suo artefice una convocazione presso il tribunale dell’Inquisizione e il sequestro della tela, che solo all’inizio del Novecento viene esposta al pubblico.

La malattia

Tra il 1792 e il 1793 Goya si ammala in modo molto grave: colpito forse da un colpo apoplettico, forse da poliomielite, perde l’udito e, per un certo tempo, diminuiscono anche le sue capacità visive e motorie. Ne segue una profonda crisi e una maggior propensione all’introspezione e al ripiegamento in se stesso. L’isolamento nel quale lo rinchiude la sordità corrisponde a uno sguardo più aspro sul mondo e si rispecchia in una fervida immaginazione e in una sempre più spiccata tendenza al metaforico. Le opere successive alla malattia risentono profondamente di questa nuova visione del mondo e dell’arte: opere maggiormente tese a una funzione civile, educativa e moralizzatrice, nelle quali sono sempre più evidenti pessimismo e assenza di fiducia nell’uomo. Bersagli privilegiati sono l’ignoranza e i poteri forti, tra tutti l’aristocrazia e la Chiesa, attaccati con inclemente violenza. Il paradosso è che la satira più acre è messa in atto dal pittore di camera del re, interprete ufficiale della monarchia e della classe dirigente.

Pur in questa crisi assoluta, in questa visione del mondo per sempre incrinata e inasprita, l’artista mantiene un duplice approccio: da una parte la pittura grande, “diurna”, luminosa, ufficiale, per l’aristocrazia e i Borbone, dall’altra la pittura “nera”, notturna, privata, di accusa e denuncia, il più delle volte affidata alla grafica.

Alla ritrattistica di corte, Goya alterna opere intime, segrete e visionarie che hanno come tematiche predilette l’incubo, la follia, la violenza e le superstizioni.

I Capricci

Vertice sommo di questo periodo sono le 80 incisioni note come Capricci, elaborate negli anni successivi la malattia e messe in vendita nel 1799. Unificate da un titolo tipicamente settecentesco impiegato per denominare composizioni immaginarie e di fantasia, queste stampe attaccano i vizi e gli errori della Spagna contemporanea utilizzando la caricatura e la satira come strumenti di denuncia contro il clero, le superstizioni popolari, l’aristocrazia, i costumi degenerati.

L’artista aveva inizialmente pensato di raccogliere queste incisioni in sequenze tematiche dando loro il titolo di Sogni. Il frontespizio doveva essere la celeberrima acquaforte El sueño de la razón produce monstruos, poi sostituita con un autoritratto di profilo, con cilindro e sguardo obliquo. L’incipit originario, un uomo dormiente sovrastato da incubi, avrebbe costituito una dichiarazione esplicita del fine moralizzatore dell’intera raccolta.

Presagendo ripercussioni, Goya modifica il progetto iniziale per stemperarne la forza eversiva: cambia il frontespizio e scompagina l’assetto delle immagini così da celarne il messaggio. Sforzo inutile, questo, che non preserva l’artista dalle denunce dell’Inquisizione, tanto che a poche settimane dalla pubblicazione le stampe vengono ritirate dal mercato per scelta del loro stesso autore che, per proteggersi, dona le matrici alla Calcografia reale. Occorrerà attendere fino alla metà dell’Ottocento prima che si proceda a una seconda edizione e che queste visioni allucinate ispirino i versi di Charles Baudelaire e il bulino di Odilon Redon.

A sconvolgere, ancora oggi, è il pessimismo assoluto che regna in queste incisioni, l’umore nero e l’assenza, in un’epoca di “magnifiche sorti e progressive”, di una possibilità di riscatto.

Il 3 maggio 1808

Gli anni della malattia e della crisi personale di Goya coincidono con il crollo di un’intera nazione, di un impero che aveva dominato l’Atlantico e che viene ora confinato, sul continente e nelle colonie, ai margini dello scacchiere mondiale. Con l’occupazione francese e le guerre di indipendenza la Penisola Iberica diviene teatro di atrocità e rovina: quanti, e Goya tra questi, avevano confidato nel rinnovamento di un mondo ancora arretrato, come la Spagna borbonica, sotto la spinta dei diritti propagandati dai rivoluzionari francesi, vedono infrante le proprie speranze al grido di liberté, égalité, fraternité.

Goya dà sfogo alla propria disillusione in una serie di capolavori supremi.

Nel 1814 dipinge il dittico de Il 2maggio 1808 (La carica dei Mamelucchi alla Puerta del Sol) e Il 3 maggio 1808 (Le fucilazioni della Montaña del Príncipe Pío), nei quali raffigura la rivolta del popolo di Madrid contro i Turchi assoldati dall’esercito di Napoleone e le esecuzioni dei patrioti da parte delle truppe francesi. Cita iconografie del martirio cristiano e della crocifissione di Cristo, nelle braccia aperte del giustiziato, nel bianco abbagliante della sua camicia, nella schiera indistinta e oscura dei carnefici. Eppure rompe tutte le convenzioni figurative legate alla grande pittura di storia: annulla nell’anonimato il gesto valoroso dei partigiani, eroi sconosciuti e inermi identificati come lavoratori e contadini, pueblo ammassato in cataste inerti davanti alle baionette.

Commissionata dal governo provvisorio spagnolo su proposta dello stesso Goya e, al mutare del clima politico, lasciata nei depositi reali per oltre quarant’anni, la Fucilazione è il presupposto ideale per l’Esecuzione di Massimiliano di Édouard Manet (1868, Mannheim, Städtische Kunsthalle) e il Massacro in Corea di Pablo Picasso (1951, Parigi, Musée National Picasso). Nella Fucilazione l’istantaneo diviene permanente, cristallizzato per sempre nella storia, come il miliziano colpito di Robert Capa oltre un secolo dopo, in una simile guerra civile nella medesima irrequieta Spagna.

I disastri della guerra 

Insieme a Il 3 maggio 1808, anche la serie di 82 incisioni all’acquaforte e puntasecca I disastri della guerra diviene immagine universale della denuncia degli orrori della guerra. Iniziata nel 1810 ma pubblicata postuma nel 1863, la raccolta, quasi un diario intimo delle atrocità del conflitto (“Yo lo vi”, io l’ho visto, scrive in due didascalie), sintetizza la condanna contro le barbarie di tutte le guerre: fosse comuni, corpi deturpati, chirurgici smembramenti. In una lotta irrazionale le due opposte fazioni, l’invasore francese e i compatrioti spagnoli, vengono rese identiche dalla crudezza delle violenze. Le uniformi indefinite livellano gli attori in gioco, uguagliandoli ai combattenti che li hanno preceduti e che li seguiranno. In cumuli indistinti, i corpi nudi delle vittime, i lembi slabbrati delle ferite, le carni spolpate dalle carestie, gli arti scomposti dalle mutilazioni richiamano sepolture sommarie presenti e passate. Ai conflitti si sommano i danni collaterali di stupri, miserie, saccheggi, che Goya costringe a indagare, con preoccupazione documentaria, nei più crudi e implacabili particolari.

Immagini, queste dei Disastri come quella della Fucilazione, divenute paradigma assoluto di ogni posizione non violenta, riprese dalla pubblicistica politica del primo e del secondo Novecento. Immagini essenziali e senza tempo che Picasso cita in Guernica e che lo storico Gwyn A. Williams rilegge sotto l’influsso della guerra nel Vietnam.

A questo stesso umore pessimista e cupo attingono anche Los disparates (Le stravaganze, o Follie, anche note come I proverbi), l’ultima serie grafica, incompiuta, ad acquaforte e acquatinta, realizzata tra il 1816 e il 1823 e pubblicata postuma nel 1864. Il significato di queste lastre resta misterioso, ma l’intento evidente è ancora una volta quello della critica sociale per mezzo dell’ironia e del paradosso.

Le opere grafiche di Goya, dai Capricci ai Disastri, dalla Tauromachia (1816) ai Disparates, sono tutte caratterizzate da una maestria tecnica eccelsa, da una disinvoltura di tratto e da un approccio non convenzionale che tende a spingere all’estremo i limiti del mezzo. I risultati, che rivelano lo studio attento e appassionato di Rembrandt e Piranesi, sono ancor più dirompenti in assenza di una tradizione incisoria nazionale.

La morsura chimica e indiretta amplia la gamma di gradazioni di nero e di grigio conferendo maggiore profondità al segno. Una tecnica mordente e acre come il suo messaggio.

Le pinturas negras

Nel 1814 viene restaurata la monarchia borbonica. Goya, gravemente malato e oppresso dal nuovo regime, riduce i suoi incarichi ufficiali, pur mantenendo la sua carica ed eseguendo ancora diversi ritratti per il sovrano.

Nel 1819, prima di fuggire in Francia, dove muore, ultraottantenne, nel 1828, si ritira nei dintorni di Madrid in una casa nota come Quinta del Sordo, casa del sordo. I muri di questa sua ultima dimora spagnola sono i celebri supporti per le allucinate pitture a olio conosciute come le pinturas negras, un ciclo dalle tinte e dai temi foschi e oscuri. Da recenti radiografie sembra che i dipinti si disponessero su più strati e che su quelli più antichi trovassero posto composizioni solari e ariose, poi coperte nella disillusione amara degli anni precedenti l’esilio da croste nere di pece illuminate solo da un ocra terroso di cera.

Tra scene di sabba, stregoneria e deliri compaiono alcune delle figurazioni più note del pittore: Saturno divora i suoi figli, Il grande caprone, Le Parche, Pellegrinaggio a Sant’Isidro (1820-1824, Prado).

Nella libertà svincolata da qualsivoglia commissione, nella destinazione privata di questi dipinti, è possibile rintracciare le componenti di un’arte intima e istintiva, quasi una scrittura automatica che si affida al fluire del pensiero per emergere sulla parete, tra le paure e i fantasmi della mente del pittore. E se è vero che l’arte contemporanea è soprattutto lo specchio del sentire intimo dell’artista e del suo mondo interiore, queste opere ne rappresentano il reale punto di inizio.

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