Subordinate, frasi

Enciclopedia dell'Italiano (2011)

subordinate, frasi

Michele Prandi

Definizione

L’idea di subordinazione rimanda a una struttura di frase complessa, nella quale uno o più costituenti sono a loro volta frasi, formate da un predicato (tipicamente, un verbo; ➔ predicato, tipi di) saturato dai suoi ➔ argomenti. La frase complessa costituita da altre frasi è chiamata tradizionalmente periodo; le frasi che operano come costituenti di tale frase complessa sono chiamate frasi subordinate (➔ principali, frasi; sintassi).

tab. 1

Tutti i costituenti maggiori di una frase possono essere formati da frasi: il ➔ soggetto, i ➔ complementi del verbo, le espansioni del predicato o dell’intero processo, i modificatori del verbo. A un livello gerarchico più basso, non più di frase ma di espressione nominale, una frase può anche comparire come modificatore di un nome (tab. 1).

Le frasi subordinate sono dette esplicite quando contengono un verbo di modo finito (cioè coniugato; ➔ coniugazione verbale; ➔ modi del verbo) e un soggetto indipendente: Giovanni spera che Piero arrivi; sono implicite quando contengono una forma non finita del verbo e, tipicamente, un soggetto non espresso controllato da un argomento del verbo principale: Giovanni spera di arrivare.

Proprietà

tab. 2

Tra le frasi subordinate si riconoscono diversi tipi (tab. 2), in cui si raggruppano relazioni grammaticali e concettuali diverse. Vanno anzitutto distinte le subordinate  che modificano un nome, o frasi relative (➔ relative, frasi), dalle subordinate che compaiono come costituenti della frase. A livello di frase, occorre poi distinguere le subordinate con funzione di argomento, o completive (che saturano una valenza del verbo; ➔ completive, frasi) dalle subordinate non completive, dette avverbiali (Kortmann 1997; più raramente margini: Longacre 20072). Infine, le avverbiali possono essere gerarchizzate secondo la struttura che espandono: ci sono avverbiali del verbo, del predicato, dell’intero processo (Prandi 2004 e 2006).

Subordinate come modificatori del nome: le frasi relative

Le frasi relative sono espansioni di nomi. Una relativa è infatti collegata a un nome (detto antecedente o punto di attacco) che modifica, mediante una forma del pronome relativo (che, il quale, cui) o un avverbio di luogo con proprietà di relativo (dove; ➔ relativi, pronomi):

(1) la cravatta che mi hai regalato

(2) la vacanza alla quale ho rinunciato

(3) la città dove ho studiato

Il pronome relativo cumula la funzione di collegamento anaforico (➔ anafora) con l’antecedente a quella di congiunzione. Tale cumulo si osserva analiticamente nelle forme di frase relativa documentate nell’➔ italiano popolare e in generale colloquiale (➔ colloquiale, lingua), che nelle forme oblique e nella forma oggetto dissociano la funzione di congiunzione (espressa dal cosiddetto ➔ che polivalente) e la ripresa del nome antecedente, affidata a un pronome anaforico:

(4) il ragazzo che gli ho prestato la bicicletta

Si distinguono due tipi di relative: le relative restrittive e le appositive. Le relative restrittive caratterizzano l’antecedente incidendo sulla sua funzione: se il nome ha funzione referenziale, contribuiscono a identificare il referente restringendo la portata del nome grazie alla proprietà o all’evento che descrivono:

(5) la casa che mi hanno offerto risale al medioevo

(6) vorrei una casa che fosse abbastanza spaziosa per tutta la famiglia

Le relative appositive attribuiscono una proprietà o un ruolo in un processo a un referente identificato indipendentemente:

(7) il rettore sarà presente alla consegna dei diplomi, che avverrà in Aula Magna

(8) l’Isola Bella, dove visiteremo il Palazzo Borromeo, si raggiunge da Stresa

Le relative appositive hanno una funzione simile a quella delle incidentali (➔ incidentali, frasi):

(9) Georges – l’hai conosciuto a Strasburgo – ci ha invitati a casa sua

I due tipi di frase relativa sono distinti per forma. Le restrittive sono strettamente legate al nome antecedente, mentre le appositive sono generalmente separate da una pausa (da una virgola nel testo scritto). In posizione di soggetto o complemento oggetto, le relative restrittive accettano solo che, mentre le appositive accettano il quale nella varietà delle sue forme. Le relative appositive sono sempre all’➔ indicativo o al ➔ condizionale, mentre le restrittive possono prendere il ➔ congiuntivo se il loro contenuto non è reale, ma solo progettato o immaginato:

(10) cerco una persona che parli tedesco e che sia capace di suonare il piano

Grazie alle relative restrittive, un referente è identificato a partire dal suo ruolo in un processo o da una sua proprietà. Le appositive, invece, collegano due processi attraverso un referente coinvolto in entrambi. In questo modo, le relative appositive possono entrare al servizio del collegamento tra processi, o connessione tra frasi (§ 4.1). In (11) e (12) il contenuto della relativa spinge a inferire una relazione causale e, rispettivamente, concessiva tra i due eventi espressi:

(11) il fiume, che era stato gonfiato dalle piogge, è straripato

(12) Giovanni, che (pure) è molto preciso, ha combinato un pasticcio.

Subordinate come costituenti della frase: completive e avverbiali

Si chiamano completive le frasi subordinate che entrano nella struttura portante del nucleo come argomenti che saturano una valenza (➔ verbi) del verbo principale, e quindi come soggetti o complementi; sono avverbiali le proposizioni subordinate che espandono il processo principale. In:

(13) Luca teme che Giovanni abbia perso il treno

la frase subordinata che Giovanni abbia perso il treno funziona come complemento oggetto di teme: è una completiva, che esprime un argomento del verbo principale temere. Invece in:

(14) Giovanni ha perso il treno perché la sveglia non ha suonato

la subordinata è un’avverbiale del processo principale Giovanni ha perso il treno.

Tra le subordinate completive e le avverbiali ci sono differenze essenziali, sia sul piano funzionale sia sul piano formale. La funzione di una completiva è saturare una valenza del verbo principale: in Maria teme che Luca sia bocciato, ad es., la subordinata (che Luca sia bocciato) esprime l’➔ oggetto di temere. La funzione di un’avverbiale è invece dare espressione a un processo completo e virtualmente indipendente destinato ad essere collegato al processo principale. Il periodo:

(15) Luca è stato bocciato perché non ha studiato

collega Luca è stato bocciato a Luca non ha studiato.

Se si ha una subordinata completiva, abbiamo una sola struttura di frase e un solo processo, intrinsecamente complesso in quanto contiene un intero processo tra i suoi argomenti:

(16) Maria teme che Luca sia bocciato

esprime un unico processo (il timore di Maria) che ha come oggetto un processo (la bocciatura di Luca). Se si ha un’avverbiale, invece, abbiamo due processi e due strutture di frase semplici e virtualmente indipendenti che si saldano in una relazione. La complessità del processo che ne deriva è l’effetto della saldatura:

(17) Luca è stato bocciato perché non ha studiato

Nella subordinata completiva non c’è una principale indipendente, in quanto la subordinata è un argomento del verbo, e quindi un costituente essenziale del nucleo della frase: Luca teme non è una frase. Nell’avverbiale, la principale è indipendente, dato che la subordinata non è un costituente essenziale del nucleo ma una sua espansione: Giovanni ha perso il treno è una frase.

Per questo un’avverbiale, a differenza di una completiva, può essere staccata dal predicato principale e collegata al processo principale tramite una frase indipendente che contiene una ripresa anaforica:

(18) Giovanni ha perso il treno; (questo) è successo perché la sveglia non ha suonato

Il soggetto non espresso delle subordinate implicite è controllato da un argomento della principale. Nelle avverbiali, le condizioni del controllo sono definite una volta per tutte. Il soggetto di una finale implicita (➔ finali, frasi), ad es., coincide con l’agente dell’azione principale:

(19) Giorgio ha comprato una scala per potare i meli

In una completiva, il soggetto della subordinata implicita è vincolato dal verbo principale; in:

(20) ti prometto di rientrare entro le dieci

il soggetto della subordinata coincide con il soggetto del verbo principale; in:

(21) ho pregato Luca di rientrare entro le dieci

coincide con il destinatario.

La funzione della subordinata completiva – saturare una valenza del verbo principale – può essere assolta solo all’interno della struttura di frase, e risponde a modelli grammaticali rigidi. L’oggetto di temere, ad es., può essere espresso solo da un’oggettiva introdotta dalla congiunzione che e con il verbo al congiuntivo. La funzione di collegare due processi indipendenti, invece, non è esclusiva del periodo, ma può essere assicurata da un ampio ventaglio di mezzi. Il periodo è solo una delle tante opzioni che la lingua italiana ci offre, e il periodo formato da una principale e da un’avverbiale è uno dei mezzi che la lingua offre per mettere in relazione due processi semplici completi. Queste opzioni includono non soltanto mezzi grammaticali (il periodo) ma anche strategie testuali, fondate sulla coerenza e sulla coesione delle concatenazioni di processi semplici (➔ testo, struttura del).

Le avverbiali tra i mezzi di espressione di relazioni tra frasi

Le relazioni tra frasi sono relazioni concettuali che collegano processi completi. Un esempio è la causa (➔ causalità, espressione della). Quando diciamo:

(22) il fiume è straripato perché è piovuto a lungo

consideriamo due processi entrambi saturi, completi (è piovuto a lungo; il fiume è straripato) e li colleghiamo con una relazione che ha un contenuto concettuale: la causa.

In quanto struttura concettuale, una relazione transfrastica (per es., la causa) collega due processi dello stesso rango (per una valutazione opposta, cfr. Cristofaro 2010). Non abbiamo un processo principale che sottomette un processo secondario, ma due processi che si situano sullo stesso piano, dominati da una relazione che li ingloba entrambi: p ha causato q. Una relazione come la causa acquista una struttura subordinativa quando, per ragioni di prospettiva comunicativa (§ 4.2; ➔ testo, struttura del), scegliamo per la sua espressione una forma sintattica subordinativa, per es., una frase causale che subordina la causa all’effetto.

Tra relazioni concettuali e frasi subordinate non c’è corrispondenza biunivoca. Un esempio significativo è il fine (➔ finalità, espressione della). Sul piano concettuale, il fine è un motivo che spinge un agente ad agire e che coincide con il contenuto di un’intenzione proiettato nel futuro: per es., Maria vuole diventare traduttrice e a questo scopo si iscrive a Lingue. La relazione concettuale che possiamo chiamare fine può essere espressa in più forme: in particolare, all’interno della frase complessa, nella forma detta finale (➔ finali, frasi):

(23) Maria si è iscritta a Lingue per diventare traduttrice

e nella forma detta causale (➔ causali, frasi):

(24) Maria si è iscritta a Lingue perché vuole diventare traduttrice

Ognuna delle due forme impone una prospettiva diversa alla stessa relazione concettuale. La forma causale privilegia il momento soggettivo dell’intenzione che precede l’azione, la forma finale collega direttamente l’azione al suo obiettivo futuro ignorando la motivazione soggettiva e il passato. Se questo è vero, il costrutto detto causale non può essere definito propriamente come l’espressione della causa: in primo luogo, come s’è visto, la forma detta causale si presta anche all’espressione del fine, e più in generale dei motivi; dall’altro lato, la causa può essere espressa in molti altri modi (v. oltre, esempi 25-30).

Se mettiamo a fuoco i loro contenuti concettuali, le relazioni tra processi non si presentano come una lista disordinata di subordinate, ma come un insieme ordinato di concetti coerenti strettamente imparentati. Dati due eventi p e q, possiamo immaginare tre relazioni temporali principali:

(a) p precede q;

(b) p è contemporaneo a q;

(c) p segue q.

Le relazioni di causa e di motivo si innestano sulle relazioni temporali in modo diverso. La relazione di causa ingloba la successione temporale: la causa precede necessariamente l’effetto. I motivi dell’azione umana hanno una temporalità più complessa: un’azione può essere motivata dalla valutazione di qualcosa che è accaduto nel passato ma anche da una previsione o da un progetto. Mentre la previsione e il progetto, interni al soggetto, precedono l’azione, il loro contenuto è proiettato nel futuro (Prandi, Gross & De Santis 2005).

Le altre relazioni principali tra frasi (la condizione e la concessione) si innestano o su una causa o su un motivo. Una condizione è una causa o un motivo non reale ma solo ipotizzato. Si ha concessione quando una causa reale produce un effetto inatteso, o un motivo reale sfocia in un’azione inattesa (➔ concessione, espressione della).

Ognuna di queste relazioni può essere espressa da opzioni più o meno numerose, analizzabili secondo due parametri:

(a) la natura dei mezzi prescelti (che possono essere grammaticali, come la subordinazione o la coordinazione all’interno della frase complessa, o testuali, come la giustapposizione di due frasi indipendenti che formano un messaggio coerente, eventualmente supportato da mezzi di coesione);

(b) il grado di codifica e, in caso di codifica di grado basso, lo spazio lasciato all’inferenza, cioè al ragionamento coerente motivato dai contenuti concettuali coinvolti.

La seguente lista di forme esemplifica diverse strategie di espressione della causa, alcune grammaticali, altre testuali, caratterizzate da gradi diversi di codifica:

(25) la neve si è sciolta perché il föhn ha soffiato tutta la notte

(26) dopo che ha soffiato il föhn, la neve si è sciolta

(27) il föhn ha soffiato tutta la notte e la neve si è sciolta

(28) il föhn ha soffiato tutta la notte: la neve si è sciolta

(29) il föhn ha soffiato tutta la notte; per questo la neve si è sciolta

(30) il föhn ha soffiato tutta la notte: a causa di ciò, la neve si è sciolta

Le frasi complesse (25) e (26) e la coordinazione (27) impongono ai processi atomici una struttura grammaticale unitaria. Gli esempi (28-30) sono giustapposizioni di frasi autonome: la relazione si instaura in regime di coerenza testuale. Solo (30) codifica in modo totale e univoco una relazione di causa, grazie alla presenza del nome causa. In (25), la congiunzione perché è compatibile anche con i motivi, e la causa è inferita. Lo stesso si può dire della locuzione anaforica per questo presente in (29). In (26) è codificata una relazione di successione temporale, e la causa è inferita. In (27) e (28) la causa è completamente inferita. È sullo sfondo di questo ventaglio di opzioni diverse che il periodo contenente una subordinata causale trova il suo posto.

Le motivazioni funzionali della scelta del periodo: la prospettiva

Gli esempi mostrano che la scelta del periodo non è essenziale per costruire una relazione tra frasi e darle un contenuto. Mezzi completamente diversi, dalla coordinazione alla giustapposizione, eventualmente rinforzate da locuzioni anaforiche, sono altrettanto efficaci. La giustificazione funzionale del periodo non va cercata nell’ideazione del contenuto concettuale, ma nella sua capacità di imporre a una relazione in sé simmetrica una prospettiva asimmetrica.

Confrontiamo le espressioni seguenti:

(31) i vigili hanno ispezionato il giardino e hanno ritrovato la bicicletta di Maria

(32) mentre ispezionavano il giardino, i vigili hanno ritrovato la bicicletta di Maria

In (31) si accostano due processi che hanno esattamente lo stesso peso comunicativo; in (32), invece, si porta un processo in posizione di primo piano e si sposta l’altro sullo sfondo. La subordinazione non sta dunque nella relazione concettuale, perfettamente simmetrica, ma nella forma del periodo, che introduce una gerarchia tra i processi coinvolti.

La funzione di sfondo di una subordinata (nel nostro caso mentre ispezionavano il giardino) dipende da tre fattori: la posizione, la subordinazione grammaticale e il tempo verbale. Nell’ordine lineare, il segmento che occupa la prima posizione tende ad avere un valore informativo basso, e quindi una vocazione per lo sfondo. La relazione di subordinazione mette in rilievo l’evento principale collocando sullo sfondo l’evento subordinato. Il fattore decisivo della relazione tra primo piano e sfondo però è il rapporto tra i tempi verbali. Nella narrazione (➔ testi narrativi), che valorizza la sfasatura tra i piani, il ➔ passato remoto è il tempo del primo piano, l’➔ imperfetto è il tempo dello sfondo.

I diversi fattori della prospettiva del periodo possono sovrapporsi in modo solidale o entrare in conflitto. In (33) i fattori della prospettiva sono solidali, e la distinzione tra primo piano e sfondo è netta. In (34) la presenza dell’imperfetto nella principale ‘ferma l’azione’, per così dire: manca l’evento di primo piano. In (35), tempi verbali e subordinazione grammaticale entrano in conflitto. In caso di conflitto prevale il tempo verbale: l’imperfetto spinge la frase principale sullo sfondo, mentre la subordinata, grazie al passato remoto, occupa il primo piano:

(33) mentre passava davanti alla casa diroccata, Guglielmo notò una strana luce (Carlo Cassola, Il taglio del bosco)

(34) mentre Caterina provvedeva a scaldare il caffè, Guglielmo segnava sul taccuino l’elenco delle spese (Cassola, ivi)

(35) il sole tramontava dietro la collina prospiciente S. Dalmazio, quando Guglielmo uscì dalla bottega (Cassola, ivi)

Struttura delle frasi subordinate: congiunzioni e modi verbali

Mentre l’uso di un’avverbiale è una scelta del parlante, l’uso di una completiva dipende dalla valenza del verbo della frase principale: dire, ad es., ammette una frase oggettiva (➔ oggettive, frasi), dipingere no:

(36) Giorgio ha detto che Maria ha vinto la gara

(37) *Giorgio ha dipinto che Maria ha vinto la gara

La congiunzione o la preposizione che introduce una completiva è selezionata dal verbo principale e non dà un contributo attivo al contenuto concettuale della relazione. I verbi incitare e consigliare, ad es., hanno significato simile: sono verbi direttivi e prendono come oggetto un’azione che il parlante spinge il destinatario a compiere. Eppure, essi distribuiscono i ruoli in modo diverso, e selezionano frasi subordinate diverse:

(38) ho incitato Giorgio a iscriversi alla gara

(39) ho consigliato a Giorgio di iscriversi alla gara

La congiunzione che introduce un’avverbiale, invece, è scelta in funzione della sua capacità di codificare, in tutto o in parte, la relazione concettuale espressa:

(40) la gara è stata interrotta perché si è messo a piovere

(41) la gara ha avuto luogo sebbene si sia messo a piovere

C’è però un gruppo di completive che si innesta sul processo principale seguendo un criterio del tutto diverso. Il modello è fornito dalle ➔ interrogative indirette parziali, nelle quali la funzione di collegamento è presa in carico dall’elemento su cui porta la domanda:

(42) dimmi che cosa hai fatto, dove sei andato, quando sei andato a casa, perché hai fatto questo, come stai

Come le interrogative indirette si comportano le oggettive con alcuni verbi, tra cui vedere, sapere, dire:

(43) so (o ho visto, o mi hanno detto) che cosa hai fatto, dove sei andato, quando sei andato a casa, perché hai fatto questo, come stai

La giustificazione di questo comportamento risiede nella strategia di ➔ focalizzazione.

Nelle completive, la scelta tra indicativo e congiuntivo non è libera ma imposta dal verbo principale e non ha un rapporto diretto con il valore modale (reale o irreale; ➔ modalità) della subordinata: spiacere, ad es., è un verbo che presuppone che lo stato di cose descritto dalla completiva sia vero (tecnicamente, si chiama verbo fattivo); ciononostante, regge il congiuntivo, esattamente come dubitare, che invece la sospende: sognare regge l’indicativo come sapere: eppure il contenuto del sogno è tipicamente non reale. La libera scelta tra indicativo e congiuntivo è ammessa con pochi verbi. In:

(44) dicono che il figlio di Andrea è / sia scappato di casa

ad es., l’indicativo segnala che il parlante aderisce alla voce in circolazione, mentre il congiuntivo segnala una presa di distanza. Il condizionale, invece, è scelto dal parlante e ha tre valori principali: apodosi di periodo ipotetico (45), futuro nel passato (46), non realtà nella modalità epistemica, soprattutto in presenza di un verbo modale (47):

(45) penso che Giorgio verrebbe se trovasse un passaggio

(46) ero sicuro che Giorgio sarebbe arrivato prima di pranzo

(47) credo che Mario dovrebbe essere arrivato

Quando la subordinata è un’avverbiale che esprime una relazione tra frasi, non è più il verbo principale che crea la relazione (come nel caso delle completive), ma la congiunzione. È dunque questa che controlla il modo del verbo della subordinata. In (48), la congiunzione codifica posteriorità (anche se poi il ragionamento ci porta verso la causa) e regge l’indicativo; in (49) codifica anteriorità e regge il congiuntivo; in (50) e in (51) il contenuto è simile, ma il modo del verbo è diverso perché cambia la congiunzione:

(48) dopo che è piovuto il fiume è straripato

(49) prima che piovesse il livello del fiume era basso

(50) sebbene sia piovuto, il fiume non è straripato

(51) anche se è piovuto il fiume non è straripato.

Forme assolute

La sintassi del latino classico è ricca di costrutti sintetici, come l’➔ accusativo con l’infinito per le completive o l’ablativo assoluto per le avverbiali, anche se non mancano derive verso forme più analitiche, come il quod + indicativo per l’oggetto dei verbi di dire (Cuzzolin 1994; ➔ latino e italiano).

L’italiano, come in generale le lingue romanze (➔ lingue romanze e italiano), privilegia la linea analitica: l’accusativo con l’infinito cede il posto alla congiunzione che + verbo di modo finito, mentre l’ablativo assoluto dà luogo a una rosa di avverbiali di forma esplicita o implicita. Ciò, naturalmente, non significa che le forme sintetiche siano scomparse. Tra le completive, ad es., i verbi di percezione (➔ percezione, verbi di) reggono l’infinito con soggetto espresso quando descrivono la percezione diretta, reggono la subordinata con che quando hanno un valore più generalmente cognitivo:

(52) a. sentivo il treno sferragliare

b. ho sentito che Giovanni si sposa

(53) a. ho visto una macchina sbucare dalla curva

b. ho visto che la cena non è ancora pronta

L’ablativo assoluto continua nei costrutti participiali assoluti. In alcuni casi si tratta di formule fossili, come preso atto, seduta stante, tutto sommato, visto come stanno le cose. Inoltre, il costrutto latino si riconosce nella struttura trasparente di alcune ➔ preposizioni, come nonostante, durante, mediante. Altri costrutti, invece, sono vitali e produttivi:

(54) letti i verbali della seduta precedente, il presidente affrontò l’ordine del giorno

(55) partito Davide, ho ripreso il lavoro

I participi assoluti (➔ assolute, strutture) conservano alcune proprietà del modello latino. Il participio passato, in particolare, concorda con il nome, che dunque si comporta come un soggetto. Ciò implica che, proprio come in latino, il participio passato ha valore passivo con i verbi transitivi: essendo stati letti i verbali ... Al pari dell’ablativo assoluto latino, il participio assoluto è in grado di reggere una completiva:

(56) controllato che il numero legale fosse stato raggiunto, il presidente aprì l’assemblea

L’alternativa più immediata al participio assoluto è il gerundio; gli esempi (54) e (55) possono essere infatti parafrasati da (57) e (58):

(57) avendo letto i verbali della seduta precedente, il presidente affrontò l’ordine del giorno

(58) essendo partito Davide, ho ripreso il lavoro

I due costrutti, tuttavia, hanno proprietà grammaticali diverse. Se il verbo è transitivo, in particolare, il gerundio composto ha valore attivo e non garantisce la condizione di assolutezza, cioè di assenza di controllo sul soggetto da parte del verbo principale, che accomuna l’ablativo assoluto latino e il participio assoluto italiano. In (57), ad es., il soggetto del gerundio (il presidente) è lo stesso della principale, a differenza di quanto accade in (54).

Studi

Cristofaro, Sonia (2010), Subordination. A typological study, Oxford, Oxford University Press.

Cuzzolin, Pierluigi (1994), Sull’origine della costruzione dicere quod: aspetti sintattici e semantici, Firenze, La Nuova Italia.

Kortmann, Bernd (1997), Adverbial subordination. A typology and history of adverbial subordinators based on European languages, Berlin - New York, Mouton de Gruyter.

Longacre, Robert E. (20072), Sentences as combinations of clauses, in Language typology and syntactic description, edited by T. Shopen, Cambridge, Cambridge University Press, 3 voll., vol. 2° (Complex constructions), pp. 372-420 (1a ed. 1985).

Prandi, Michele (2004), The building blocks of meaning. Ideas for a philosophical grammar, Amsterdam - Philadelphia, John Benjamins.

Prandi, Michele (2006), Le regole e le scelte. Introduzione alla grammatica italiana, Torino, UTET.

Prandi, Michele, Gross, Gaston & De Santis, Cristiana (2005), La finalità. Strutture concettuali e forme di espressione in italiano, Firenze, Olschki.

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