Frodolente

Enciclopedia Dantesca (1970)

frodolente

Ettore Bonora

Come aggettivo, " pensato o eseguito con frode ": lo furto che [Caco] frodolente fece / del grande armento ch'elli ebbe a vicino (If XXV 29; sostenibile anche l'ipotesi che f. si riferisca a Caco, o che nel contesto abbia valore avverbiale); Venir sen dee [Guido da Montefeltro] giù tra ' miei meschini / perché diede 'l consiglio frodolente (XXVII 116).

Come sostantivo, " peccatore di frode ": e però stan di sotto / li frodolenti (XI 27).

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I f. nell'Inferno. - Mentre in Cv I XII 10 tradimento, ingratitudine, falsitade, furto, rapina, inganno e loro simili sono genericamente elencati come colpe opponentisi all'ideale di giustizia, nell'esporre l'ordinamento del basso Inferno (If XI 22 ss.) D. non solo distingue la violenza dalla frode, ma di quest'ultima vede due diverse manifestazioni: quella che può l'omo usare in colui che 'n lui fida e l'altra esercitata ai danni di quel che fidanza non imborsa, ossia il tradimento, che è punito nel nono cerchio, e la frode propriamente detta, punita nel cerchio ottavo. Registra poi i vari tipi di frode: ipocresia, lusinghe e chi affattura, / falsità, ladroneccio e simonia, / ruffian, baratti e simile lordura (vv. 58-60), comprendendo nel generico simile lordura consiglieri frodolenti e seminatori di discordie. Nel giudicare che d'ogne malizia, ch'odio in cielo acquista, / ingiuria è 'l fine (vv. 22-23), ma che il danno recato dai f. è più grave di quello recato dai violenti, e pertanto passibile di pene maggiori, D. si rifaceva a principi della filosofia antica, resi di comune dominio da un passo del ciceroniano De Officiis (I XIII 41): " Cum autem duobus modis, id est aut vi aut fraude fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur; utrumque homine alienissimum, sed fraus odio digna maiore. Totius autem iniustitiae nulla capitalior quam eorum qui, cum maxime fallunt, id agunt, ut viri boni esse videantur ". L'eco diretta del passo del De Officiis è nelle parole di Guido da Montefeltro, dove questi dichiara: l'opere mie / non furon leonine, ma di volpe (If XXVII 74-75); ma anche l'idea che il frodolento sia un peccatore il quale, nell'atto di compiere il male, si vuol far credere onesto è accettata da D. e resa particolarmente esplicita, oltre che nel ritratto di Gerione, nella caratterizzazione degl'ipocriti. Oltre Cicerone, va ricordato Ulpiano (Dig. IV III 1 2), che faceva consistere il dolum malum in " omnem calliditatem, fallaciam, machinationem ad circumveniendum, fallendum, decipiendum alterum adhibitam " secondo una definizione rispondente a un interesse eminentemente giuridico; siffatta concezione è presente anche in s. Tommaso che intende distinguere il dolo, inganno operato con parole e atti, dalla frode, che si compie soltanto con gli atti: " sicut dolus consistit in executione astutiae, ita etiam et fraus: sed in hoc differre videntur quod dolus pertinet universaliter ad executionem astutiae, sive fiat per verba sive per facta: fraus autem magis proprie pertinet ad executionem astutiae secundum quod fit per facta " (Sum. theol. II II 55 5). E vero tuttavia che allo stesso Aquinate la differenza non risultò tanto rigorosa da non ammettere eccezioni, se poco prima del passo riferito poteva scrivere: " executio astutiae ad decipiendum primo quidem et principaliter fit per verba, quae praecipuum locum tenent inter signa quibus homo significat aliquid alteri... Et ideo dolus maxime attribuitur locutioni. Contingit tamen esse dolum et in factis " (55 4).

Se conobbe siffatte questioni D. non informò a esse il suo giudizio sulla frode. Una visione di tipo giuridico avrebbe comportato anche la distinzione dei modi nei quali la frode viene perpetrata e dei danni che la vittima subisce, e non ammetterebbe che nella stessa categoria si trovino inscritti peccati che hanno un movente diverso. D. invece, già nella prima bolgia, colloca a subire il medesimo castigo ruffiani e seduttori, portati a peccare da impulsi differenti, e se tra il ruffiano Venedico Caccianemico e il seduttore Giasone una differenza resta fortemente segnata, questo avviene per valori di ordine psicologico e artistico. Nel bolognese la volgarità si manifesta nella sfacciata confessione delle malefatte personali e nel denunziare malignamente che la colpa di cui egli si è macchiato era largamente diffusa tra i suoi concittadini; dell'eroe greco non vengono taciute le lusinghe con le quali ingannò Isifile, ma nella commozione per la giovane donna abbandonata gravida, soletta (If XVIII 94) finisce per consistere una delle note più forti del breve episodio. D'altra parte soltanto un concetto del falso quale deviazione dalla legge morale può spiegare la presenza nella decima bolgia di peccatori per i quali un tribunale terreno sarebbe invece tenuto a valutare i moventi e i fini diversi che portarono a delinquere, giudicando non alla stessa stregua il modo nel quale i malfattori agirono. D. immagina sì che adulteratori dei metalli e mentitori siano afflitti da scabbia, idropisia e altre pestilenze, mentre i falsificatori della persona corrono come spiriti folletti per la bolgia, avventandosi su questo o quello dei compagni di sventura, e alla distinzione nel rappresentare la pena fa corrispondere una distinzione di natura linguistica, ché se il verbo ‛ falsificare ' vale per Gianni Schicchi e Mirra, ‛ falsare ' è il verbo usato per gli altri dannati o quello comunque che a essi si addice. Ma appunto l'identica etimologia dei due verbi e la loro appartenenza al medesimo ambito semantico stanno a dimostrare che anche in questo caso D. giudicò da moralista, da psicologo, da poeta, non annettendo importanza primaria a problemi di ordine giuridico. Del resto la distribuzione stessa della materia dei canti di Malebolge può dare un'indicazione, sia pure approssimativa, della libertà di natura schiettamente poetica che egli volle concedersi nel rappresentare il mondo dei frodolenti. In un solo canto (XVIII) sono descritte infatti la bolgia dei seduttori e ruffiani e quella degli adulatori, e mentre un canto è rispettivamente dedicato ai simoniaci (XIX), agl'indovini (XX), agl'ipocriti (XXIII) e ai seminatori di discordie (XXVIII), due ne occupano le bolge dei barattieri (XXI-XXII), dei ladri (XXIV-XXV), dei consiglieri frodolenti (XXVI-XXVII) e dei falsari (XXIX-XXX). Ridurre pertanto sotto un denominatore comune il mondo dei f. comporta facilmente una valutazione tendenziosa della poesia dei canti dal XVIII al XXX dell'Inferno.

Tuttavia il precedente illustre del De Sanctis obbliga ancora a prendere in esame la questione da questo punto di vista, anche perché gli errori del grande critico possono sollecitare correzioni e revisioni feconde di verità. Il De Sanctis, contrapponendo il mondo dei passionali, puniti nell'alto Inferno, a quello dei f., giudicò che i peccati nati dalla passione siano tali da ammettere che non poche delle anime dell'alto Inferno conservino anche nell'oltretomba una tragica grandezza umana. A suo avviso invece il mondo dei f. rappresenterebbe " la prosa della vita, precipitata dal suo piedistallo ideale e divenuta volgarità ", e qui non si troverebbero più " caratteri e passioni, ma vizio, bassezza e malizia ". Appena qualche incrinatura egli ammetteva che si desse " in questo mondo prosaico e plebeo ", e la riconosceva nel verso che caratterizza la grandezza di Giasone (e per dolor non par lagrime spanda, If XVIII 84), e, ancor meglio, in Vanni Fucci, che " è passato per l'uomo ed è ricaduto nella bestia ", ha cioè avuto coscienza della bassezza ma l'ha soffocata in sé. Persino nel giudicare l'episodio di Ulisse, il critico, sebbene avvertisse la grandezza tragica dell'eroe (" Ulisse è il grand'uomo solitario di Malebolge "), si perdeva in congetture inaccettabili, e vedeva anche qui la degradazione dell'umano, se non altro perché " Ulisse stesso per la sua malizia ha la sua figura coperta e fasciata dalle fiamme ". Non vi è dubbio invece che proprio il canto XXVI, con la celebrazione di quanto di più nobile appartiene alla natura umana, costituisce il più forte ostacolo non soltanto all'interpretazione del mondo dei f. data dal De Sanctis, ma a qualunque altra interpretazione che non tenga conto della sapienza artistica di cui D. dà prova, e, soprattutto, non riconosca nell'episodio di Ulisse una poesia profondamente diversa nel significato e nel tono da quella degli altri canti di Malebolge. Ciò non significa disconoscere che di fronte ai f. il poeta si sia posto con disposizione psicologica che rispondeva sostanzialmente alla sua concezione dei moventi e delle manifestazioni della frode, e che alla miseria morale dei f. abbia conformato la rappresentazione delle loro pene e delle loro reazioni. Quella che si configurò alla sua fantasia fu sostanzialmente una realtà prosaica, repugnante a qualsivoglia idealizzazione, tale però da impegnare la sua fantasia e da mettere a una prova difficile il suo stile. Che gli oggetti da lui rappresentati lo interessassero al punto da farlo partecipare a essi con spregiudicata disinvoltura o lo attraessero come spettacolo tra i più curiosi, è dichiarato almeno in due passi: nel c. XXII dove, a proposito della decuria dei diavoli guidati da Barbariccia, esclama: Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa / coi santi, e in taverna coi ghiottoni (vv. 14-15), dimostrando di saper accettare una situazione che contiene le punte di più ardita comicità presenti nell'intero poema, e in If XXX 130 ss., dove finge che Virgilio lo rimproveri per avere prestato troppo curiosa attenzione al diverbio di maestro Adamo e Sinone. È vero dunque che la degradazione morale dei f. portò il poeta a concepire questi dannati generalmente come attori di drammi meschini, che nessun impulso generoso riesce a riscattare, destinati a rimanere nell'ambito della piccola cronaca contemporanea o addirittura abbassati al livello di una bruta animalità. Non si dedurrà però di qui, con il De Sanctis, un giudizio negativo sulla poesia. S'impone al contrario l'esigenza di comprendere nel suo significato storico e artistico questa prova ardita tentata dal poeta nel senso del realismo.

Si constata innanzi tutto che a dare consistenza al mondo dei f. non portano soltanto le figure dei peccatori, ma tutto quello che fa loro da accompagnamento e da sfondo. Così nei canti dei barattieri i diavoli, concepiti non secondo i dettami della teologia ma conformemente alle credenze popolari, hanno un risalto anche più forte dei dannati che essi perseguitano, e nella bolgia dei seminatori di discordie più delle persone dei peccatori s'impone l'orribile varietà delle loro pene, le quali tanto importano per la fantasia del poeta, che proprio qui egli per bocca di Maometto formula esplicitamente il principio che presiede a tutta la giustizia dell'oltretomba (If XXVIII 35-36), e fa poi pronunziare da Bertram dal Bornio la parola tecnica contrapasso (v. 142), con la quale quel principio assume valore di legge. Ma la maestria di D. nel rappresentare i f. porta a trasformare e ad approfondire, da qualunque punto di vista si consideri, quel realismo comico al quale egli s'informa; e se nella materia e nel linguaggio si dà chiaramente a conoscere l'adesione a una poetica schiettamente medievale, il nostro poeta allarga e drammatizza il suo mondo ben al di là delle convenzioni proprie del genere comico-realistico. Perciò accanto ai personaggi della piccola umanità che appartiene alla cronaca possono entrarne alcuni del mondo classico senza che tra gli uni e gli altri si verifichi uno iato: Taide, nota probabilmente attraverso una citazione del ciceroniano De Amicitia, è una sozza e scapigliata fante che si graffia con l'unghie merdose (XVIII 130-131) nella bolgia degli adulatori; gl'indovini la cui memoria era affidata al racconto dei grandi poeti antichi, quali Anfiarao, Tiresia, Aronta, Manto, Euripilo, soffrono pene non diverse da Michele Scotto, Guido Bonatti, Asdente e le più volgari fattucchiere; Mirra corre come uno spirito folletto tra i falsari non diversamente da Gianni Schicchi; Sinone, immortalato dai versi dell'alta ‛ tragedia ' virgiliana, non cede per nulla in truculenza e grossolanità al suo antagonista maestro Adamo. Ma questo sapiente contrappunto si attua soprattutto al livello dello stile, nei luoghi in cui la greve materia del mondo dei f. è fatta lievitare da una sapiente ripresa di temi figurativi attinti dalla poesia e dalla storia antica. Così le metamorfosi dei ladri, mentre seguono la falsariga di Lucano e di Ovidio, vengono a comporre un quadro di lucida e allucinante verità, nel quale il poeta trasfonde il suo concetto dell'implacabile giustizia divina. L'esordio del c. XXVIII fonde in una visione di lutti e di stragi la storia della fortunata terra / di Puglia fin dai tempi delle guerre puniche ai recenti fatti d'arme tra Svevi e Angioini, affinché l'animo del lettore si disponga agli orrori della nona bolgia. Per dare l'idea della sofferenza dei falsari valgono insieme lo spettacolo degli ospedali di Valdichiana, di Maremma e di Sardegna e quello ovidiano della vendetta di Giunone contro l'isola di Egina, come poi la follia di Atamante e di Ecuba è la giusta pietra di paragone per descrivere la furia dei falsari della persona. Ma con quale coscienza d'artista D. abbia sperimentato la poetica comico-realistica nei canti dei f. risulta soprattutto dall'originale impasto linguistico, che accoglie in sé e tempera le più ardite espressioni plebee e la sapienza dell'alta retorica: ed è quello che soltanto un'analisi puntuale arriva a dimostrare.

Per la bibliografia, v. MALEBOLGE e le voci relative ai vari tipi di peccato di frode.