CASATI, Gabrio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 21 (1978)

CASATI, Gabrio

Luigi Ambrosoli

Nacque a Milano il 2 ag. 1798 da Gaspare e da Luigia de' Capitani di Settala, in una famiglia aristocratica di proprietari terrieri. Il padre non aveva partecipato alle vicende politiche del periodo francese, ed era rimasto estraneo ai tentativi, effettuati alla caduta di Napoleone, di ottenere l'indipendenza per la Lombardia.

Il C. ebbe un'infanzia e un'adolescenza tranquille, si dedicò a studi di scienze esatte, ed ebbe per alcuni anni l'incarico onorifico di vicedirettore del liceo milanese di S. Alessandro. Negli anni 1821-23 egli si trovò coinvolto nel dramma familiare causato dall'arresto e dalla condanna di F. Confalonieri, che era marito della sorella maggiore Teresa. Nel dicembre 1823 accompagnò questa e il padre del Confalonieri a Vienna, per il tentativo estremo di ottenere la grazia dopo che l'imperatore aveva confermato la pena di morte. Nel gennaio successivo ritornò a Vienna per recare all'imperatore una petizione dei più noti cittadini di Milano e una lettera dell'arcivescovo K. G. Gaysruck a favore del cognato. Durante la prigionia di F. Confalonieri fu vicino a Teresa, che si spense nel 1830, e quando fu liberato, nel 1836, accorse a salutarlo a Gradisca.

La sua designazione, nel 1837, a podestà di Milano trovò giustificazione nella probità, nella serenità forse un po' conformistica del comportamento, negli ottimi rapporti con le altre famiglie dell'aristocrazia milanese e con quella parte della borghesia che emergeva negli studi e nelle attività economiche. La sua stretta parentela con un cospiratore condannato a morte poté apparire compensata dalla assoluta estraneità del C. e dei suoi familiari da manovre politiche prima e dopo la restaurazione austriaca; la sua scelta era stata probabilmente suggerita dalla preoccupazione del governo austriaco di riconciliarsi l'aristocrazia lombarda e cancellare i ricordi del 1823.

Intensa e costante fu l'attività del C. come podestà, presente nelle discussioni sui grandi problemi economici e finanziari della Lombardia e nei dibattiti scientifici, e sollecito nel rappresentare a Vienna le richieste e le lagnanze della popolazione milanese. Poco dopo essere stato insediato nella carica, prospettò al governo austriaco, assieme al podestà di Venezia, l'esigenza di alcune riforme nell'anuninistrazione del Lombardo-Veneto, ma non ottenne risultati. Nel 1838 il nuovo imperatore, Ferdinando, visitò Milano e fu accolto dalla municipalità e dalla aristocrazia con grandissimi onori che, dieci anni dopo, furono rimproverati al C. da C. Cattanco.

Il C. partecipò alle discussioni sui problemi ferroviari ai quali Milano fu molto interessata negli anni tra il 1840 e il 1846, nel corso dei quali furono inaugurate le strade ferrate da Milano a Monza e da Milano a Treviglio e fu iniziata la Milano-Venezia. Sul tracciato e sul finanziamento di quest'ultima impresa il C. si trovò, all'assemblea degli azionisti, in dissenso con C. Cattaneo. Nel 1843 fu inaugurata l'illuminazione a gas delle principali strade milanesi voluta dalla municipalità presieduta dal C. che operò anche per l'ordinato sviluppo urbanistico della città e per il miglioramento del suo aspetto esteriore.

Nel 1843 per il Congresso degli scienziati italiani che doveva tenersi a Milano nell'anno successivo, il C. pensò ad una pubblicazione che illustrasse i vari aspetti della Lombardia e affidò a C. Cattaneo l'incarico di preparare il prospetto dell'opera; ma il Cattaneo si tirò da parte non ritenendo sufficientemente rigorosa sul piano scientifico l'impostazione dell'opera che fu compilata da altri autori. Il Congresso degli scienziati vide, nel 1844, affluire a Milano i più distinti uomini di cultura della penisola. Qualche mese dopo il C. si recò a Vienna per presentare i due volumi su Milano ed il suo territorio, fatti predisporre dalla municipalità, alle autorità viennesi; incontrò il Metternich e alcuni ministri ai quali si sforzò di illustrare l'esigenza di sostanziali riforme economiche e amministrative e di una maggiore partecipazione dei sudditi alla vita civile. Non ottenne alcuna soddisfazione: il cancelliere evitò i discorsi sui problemi della Lombardia, gli altri ascoltarono richieste e proposte (una riguardava le strade ferrate) senza assumere impegno alcuno.

In realtà il governo austriaco non intendeva fare concessioni ai sudditi italiani che era convinto di poter controllare con il proprio collaudato apparato poliziesco. Così, il 30 dic. 1846, la polizia impedì che venisse esposta sulla facciata della chiesa di S. Fedele un'iscrizione per le esequie di F. Confalonieri, spentosi venti giorni prima in Svizzera: il C. partecipò alla cerimonia in onore del cognato con una rappresentanza dell'aristocrazia milanese.

Nel 1847 la campagna subì vaste alluvioni; la minaccia della carestia provocò l'aumento immediato dei prezzi del pane e delle patate. Il C. ritenne che il rincaro fosse da attribuire all'esportazione dei cereali e chiese pertanto al governo d'impedirla; poiché, nell'attesa della decisione di Vienna, i contadini erano insorti in varie parti della Lombardia, il C. ottenne che fosse l'autorità austriaca in Lombardia a bloccare l'esportazione dei cereali e i tumulti cessarono. Nel contempo il C. e la municipalità intervennero per procurare ai meno abbienti assegnazioni di pane a prezzo moderato. Nel giugno del 1847 il C. si recò a Torino per offrire il dono della municipalità milanese a Vittorio Emanuele, figlio di Carlo Alberto, che aveva sposato la arciduchessa Maria Adelaide, figlia del viceré del Lombardo-Veneto Ranieri. I suoi movimenti e i suoi incontri furono seguiti con attenzione dall'ambasciatore austriaco a Torino, preoccupato dei rapporti di amicizia esistenti tra l'aristocrazia milanese e la casa di Savoia.

La morte dell'arcivescovo K. G. Gaysruck indusse la municipalità ad avanzare la richiesta che il suo successore fosse italiano, richiamando l'antico diritto del clero all'elezione del vescovo. Il C. illustrò al viceré e al governatore austriaco questa aspirazione dei Milanesi e riuscì così a sventare la nomina, già in predicato, di un prelato austriaco. Così, in occasione dell'ingresso in Milano, nel settembre 1847, del nuovo arcivescovo, l'italiano monsignor B. Romilli, il C., d'accordo con gli altri esponenti della municipalità, lasciò che i festeggiamenti apparissero "una dimostrazione politica velata", irritando le autorità austriache. La polizia intervenne in armi quando comparvero i ritratti di Pio IX illuminati dalle fiaccole e si udirono le grida di evviva dirette al papa. Il C. protestò con il direttore generale della polizia, e alle risposte poco convincenti si rivolse direttamente al governatore, ma con risultato non dissimile. Il Cattaneo rileverà la contraddizione nel comportamento del C. che da un lato ispirava, o non faceva nulla per impedire, le manifestazioni popolari, dall'altro lato intendeva salvaguardare la "legalità" di fronte al governo austriaco.

Alla fine del 1847 il C. si recò a Torino per accompagnare il figlio minore che vi avrebbe frequentato l'accademia militare. Fu ricevuto dall'ambasciatore austriaco K. F. von Buol Schauenstein il quale, tra l'altro, gli lasciò intendere che non avrebbe gradito la presenza del podestà di Milano al ricevimento previsto per il compleanno di Carlo Alberto; ma il C. fu presente sia al pranzo, riservato a pochi intimi, sia al ricevimento al quale era invitato anche il corpo diplomatico. Al ritorno fu convocato dal governatore perché la lettera di protesta inviata dalla Congregazione municipale al governo in seguito ai fatti di settembre era stata pubblicata dal giornale liberale fiorentino Patria.

La situazione si aggravò quando, alla fine del 1847, i Milanesi decisero di rinunciare al fumo per privare di un'entrata l'erario austriaco. Il 2 genn. 1848 vi furono i primi incidenti tra i militari austriaci che passeggiavano fumando con ostentazione, e i cittadini che li invitavano a gettare i sigari e li beffeggiavano. Il C., che si aggirava per le piazze e le vie del centro cercando di calmare gli animi e invitando i militari alla moderazione, non fu riconosciuto e venne arrestato. Liberato immediatamente, si recò alla direzione generale di polizia a protestare seguito da una folla e raggiunto dagli assessori municipali. Il giorno successivo i gendarmi, usando le sciabole contro i cittadini, provocarono morti e feriti; non appena ebbe conoscenza dei fatti, il C. presentò una vibrata protesta al governo e al maresciallo Radetzky. Il 4 gennaio, insieme con la Congregazione municipale, esternò al viceré Ranieri il disappunto per gli incidenti, ma questi respinse ogni responsabilità dei suoi funzionari attribuendo la causa di quanto era avvenuto al comportamento dei cittadini. Il consenso all'atteggiamento del C. fu attestato da numerosi biglietti da visita recapitatigli; gli fu anche presentato un album con ottocento firme di illustri cittadini, tra i quali il Manzoni.

La notizia della rivoluzione di Vienna convinse il gruppo dei cospiratori antiaustriaci, composto di giovani aristocratici e di intellettuali borghesi, che era giunto il momento di passare all'azione; la sera del 17 marzo si riunì e predispose le richieste da presentare al governo. Informato il mattino successivo, il C. cercò di convincere i promotori a sospendere ogni iniziativa, lasciando intendere che assai presto il Regno di Sardegna avrebbe dichiarato guerra all'Austria: l'insurrezione popolare da sola non poteva vincere e si sarebbe risolta in un grande spargimento di sangue. Con qualche oscillazione, questa fu la linea da lui tenuta agli inizi della rivolta. Fin quando gli fu possibile, egli cercò di affermare l'esigenza della "legalità", cioè del rispetto delle procedure previste per avanzare le richieste al governo. Quando gli Austriaci, passando al contrattacco e sparando sui cittadini, impedirono ogni possibilità di dialogo tra autorità e popolazione, egli si aggrappò alle proposte di armistizio, la prima avanzata dallo stesso maresciallo Radetzky, la seconda promossa dai consoli stranieri a Milano; la decisa volontà popolare, espressa da C. Cattaneo, di proseguire la lotta lo costrinse ad accettare la scelta insurrezionale. Nel contempo operò per accelerare l'intervento di Carlo Alberto.

Durante le Cinque giornate la situazione fu dominata dal popolo combattente e dai democratici che controllavano il comitato di guerra; ma non appena, a liberazione avvenuta, si passò alla formazione del governo provvisorio, i moderati, sostenuti dall'esercito piemontese entrato in Milano dopo la fuga degli Austriaci, poterono controllare la situazione politica anche a causa della frattura avvenuta tra i giovani combattenti della borghesia, molti dei quali, con C. Correnti in primo piano, si schierarono a fianco del governo provvisorio che rivelò presto la sua ispirazione decisamente filopiemontese.

Il C., divenuto presidente del governo provvisorio, fu tra i più accesi fautori della monarchia sia per i legami che da tempo aveva con casa Savoia e per i sentimenti che provava verso Carlo Alberto, sia, specialmente, per la convinzione che la monarchia avrebbe tutelato i privilegi civili ed economici dell'aristocrazia meglio di un governo repubblicano e sarebbe stata più popolare, soprattutto tra le popolazioni delle campagne, essendo un'istituzione tradizionale, mentre la propaganda repubblicana del Mazzini era scarsamente penetrata tra le masse. Infine, il C. e i suoi amici furono sempre convinti che il popolo di Milano da solo non sarebbe riuscito a resistere alla controffensiva dell'Austria, e che, pertanto, si rendeva indispensabile l'intervento di un esercito regolare agguerrito come quello sardo. Su questi temi si scatenò l'accesa polemica tra moderati e democratici che non fu certo, come potrebbe apparire, uno scontro personale tra il C. e il Cattanco, ma lo scontro tra due concezioni del movimento di unificazione nazionale, connesse a due diverse concezioni della società: quella moderata preoccupata di non modificare i rapporti tra le classi, quella democratica corrispondente alla esigenza che la conquista dell'indipendenza fosse accompagnata da un profondo rinnovamento della società e dell'organizzazione dello Stato.

Pur operando in questo quadro, il C. avvertì con stupore e talvolta con rattenuta indignazione il comportamento degli emissari di Carlo Alberto, preoccupati esclusivamente di ottenere dichiarazioni di fedeltà o di dedizione prima (con la missione Martini, mentre i combattimenti in città erano ancora in corso), pretendendo dai Milanesi un formale invito perché l'esercito piemontese varcasse il Ticino, poi (a liberazione avvenuta) insistendo perché i Milanesi con un referendum approvassero immediatamente l'annessione al Regno sardo. Ancora il 5 aprile il C. dichiarava che le decisioni istituzionali sarebbero state prese a guerra finita. Mentre, però, i democratici chiedevano un'assemblea di rappresentanti dei governi provvisori delle città lombarde per decidere del futuro, egli si limitò a costituire il governo centrale provvisorio della Lombardia aggregando al governo provvisorio milanese, nel quale i moderati erano in netta maggioranza, un rappresentante per ciascuna provincia. Da questo momento, nonostante l'arrivo a Milano di G. Mazzini, il prevalere dei moderati fu indiscutibile; anche per i contrasti tra i democratici, e l'argomento centrale di ogni discussione fu la fusione con il Regno di Sardegna che i numerosi emissari civili e militari di Carlo Alberto richiedevano nel modo più pressante. Insieme con Durini e Borromeo, il C. fu subito favorevole a questo atto che i democratici giudicarono come una resa a discrezione alla casa di Savoia; passò così la proposta di un referendum popolare per decidere (o respingere, ma era certo che l'esito sarebbe stato positivo) l'annessione della Lombardia al Regno di Sardegna. L'equivoco ed oscuro episodio del 29 maggio, quando alcuni agitatori seguiti dalla folla penetrarono in palazzo Marino e, dopo aver maltrattato il C., che si era affacciato al balcone, imponendogli le dimissioni, proposero un governo provvisorio (tra i nomi proposti figurava anche quello del Cattaneo, che affermò sempre di essere stato del tutto estraneo alla faccenda) ma furono subito dispersi dai soldati accorsi, consentì ai moderati d'inscenare una violenta campagna contro i loro oppositori e di accelerare i tempi del referendum che, a grandissima maggioranza, sanzionò l'annessione. Da questo momento, però, l'atteggiamento del C. si fece molto critico nei confronti del Piemonte, del quale rilevò come la preoccupazione territoriale superasse quella dell'indipendenza e dell'unificazione italiana.

Così egli ebbe a deplorare il fatto che, ai primi di giugno, non fossero state ancora inviate in Lombardia (e quindi sul campo di battaglia) le unità dell'esercito regio nelle quali erano state inquadrate le reclute lombarde. Ma quando, nel momento più incerto della guerra, gli Austriaci si dichiararono disposti a concedere l'indipendenza alla Lombardia, il C. dichiarò di non voler ridurre a questione locale un problema nazionale. Più avanti, contro l'opinione degli ambienti responsabili piemontesi, fece propria la richiesta del popolo milanese di aprire trattative con la Francia per un'alleanza e per un aiuto che consentissero di superare il gravissimo momento, senza timore, in quella contingenza, di un accordo con il governo repubblicano d'oltralpe. In realtà, decisa la fusione., il C. apparve più sicuro di sé e meno preoccupato dei democratici.

Alla metà di luglio lasciò Milano per Torino, al fine di discutere direttamente con i ministri piemontesi i problemi della Lombardia. A Torino fu invitato, assieme al Collegno, a formare il nuovo ministero, un ministero che, tenendo conto dell'avvenuta annessione della Lombardia, ne rappresentasse tutta la popolazione. Non furono poche le difficoltà che dovette superare, vincendo le resistenze di Carlo Alberto che puntava ancora su uomini (come il ministro della Guerra Franzini) dal C. giudicati funesti. Il ministero Gasati entrò in carica il 28 luglio 1848 ed ebbe brevissima vita (cessò il 15 agosto) per il precipitare degli eventi, nonostante che il C., presentando alla Camera il governo, avesse dichiarato che ogni pensiero sarebbe stato rivolto alla guerra e che sarebbe stato fatto qualsiasi sforzo e sopportato qualsiasi sacrificio per l'indipendenza del paese.

V. Gioberti entrò a far parte del gabinetto come ministro senza portafoglio, e fu sua la proposta di inviare a Roma A. Rosmini con la missione di indurre il pontefice ad appoggiare il movimento per l'unità e l'indipendenza italiana: al papa avrebbe dovuto offrire il concordato e proporre la soluzione confederale. Il ministero subì l'ostilità degli ambienti politici e militari piemontesi, che vedevano con diffidenza la presidenza del Consiglio data ad un milanese. Il C. fece deliberare dal ministero la richiesta alla Francia di alleanza e di aiuto che il re fu costretto ad accettare. L'8 agosto il C. e il Gioberti si recarono dal re al campo presso Vigevano per invitarlo ad attendere la risposta francese prima di chiedere l'armistizio; ma questi fu irremovibile e il C. rassegnò le dimissioni del gabinetto.

Escluso dall'amnistia concessa dal Radetzky in ossequio alla clausola armistiziale, rimase in Piemonte e organizzò la Consulta di Lombardia, una specie di governo lombardo in esilio che operò dal settembre 1848 al maggio 1849. Nell'ottobre 1848 il C. era stato eletto deputato al Parlamento per il collegio di Rapallo. Nel marzo 1849, quando la sconfitta di Novara fece temere l'invasione austriaca del Piemonte, riparò in Francia, stabilendosi prima a Briançon poi a Lione.

Il 20 ott. 1853, divenuto cittadino del Regno di Sardegna, fu nominato senatore; a Milano intanto veniva incluso nell'elenco dei profughi politici che l'autorità austriaca decideva di colpire con il sequestro dei beni. Nel Senato subalpino fu fedele sostenitore della politica del Cavour. Ma in questi anni pesarono su di lui in modo determinante le perdite dei figli Gerolamo, capitano di Stato Maggiore nella V brigata dei corpo di spedizione sardo in Crimea, caduto alla Cernaia nel 1855, e Antonio, diplomatico, morto per malattia nel 1857. Lo sconforto fu aumentato dalla sensazione di essere stato messo da parte, tanto che, nel maggio 1859, sollevando alcune ironiche considerazioni di G. Massari (Diario dalle cento voci, a cura di E. Morelli, Bologna 1959, p. 238), chiese di poter prestar servizio come infermiere e trascorse quindi qualche tempo all'ospedale di Alessandria. Quando però, in seguito alle dimissioni del Cavour per l'armistizio di Villafranca, il governo fu affidato al La Mannora, il C. fu chiamato a farne parte come ministro della Pubblica Istruzione e, nonostante la breve durata del ministero (19 luglio 1859-21 genn. 1860), legò il suo nome alla riforma scolastica che riorganizzò l'istruzione e che fu recepita integralmente dallo Stato italiano unitario.

La legislazione scolastica dello Stato sardo era stata fissata dai provvedimenti del Bon Compagni (4 ott. 1848) e del Lanza (22 giugno 1857) al quale ultimo la legge Casati si riferirà in modo particolare. Composta di ben 379 articoli, essa sistemò una vastissima materia e diede organicità a una serie non ben coordinata di disposizioni. Alla legge si devono la suddivisione tra istruzione elementare, media e universitaria; la prima regolamentazione dell'istruzione privata e dei rapporti tra istruzione pubblica e privata; la limitazione dell'ingerenza della Chiesa nell'istruzione, pur ammettendo l'insegnamento della religione nella scuola elementare e la facoltà di istituire scuole confessionali sottoposte al controllo dello Stato.

La legge Casati presenta aspetti negativi individuabili nel centralismo burocratico dell'amministrazione scolastica, nella rigidità delle strutture e dei programmi, nell'assenza di un'istruzione professionale per il popolo, nei limiti imposti alla libertà dell'insegnante, nell'eccessivo peso finanziario attribuito ai comuni e alle province per l'istituzione delle scuole. In compenso essa introduce alcuni motivi positivi come la gratuità della scuola elementare e l'accenno a un obbligo di frequenza, la creazione delle scuola normale per la preparazione degli insegnanti, la definizione della figura dell'insegnante pubblico, la priorità assegnata alla scuola pubblica su quella privata, il superamento della distinzione, ai fini dell'istruzione, tra i due sessi, la relativa apertura degli accessi dalle scuole inferiori a quelle superiori e all'università. La legge Casati (13 nov. 1859) entrò in vigore immediatamente nel territorio del vecchio Regno di Sardegna e nella Lombardia liberata dall'occupazione austriaca e annessa al Piemonte. Nei mesi successivi, in relazione alla successiva annessione delle altre regioni, la legge fu estesa progressivamente al resto d'Italia e costituì l'ordinamento scolastico che durò, con qualche modifica, fino alla legge Gentile del 1923. Non mancarono opposizioni alla legge e alla sua estensione, senza o con modesti adattamenti, all'intera penisola. In realtà, il compito affidato ai comuni di provvedere all'istruzione elementare, se garantiva l'autonomia dell'ente locale, procurava gravi inconvenienti nelle regioni più povere. Il ritardo nella riduzione e nell'eliminazione dell'analfabetismo nel Mezzogiorno è in gran parte da attribuire alla carenza di mezzi finanziari dei comuni meridionali e all'insufficienza dei provvedimenti speciali per l'istruzione decisi, del resto, parecchi anni dopo l'unificazione.

Il C. ebbe una parte di rilievo nella crisi politica che portò alle dimissioni del ministero La Marmora e al ritomo del Cavour; fu lui, assieme al Dabormida, a recarsi il 4 genn. 1860 da Vittorio Emanuele II per opporsi, anche a.nome del presidente del Consiglio, al progetto del re di nominare Garibaldi ispettore della guardia nazionale. Il C., come il Dabormida e il La Marmora, riteneva ormai maturo, in relazione con gli sviluppi della situazione internazionale, il ritorno al governo del Cavour nei confronti dei quale, invece, Vittorio Emanuele II continuava a manifestare ostilità, accondiscendendo alle manovre della Sinistra capeggiata dal Rattazzi. Il 12 gennaio il C. rassegnò le dimissioni, alle quali seguirono quelle dell'intero gabinetto.

Il C. occupò la carica di vicepresidente e, dal 1865 al 1872, di presidente del Senato. Di formazione e convinzione cattolica, seguì con rammarico la progressiva frattura tra il nuovo Stato italiano e la Chiesa e avrebbe voluto contribuire a sanarla; si mantenne in corrispondenza con quella parte del clero che, come il padre Tosti, era incline alla conciliazione. Nel gennaio 1871 si associò in Senato all'opinione espressa dal più lucido interprete della "linea lombarda", S. Jacini, pronunciandosi contro il trasferimento della capitale a Roma perché le motivazioni addotte a giustificazione della grave decisione gli sembravano retoriche e contrastanti con l'opportunità politica e geografica.

Morì a Milano il 13 nov. 1873.

Fonti e Bibl.: La prima biografia del C . è quella del suo collaboratore e amico A. Mauri, G. C., in Scritti biografici, Firenze 1878, II, pp. 131-147. Sulla famiglia, la giovinezza e i rapporti con il Confalonieri, si vedano: Carteggio del conte Federico Confalonieri ed altri docum. spettanti alla sua biografia, a cura di G. Gallavresi, I-II, Milano 1913, passim;F. Confalonieri, Memorie e lettere, a c. di G. Casati, Milano 1890, passim. Sull'attività del C. quale podestà di Milano, sulla preparazione dell'insurrezione e sull'insurrezione risultano fondamentali le opere di: A. Casati, Milano e i principi di Casa Savoia, Torino 1859, passim;C. Casati, Nuove rivelaz. sui fatti di Milano nel 1847-48 tratte da docc. ined., Milano 1885, I-II, passim; Carteggio C.-Castagnetto (19 marzo-14 ott. 1848), a cura di V. Ferrari, Milano 1909; L. Marchetti, 1848. Il governo provvisorio della Lombardia, Milano 1948, passim;R. Mosca, Le relazioni del governo provvis. di Lombardia con i governi d'Italia e d'Europa, Milano 1950, passim;F. Curato, 1848-49. La Consulta straord. della Lombardia, Milano 1950, passim:tutte opere che utilizzano documenti importanti e che evidenziano gli atteggiamenti assunti dal C. nelle diverse circostanze di quegli anni. Tutte le fonti memorialistiche e documentarie sugli avvenimenti del 1848-49, da L. Torelli a G. Visconti Venosta, da F. Restelli a C. Cattaneo offrono ampi riferimenti al Casati. Per i rapporti con C. Cattaneo si veda, in particolare, l'Epistolario di C. Cattaneo a cura di R. Caddeo, I, (1820-1849), Firenze 1949, pp. 91, 121, 129, 133-147, 157, 162, 168, 229, 241, 253, 312, 342; l'interpretazione cattaneana degli avvenimenti del 1848 e dell'atteggiamento del C. è sviluppata da G. Salvemini in IPartiti polit. milanesi nel secolo XIX, in Scritti sul Risorgimento, Milano 1961, pp. 27-123. Per i rapporti con A. Manzoni si veda: A. Manzoni, Lettere, a cura di C. Arieti, Milano 1970, I, p. 436; II, pp. 81, 112, 452, 515 s.; III, pp. 178, 343, 345, 383. Sul ministero Casati dei luglio-agosto 1848 offre un contributo documentario importante L. Marchetti, Il secondo ministero costituz. di Carlo Alberto, Milano 1948, passim. Per gli anni successivi la pubblicazione che offre maggiori elementi di giudizio è quella di F. Curato, Alcune lettere di G. C. nei primi tempi del "Decennio di preparazione", in Risorgimento, X (1958), pp. 129-160. Assai vasta è la bibliografia sulla legge Casati; nella fondamentale opera di G. Talamo, La scuola. Dalla legge Casati all'inchiesta del 1864, Milano 1960, pp. 411-415 si trova un'esauriente nota bibliografica alla quale rimandiamo; ricordiamo, in aggiunta, D. Bertoni Jovine, La legge Casati, in IlConvegno di studi gramsciani, Roma 1962, pp. 441-447; Id., Storia dell'educaz. popolare in Italia, Bari 1965, pp. 131-167; C. G. Lacaita, Istruz. e sviluppo industr. in Italia 1859-1914, Firenze 1973, pp. 31, 53 s., 64 s., 80, 109-117. Sulla fine del ministero La Marmora cfr. M. Degli Alberti, Come cadde il primo ministero La Marmora e come si formò l'ultimo ministero Cavour. Le dimiss. del conte C. da ministro della P. I. nel 1860, in Rassegna contemporanea, I (1908), pp. 564-577. Sull'avversione del C. al trasferimento della capitale a Roma vi sono accenni in: F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, I, Le premesse, Bari 1951, pp. 219, 318, 5051, 533, 593, 652. Infine, per l'opinione del C. sulla questione romana e sui suoi rapporti con i cattolici liberali si rimanda a La conciliazione tra l'Italia e il Papato nelle lettere del p. Luigi Tosti e del sen. G. C. ..., a cura di F. Quintavalle, Milano 1907.

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