SALLUSTIO, Gaio Crispo

Enciclopedia Italiana (1936)

SALLUSTIO, Gaio Crispo (C. Sallustius Crispus)

Gino Funaioli

Storico romano, un Sabino di Amiterno, nato nell'86 a. C. e morto secondo ogni verosimiglianza nel 35, quattro anni prima di Azio. La sua vita cade in età se altra mai tempestosa, fra il rovinare della repubblica e il sorgere dell'impero. Temperamento passionale, egli vive con intensità gli urti e le aspirazioni del suo tempo; spirito pensoso, si fa addentro ai problemi politici e morali inerenti alle cose che racconta; conscio di quanto possano le energie dei singoli nell'operare i fatti, è curiosissimo di psicologia e di tempre umane. Venuto a Roma dalla nativa Amiterno probabilmente assai giovane, si trova presto coinvolto nel turbinio delle pubbliche vicissitudini: è questore nel 55 o 54, tribuno della plebe nel 52, il movimentato anno di Clodio e di Milone, poi, a quanto sembra, legatus pro quaestore in Siria nel 50: espulso dal Senato ad opera del censore pompeiano Appio Claudio Pulcro, ricompare di lì a poco a fianco di Cesare già apertamente in armi contro Pompeo e va in aiuto di Antonio rimasto chiuso nell'isola di Curictae; l'odierna Veglia nel Carnaro; la fortuna non gli sorride, ma Cesare lo rifà questore e lo rimette in Senato, certo dopo la vittoria farsalica (8 agosto 48). Nel 47 la fiducia del generale vittorioso lo invia presso le legioni in rivolta che dalla campania si dovevano imbarcare per l'Africa all'estremo cimento. Alla fine del 47 S. segue Cesare in Africa, nel 46 si segnala in qualità di pretore sul mare, dopo Tapso (6 aprile 46) riceve il governatorato dell'Africa nova. Quanto sia restato in Numidia non sappiamo: sicura è una cosa, che con gli Idi di marzo del 44, e qualcuno pretende ancor prima, la sua carriera politica è finita: uscito dal pelago alla riva, nel silenzio del suo ritiro si raccoglie a meditare sugli avvenimenti che hanno dato il tracollo alla repubblica e condotto al presente stato di cose. Già in gioventù aveva sentito vocazione per la storia e concepito disegni di narratore, ma sete di gloria lo aveva trascinato, via da questi primi vagheggiamenti, verso l'azione: il disinganno lo rimena ora sulla via a cui da natura era chiamato, alla conquista definitiva di sé stesso. In lui c'è una fervida e complessa umanità, che sa debolezze e miserie, odî, ire di parte, rissosità, ambizioni e brama di onori, come confessa da sé S. con sentimento di mortificazione, una volta fattosi in disparte; c'è una individualità riccamente dotata, a cui non sono estranee bizzarrie di atteggiamenti e di contraddizioni, onde un preconcetto polemico ha fatto velo a intendere lo scrittore accanto all'uomo. Ma per un'equa valutazione dell'uomo conviene non dimenticare quali esigenze ci sono nelle scabrose vie del potere, e tener presente il clima spirituale d'un momento storico così pieno d'intrinseche disarmonie; infine, occorre oculatezza e discrezione nell'accogliere voci o interpretare fatti che, a dir poco, la fiera avversione politica può aver travisati, deformati, esagerati. Per S. c'è questo: che d'una acerbissima satura fu vittima da parte di Pompeo Leneo, un liberto di Pompeo, la quale sorse in risposta alla caratterizzazione da lui fatta di Pompeo nelle Historiae come di uomo oris probi animo inverecundo; e di costì fluisce senza dubbio la sopravissuta filippica antisallustiana dello pseudo-Cicerone, declamatoria denigrazione dovuta a un retore dell'età imperiale. Ebbene, se si sta alla sostanza dei dati trasmessici e si lasciano le genericità e le generalizzazioni di certe accuse, restano insomma a carico di S. una galante avventura giovanile eon Fausta, la malfamata figlia di Silla e sposa di Milone, l'espulsione dal Senato, e le accumulate ricchezze del governo africano, dalle quali lo pseudo-Cicerone fa sorgere i magnifici Horti Sallustiani fra il Quirinale e il Pincio. Il trascorso con Fausta meno da fare certamente avrebbe dato alla critica antica e moderna, se non si fosse trattato della moglie d'uno degli uomini più fieramente ostili a S. e da lui osteggiati: di qui la sua piccante sapidezza. Quanto ci sarà di vero? Con non celata acrimonia esponeva il fatto Varrone nel logistorico Pius, certo con l'intendimento di reagire allo spirito col quale S. aveva tratteggiato Q. Metello Pio, il proconsole di Spagna che fu in guerra con Sertorio. Fonte di grande autorità, Varrone; ma, a giudizio stesso di Cicerone suo amico e compagno di fede politica, da usare con cautela quando è in giuoco la passionalità del pompeiano; e su uno screzio così delicato, occorso fra Milone e il focoso suo avversario, che pur si prestava da sé ad essere arma di battaglia per un oratore politico o non trascurabile materia di giudizio per uno storico, tace Cicerone nella Miloniana, non dice parola Asconio Pediano interpretando e lumeggiando la Miloniana; che se Asconio vi accennava invece secondo gli scolî pseudoasconiani ad Orazio in una biografia di Sallustio, cosa troppo naturale per un biografo attento e ottimamente informato, gli scolî però riferendo l'aneddoto da Asconio stesso si esprimono con un prudente dicitur. La cacciata dal Senato del cesariano S. per mezzo di Appio Claudio Pulcro, avvenuta a dire dell'Invettiva pseudo-ciceroniana sotto l'imputazione di scostumatezza, apparisce né più né meno che un episodio di partiti in contesa presso Cassio Dione, che pur deriva da autore a S. non favorevole. Sembra invece davvero che il proconsole dell'Africa non si comportasse diversamente dai tanti Romani, a cui l'amministrazione delle provincie era un buon affare: il punto oscuro per noi - ma anche, in buona fede, per i contemporanei di S.? - è questo. E nondimeno, malgrado tutte le manchevolezze che in lui ci possono essere state, si sente leggendo i suoi scritti che egli ha nel fondo da natura e ha tratto dalle esperienze un sincero disgusto del male; e, probabilmente allo scomparire di Cesare, in cui aveva creduto, lascia la politica, fonte riconosciuta di aberrazioni, per rifugiarsi nauseato nel proprio io e dalle altezze d'una severa coscienza giudicare.

Immagini vive di ciò che S. fu da giovane o di come divenne ciò che fu più tardi, quale lo conosciamo dalle composizioni storiche, sono i cosiddetti Pseudo-Sallustiana, oramai dopo il lungo tergiversare della critica quasi universalmente a lui rivendicati. L'Invettiva contro Cicerone, documentataci per sallustiana, oltreché dalla tradizione manoscritta, dall'autorità d'un Quintiliano, né si vede per che motivi a sì valide attestazioni sarebbe da negar credito, ha tutte le apparenze di esser nata nel 54, e, insieme particolarmente con la Pisoniana di Cicerone, fa toccar con mano a che grado di violenza trascendesse la polemica politica dell'estrema repubblica perfino nella veneranda aula del Senato: l'odio si arma dell'ingiuria, del sarcasmo, della parodia; la caricatura di Cicerone nel mondo antico ha qui i suoi inizî. Di poco posteriori sono le Epistulae ad Caesarem, non testimoniateci direttamente per sallustiane, ma tramandate in una raccolta con le orazioni e le epistole del Catilina, della Giugurtina e delle Historiae nel Codice Vaticano 3864 del sec. IX-X, in modo che le orazioni portano l'indicazione della paternità, non però le Epistulae che a quelle seguono, né, si badi, quelle detratte dalle monografie e dalle Historiae, né le due a Cesare. Le indagini dell'ultimo ventennio hanno convinto quasi tutti che si tratta di genuine produzioni sallustiane; materia, spirito e forma convengono egregiamente allo storico. Con l'epistola cronologicamente anteriore, che occupa il secondo posto nell'ordine del Codice vaticano, si è, a quanto sembra, nel 50-49 a. C.: illimitata fiducia in Cesare che spazzerà via gli abusi del prepotere, gli asservimenti a interessi privati o partigiani, le violenze che hanno reso irriconoscibile lo stato antico; la forza, su cui questo poggiava, equilibrio fra autorità senatoria e possanza popolare, è caduta: urbanesimo e conseguente sviluppo del proletariato furono cagione dei guai presenti, che, mentre della libertà fanno mercato le folle, sono il prevalere d'una classe, la sete del dominio e dell'oro, il furore delle discordie civili. Un ideale pulsa qui che è nato, ci siano o no influssi di concezioni greche, dalla realtà romana ed ha i suoi antecedenti nel pensiero dei Gracchi. L'altra epistola, diretta a Cesare oramai padrone di Roma, si appunta già essenzialmente sul motivo che poi per lo storico sarà centralissimo, la moralità; il male sta nei corrotti costumi, la restaurazione degli spiriti urge; esso il compito che spetta alla eximia virtus di Cesare; il dittatore è riguardato al disopra dei partiti, quale rappresentante degl'interessi generali; più dall'alto, e con maggiore oggettività, sono contemplate le cose. Ci s'incammina verso le opere storiche, le quali però rispetto a Cesare, secondo critici recentissimi, testimonierebbero in S. un deciso cambiamento d'animo, dopoché egli lo avrebbe deluso nella missione etica del pubblico reggitore, donde certi spunti narrativi e certe figurazioni in cui si vuol trovare sapore e gusto anticesariani. Siamo con ciò ben lontani dalle vecchie idee, per le quali in S. si vedeva dappertutto, aperto od occulto, il fervido ammiratore di Cesare, il tendenzioso narratore di parte cesariana. Perché: S. ha fatto argomento dei suoi libri vicende di cui egli stesso è stato spettatore, se non diretto attore, o tali che con quelle sono cronologicamente e intimamente legate; è partito dalla congiura di Catilina dell'anno 63, è risalito di là alla guerra giugurtina (112-105), è ridisceso quindi con le Historiae al periodo inquieto che susseguì la morte di Silla e condusse alla fine dell'oligarchia sillana (78-70), e si è fermato, probabilmente perché sorpreso dalla morte, all'anno 67, quando Cesare, il parente di Mario, il genero di Cinna, preparava il suo avvento accostandosi a Crasso, capo della democrazia; ha tracciato, in altre parole, linee fondamentali nella storia della rivoluzione popolare dopo i Gracchi. Una realtà dunque, che prima di essere pensata è stata vissuta, di fronte alla quale nessuno può attendersi un'assoluta obiettività di esposizione, quella umanamente possibile, e tanto meno da un temperamento affettivo o da uno storico artista quale S. Le due opposte correnti critiche, di che abbiamo detto, dimostrano quanto è difficile indovinare e afferrare l'anima segreta dello scrittore, tutte le sue simpatie e antipatie, i suoi disdegni e i suoi amori: codesta è stata anzi una delle grandi seduzioni esercitate da S., e questo è anche uno dei segni della sua aristocrazia di storico, che nasconde o contiene ciò che sente, fa parlare e vivere le cose piuttosto che farsi avanti egli stesso. Sta il fatto che una chiara tendenza democratica si rivela in lui, c'è, se piace meglio, un credo politico, oltreché morale e filosofico, che investe l'intera narrazione e traspare a ogni pagina, c'è una pulsante e prepotente umanità, se si ama chiamarla, partigiana, che occhieggia, balena, colorisce, ride o sorride senza comparire, o alle volte anche si scopre, come quando si dà ragione della scelta dell'argomento per la Giugurtina: primum quia magnum et atrox variaque fortuna fuit (bellum), dehinc quia tunc primum superbiae nobilitatis obviam itum est. Ma riconosciuto questo, bisogna subito soggiungere che dall'osservatorio di una superiore coscienza morale S. sa anche rendere giustizia, talora splendidamente, ad uomini del partito conservatore del pari che del democratico, e racconta e dipinge con mal dissimulato fastidio le degenerazioni di qualsiasi classe o stato o personaggio politico, anche dei capi popolari. Noi non riusciamo bensì a scorgere nettamente, come fa più di un critico, nel Catilina i pretesi disinganni che Cesare a lui avrebbe procurato col suo dominio, i riflessi d'una contrarietà per ideali da Cesare frustrati o infranti; a noi, se osserviamo attentamente, sfuggono i pretesi spiriti antimonarchici dell'opera, invece dei quali troviamo vedute che superando determinate forme di governo aborrono dai pervertimenti e dai tralignamenti; nemmeno certe punte antimariane che si è creduto di sorprendere nella Giugurtina hanno, per noi, una vera consistenza: e tuttavia alla asserita e proclamata tendenziosità, più che tendenza democratica, S. può contrapporre, per esempio, nel Catilina la figura dell'aristocratico Catone, la quale, nella sovrana e incrollabile austerità antica che le è propria, fa ben degno riscontro alla generosa e magnifica del democratico Cesare, - il genio del bene e il genio della politica -, né giova acuire il contrasto dei giustapposti medaglioni o delle antitetiche orazioni dei due uomini per tirar fuori sottintese e sommesse ostilità contro l'uno o predilezioni per l'altro; ed è certo altresì, e oggi più vastamente e più dal fondo venuto alla luce, che S. scegliendo con spregiudicatezza le sue fonti scritte d'informazione è andato incontro volentieri in ogni lavoro a testimonianze d'origine aristocratica, quali Rutilio Rufo, Silla, Posidonio, Cicerone o chi altri. Il problema dunque piuttosto è questo: l'innegabile parzialità che in S. c'è per la democrazia porta a voluti travisamenti, o è ingenua e schietta? è alterazione o sincera visione di eventi e di fisionomie che nasce dalla fede del politico, dalla sua spiritualità, dalle sorgenti anche e dalle memorie a cui egli attinge? Molto si è discusso sulla veridicità di S., ma attribuirgli la mira di falsificare la storia per fini suoi non sembra oramai accettabile: tanto per le Historiae che più dalla critica furono risparmiate, quanto per il Catilina e la Giugurtina che a molteplici rilievi e controversie diedero luogo. Le tinte democratiche delle due monografie sono certo spiccate, più che a qualcuno non paia, ma nel Catilina Cicerone, nonostante qualche frizzo e sbirciata traversa, che, si voglia o non si voglia riconoscere, s'attira dallo scrittore, occupa pur in sostanza il posto che in effetto tenne il console del 63, e nella Giugurtina l'assai discutibile e ai nostri giorni validamente infirmata motivazione che della guerra si dà non proviene da S. ma dalla storiografia popolare, né suona poi più contraria al vero che l'opposta versione aristocratica. Comunque: il pubblicista politico si evolve in S. sempre più a storico, e il processo è compiuto col capolavoro, le Historiae, di cui pur troppo ci rimangono solo le orazioni - di Lepido, Filippo, Cotta, Licinio Macro - e le lettere - di Pompeo e Mitridate - dal Codice vaticano sopra accennato e i larghi frammenti trasmessici dagli antichi o ricuperati dai ritagli, in parte palinsesti, che furono scoperti fra il 1817 e il 1885 nel manoscritto Floriacense (sec. IV-V). Risulta di costì che S. nell'ultima sua opera si è levato più su dei partiti, ha meglio penetrato di essi indistintamente le luci sinistre, l'egoismo di chi li muove, l'incapacità di certi prepotenti a governare, onde il profilarsi della monarchia.

Nelle Historiae culmina altresì il divenire dei principî etico-politici entro lo spirito di S. Il politico, che nella riforma morale aveva veduto il compito dei reggitori di stato, una volta risospinto dalle amarezze nell'interiorità di sé stesso, si era sentito urgere la domanda: perché siffatta fatalità di cose? E prima gli si era offerto alla meditazione storica uno degli avvenimenti più mossi del vicino passato, la congiura di Catilina, su cui proprio allora ridestava l'interesse una postuma operetta ciceroniana, il De consiliis suis. La rivoluzione gli si presentava subito costì come un prodotto dello scadimento e della rovina dei costumi pubblici e privati, senza che si possa determinare quanto su questa teoretica spiegazione della seriore storia repubblicana di Roma abbiano agito Greci o Romani, Polibio, Panezio, Posidonio, le idee del circolo di Scipione l'Emiliano in genere, Rutilio Rufo, il Vecchio Catone, Scipione Nasica e i dibattiti del Senato sulla questione se Cartagine si dovesse distruggere o mantenere quale metus publicus a salvaguardia di equilibrio morale. Nel Catilina non è ancor chiaramente espresso il motivo del metus hostilis o punicus come freno al mal fare, e la vecchia Roma poi è ritratta a rosee pennellate romantiche, possibilmente di derivazione posidoniana. Un pessimismo più acuto, una visione più consona alla realtà si fa strada nella Giugurtina, si afferma addirittura nelle Historiae, e un pensiero via via più originale si viene maturando, che certo ha i suoi primi addentellati fra Greci e Romani insieme. Nel giro degli anni, che abbracciano le Historiae, quelli che tengono dietro immediatamente alla dominatio Sullae, S. trova la fase conchiusiva della degenerazione morale e politica di Roma; da allora dilaga la corruzione e trionfa l'ambitio, l'avaritia, la luxuria; qui il sistema d'idee che è di S. ha la sua piena conferma nei fatti, e da una sfera più elevata egli esplora le forze che muovono il mondo.

Artisticamente ancora c'è un progresso fra il Catilina, la Giugurtina e le Historiae, di che, nelle condizioni in cui abbiamo le Historiae, la documentazione più chiara sono le orazioni pronunziate in momenti decisivi dai creatori della storia. Nessuna orazione del Catilina vale indubbiamente, come pittura storica e come caratterizzazione individuale, quella di Mario nella Giugurtina; nelle Historiae il timbro della voce di chi parla si è fatto più personale per forma e per contenuto, gli uomini si delineano attraverso il dire con nitidezza estrema nei loro segni inconfondibili, e agiscono per di più in perfetta armonia con le circostanze storiche. Anche il proemio filosofico-morale, bello del resto, se pur non novissimo di pensamenti, nella sua vibrante, incisiva e nobile sentenziosità, e caldo di accenti intimi, di autoconfessioni, prima nella Giugurtina si abbrevia rispetto alle proporzioni dell'opera, quindi nelle Historiae sparisce per dar luogo senz'altro alla narrazione. E questa è condotta con ognor crescente euritmia costruttiva, e converte ognor più in azione il sentimento dello scrittore, in una drammaticità sempre più severa, vigilata e profonda. Già artista autentico è S. dovunque. La storiografia romana vera e propria, dopo i lunghi avvii, sorge con lui; ed è ragionamento, intuito, passione, fantasia, ricerca di anime, rappresentazione di vita. Dalla maniera ellenistica è lontana, dal correr dietro all'aneddoto e dal drammatizzare rifugge, del dramma genuino ha il ritmo e in più d'un tratto la partitura; è austera alla Tucidide. Il momento psicologico la domina; psiche d'eroi del bene e del male, di nobili e di plebei, di uomini e di donne, di folle: Catilina, Cesare, Latone, Sempronia, Mario, Silla, Memmio, Giugurta e gli altri principi africani, Lepido, il console Filippo, il tribuno Licinio Macro, Pompeo, il mostruoso Mitridate, il cavalleresco Sertorio, il prode Spartaco, e così via, tutti ridati nelle loro mosse, in linee indimenticabili. E di mirabile efficacia sono lo stile e l'espressione: risalti di chiaroscuri, un fare breve e denso, forte e rotto, un veloce passare di cosa in cosa senza soste o indugi, senza sforzi o arrotondamenti, contrasti di pensiero e di strutture, coloriture di suoni, arditezze di sintassi, linguaggio fresco di potenza creativa, che sa atteggiare la gravità dei moti spirituali al solenne tono antico ma sa anche le audacie del nuovo.

A un'arte simile non poteva mancare fortuna. Dapprima vivaci furono gli attacchi personali e letterarî diretti a S., ma già con Seneca il Vecchio e sotto i Cesari della casa Giulio-Claudia egli è messo alla pari di Tucidide e variamente tolto a modello, imitato o sfruttato. Anche Virgilio nelle Georgiche gli dà segno della sua estimazione. Col movimento classicistico sotto i Flavî è considerato come lo storico romano per eccellenza. Tacito lo ammira e ne fa il suo autore. All'età di Adriano è tradotto in greco, un onore che pochi Latini ebbero. L'alta considerazione resta invariata con l'indirizzo frontoniano. Verso il 200 un illustre esegeta, Emilio Aspro, lo commenta insieme con Virgilio e con Terenzio. Nei secoli IV e V è in auge presso pagani e cristiani; S. Agostino lo definisce nobilitatae veritatis hìstoricus. Il primo Medioevo non perde le sue tracce; l'era carolingia ne riallarga la conoscenza. Dal sec. X al XV fioriscono le sue trascrizioni nei monasteri di Europa. Alla vigilia del Rinascimento Giovanni Villani lo saluta "grande dottore S.". Brunetto Latini dà veste italiana e francese a passi del Catilina; Bartolommeo da S. Concordio traduce le monografie; il Petrarca le ha nella sua biblioteca; gli umanisti le leggono con fervore; il Cinquecento, secolo di meditazioni politiche, fa lo storico patrimonio di tutte le nazioni colte. La letteratura drammatica, dal periodo elisabettiano ai giorni nostri, s'ispira a lui. Vittorio Alfieri lo chiama "divino" e ne riplasma le bellezze in una stringata versione piena d'energia. La critica filologica è al lavoro specialmente a datare dal secolo XIX; le correnti romantiche hanno operato su di essa anche in riguardo a S.

Codici ed edizioni. - Editio princeps delle monografie, a Venezia, 1470; delle orazioni ed epistole delle Historiae, insieme con l'Invectiva e le Epistulae ad Caesarem, cinque anni più tardi. Edizioni totali dal sec. XVI in poi, tra cui quella di L. Carrio, Anversa, 1573 (coi frammenti delle Historiae); più notevole, G. Corte, Lipsia 1737. Nuove vie apre all'esegesi F. Kritz, voll. 3, ivi 1828, 1834, 1853; per l'ampiezza dell'apparato critico, pur indigesto e mal certo, R. Dietsch, voll. 2, ivi 1859. Sicurezza di materiali critici solo con H. Jordan, Berlino, 3ª ed., 1887, ma per il Catilina e la Giugurtina con unilaterale sopravalutazione del codice Parigino 16024 (Sorb. 500), sec. X. Oggi più solida e più vasta penetrazione del vero, dovuta soprattutto ad A. W. Ahlberg, Prolegomena in Sallustium, Göteborg 1911, ed edizioni di Lipsia 1919 (maggiore), 1925 (minore), 2ª ed. 1929; ottima la raccolta dei frammenti delle Historiae a cura di B. Maurenbrecher, voll. 2, Lipsia 1891, 1893; l'Invettiva e le Epistole a Cesare, ed. A. Kurfess, ivi, 2ª ed., 1930; v. anche Salluste, a cura di B. Ornstein e trad. I. Roman, Parigi, Les belles lettres, 1924, ed E. Höhne, Die Geschichte des Sallusttextes im Altertum, Monaco 1927 (P. Wessner, Philologische Wochenschrift, XLIX, 1929, p. 434 segg.). Edizione commentata delle monografie con buona analisi linguistica, E. W. Fabri, Norimberga, 2ª ed., 1845. Per il resto, delle monografie ci sono edizioni scolastiche, quali di F. Ramorino, Torino 1920; di Iacobs-Wirz-Kurfess, Berlino 1922; di R. Lallier, Parigi 1912.

Ampia trattazione dei problemi sallustiani in G. Funaioli, Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I A, 2, stampata 1915, uscita 1920, coll. 1913-55, oltre a Schanz-Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, 4ª ed., Monaco 1927, pagina 362 segg. Posteriormente al Pauly-Wissowa, con maggiore interesse si è agitato il problema della sincerità storica di Sallustio: A. Rosenberg, Einleitung und Quellenkunde zur römischen Geschichte, Berlino 1921, p. 174 segg.; W. Baehrens, Neue Wege zur Antike, IV, Lipsia 1926, p. 33 segg.; H. Drexler, in Neue Jahrbücher, IV (1928), p. 390 segg.; F. Klingner, in Hermes, LXIII (1928), p. 165 segg.; O. Seel, Sallust, Lipsia 1930 (G. Funaioli, Boll. di filologia classica, 1930-31, p. 129 segg.); E. Skard, in Symbolae Osloenses, 1930, p. 69 segg.; E. Bolaffi, in Rivista indo-greco-italica, XV (1931), fasc. 1-2, p. 1 segg.; E. Cesareo, Sallustio, Firenze 1931 (con tendenze alla maniera romanzata); G. De Sanctis, Problemi di storia antica, Bari 1932, pp. 187 segg., 215 segg.; W. Schur, Sallust als Historiker, Stoccarda 1934 (cfr. G. Funaioli, in Boll. di filol. class., 1935, p. 10 segg.); K. Latte, Sallust, Lipsia 1935. Sull'arte: L. Alheit, Charakterdarstellung bei Sallust, in Neue Jahrbücher, XLIII (1919), p. 17 segg.; F. Egermann, Die Proömien zu den Werken des Sallust, in Sitzungsberichte d. Ak. d. Wiss in Wien, (phil.-hist Cl.) CCXIV (1932). - Sui cosiddetti Pseudo-Sallustiana: E. Meyer, Caesars Monarchie, Stoccarda 1919, p. 563 segg.; O. Gebhardt, Sallust als politischer Publizist während des Bürgerkrieges, Diss., Halle 1920; A. Holbhorn, De Sallustii epistulis, Diss., Berlino 1926; W. Kroll, in Hermes, LXII, (1927), p. 373 segg.; O. Gebhardt, in Philol. Wochenschrift, XLVIII, (1928), p. 811; Wohleben, ibid., p. 1242 segg.; E. Birger, Studien zu den Epistulae ad Caesarem senem, Lund 1931; B. Edmar, Studien zu den Epistulae ad Caesarem, ivi 1931. - Sulla lingua: W. Kroll, in Glotta, XV, (1927), p. 1 segg.; E. Skard, Ennius und Sallustius, Oslo 1933. - Sulla fortuna di S.: H. Speck, Catilina im Drama der Weltliteratur, Lipsia 1906; E. Cesareo, Le traduzioni italiane delle monografie di S., Palermo 1924.