Gracco, Gaio Sempronio

Dizionario di Storia (2010)

Gracco, Gaio Sempronio


Tribuno della plebe (n. 154-m. 121 a.C.). Figlio di Tiberio Sempronio Gracco, console nel 177 e nel 163, e di Cornelia, figlia di Scipione l’Africano; fratello minore di Tiberio Sempronio. Ventenne seguì Scipione Emiliano nella guerra di Numanzia e (133) fece parte della commissione triumvirale incaricata di eseguire la legge agraria rogata dal fratello. Inviato questore in Sardegna e ivi trattenuto (126-24), abbandonò di proprio arbitrio, contro l’uso, il suo posto per presentare la candidatura a tribuno della plebe; nel 123 fu eletto a tale carica e anche l’anno seguente riuscì a farsi confermare nel tribunato. Propose una serie di leggi che miravano organicamente alla repressione della preponderanza del Senato e al ristabilimento della effettiva sovranità del popolo. Nel primo tribunato, per vendicare la strage del fratello e dei suoi partigiani, fece approvare una legge che dichiarava illegali le uccisioni dei cittadini eseguite senza giudizio popolare e con una legge frumentaria, oltre ad alleviare i proletari, intese accattivarsi gli elettori. Nel secondo tribunato, emergono per importanza la legge agraria, che confermava quella del fratello, le leggi per la fondazione di colonie a Taranto e a Cartagine (con ciò si violava il principio della limitazione delle colonie all’Italia, ma si concedeva più ampio respiro all’emigrazione proletaria), la legge che stabiliva che le liste dei giurati per i processi civili e per le quaestiones straordinarie penali fossero costituite di cavalieri e quella che stabiliva che fosse appaltata a Roma dai censori la riscossione della decima dalla provincia d’Asia: con queste due ultime leggi egli mirò a sollevare l’ordine equestre e ad attirarlo nella propria orbita politica, servendosene come strumento nella lotta contro l’aristocrazia. Per guadagnare una fedele massa di cittadini e per risolvere a un tempo un problema di giustizia verso i vecchi alleati italici che si presentava ormai impellente, G. propose che fosse concessa la cittadinanza ai latini e la latinità agli italici, ma per l’opposizione di un tribuno, M. Livio Druso, la proposta cadde con grave danno del prestigio di G. e con non meno grave delusione dei latini e degli italici. E di Druso il patriziato si servì ancora per allettare la plebe con promesse demagogiche, staccandola dal suo antico beniamino. Infatti quand’egli pose la candidatura al terzo tribunato non fu rieletto. Intanto, salito al consolato Lucio Opimio, uno dei più risoluti capi dell’opposizione oligarchica, l’opera di G. ebbe a subire attacchi decisivi che culminarono nella dichiarazione degli indovini che la colonia di Cartagine era infausta, sì che il Senato propose l’abrogazione della legge relativa alla fondazione. G. si presentò a difenderla in Campidoglio il giorno della votazione, ma scoppiarono gravi torbidi, e Opimio ebbe pieni poteri per salvare la Repubblica. G. e i suoi si asserragliarono sull’Aventino, ma quando Opimio, assediatili, promise impunità a chi si fosse allontanato, quasi tutti cessarono la resistenza: G. si fece uccidere da un servo nel lucus Furrinae sulle pendici del Gianicolo. Circa 3000 suoi partigiani perirono nelle carceri. La memoria dei Gracchi fu maledetta e si impedì persino alla madre di vestire il lutto per la morte del figlio. La sconfitta dei Gracchi consolidò apparentemente il potere dell’aristocrazia, ma dimostrò anche che questa, rifiutandosi a qualsiasi soddisfazione delle esigenze dei plebei e degli italici, non si reggeva ormai più che con la violenza.

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