GRACCO, Gaio Sempronio

Enciclopedia Italiana (1933)

GRACCO, Gaio Sempronio (C. Sempronius Ti.f. P. n. Gracchus)

Giuseppe Cardinali

Nacque nel 154 a. C. da Tiberio Sempronio Gracco, console nel 177 e nel 163 a. C. (v.) e da Cornelia figlia del primo Africano, donna di singolari virtù e di doti elevatissime. Sposò una figlia di P. Licinio Crasso Muciano. Nel 134 a. C. seguì Scipione Emiliano nella guerra di Numanzia, e nel 133, quando il fratello ebbe fatto approvare la sua rogazione agraria, fu eletto a far parte della commissione triumvirale incaricata dell'esecuzione della legge; pare che egli sia stato tra quelli che incuorarono gl'Italici nella speranza di conseguire la cittadinanza romana, ma nel 126 dovette seguire come questore nella Sardegna il console L. Aurelio Oreste e, per prolungare la sua assenza da Roma, gli avversarî prorogarono il comando al console e si astennero dal mandargli un successore. Ma, nella primavera del 124, G. lasciò il suo console, e riapparve improvvisamente a Roma. I censori l'accusarono di aver disertato il suo posto, ma egli si difese con due splendide orazioni, e nell'estate di quell'anno, con concorso di elettori mai visto prima di allora, fu eletto tribuno, quarto soltanto per ordine di voti, il che dimostra quanto nerbo di seguaci gli aristocratici avessera tra il popolo.

Così G. conquistava la tribuna, nella quale era chiamato a svolgere la missione avuta in retaggio dal fratello. Lo animava la stessa nobiltà di sentimenti, lo stesso disinteresse, la stessa passione di simpatia per i diseredati dalla sorte; lo fortificava la stessa educazione elevatissima, la stessa cultura raffinata, la stessa austera purità di costumi; ma la sua indole era meno fantastica, la sua capacità più versatile, la sua sensibilità politica più pronta. E a ciò si aggiungevano lo slancio che gli veniva dal desiderio irresistibile di vendicare e rivendicare la memoria del fratello, e la maturità che gli derivava dalle esperienze del fallito tentativo rivoluzionario di lui e della susseguente reazione. Gli elementi tutti della gravissima crisi politica, sociale ed economica che travagliava la repubblica (v. gracco, tiberio) gli stavano dinnanzi agli occhi con molta perspicuità, ed egli intendeva come il rimedio non potesse venire da provvidenze isolate, ma soltanto da una riforma larga, complessa e radicale. E a questa si dedicò sino dai primi giorni del tribunato, mettendo a servizio del suo programma il massimo dei doni di cui natura l'aveva fornito: la parola. Per attuare l'opera sua non bastò a G. il primo anno di tribunato, ma gli occorse farsi rieleggere, il che gli fu possibile, perché qualche anno prima una legge aveva rimosso definitivamente l'ostacolo che alla rielezione aveva incontrato il fratello. Ed anzi G. aspirò alla conferma anche per un terzo anno, ma non riuscì.

Una serie di studî più o meno recenti ha tentato di ristabilire l'ordine nel quale si succedettero le proposte di G. nei due tribunati, ma rimangono non pochi punti dubbî, mentre è possibile renderci conto pienamente del programma di lui: reprimere la preponderanza che il Senato si era assicurata, ristabilire la sovranità del popolo e corrispondentemente restaurare nella sua pienezza le funzioni del tribunato della plebe che un tempo era stato l'organo principale dello sviluppo costituzionale ed ora invece era divenuto uno strumento che il Senato maneggiava a suo talento per ottenere dal popolo la legalizzazione della propria volontà. Non è impostare bene il problema il domandarsi se questa fosse rivoluzione o restaurazione dello spirito dell'antica costituzione, poiché la restaurazione di forme antiche annullate sia dalla consuetudine sia dallo sviluppo costituzionale altro non è che rivoluzione. E della sua opera rivoluzionaria G. ebbe piena consapevolezza, onde non rifuggì da armi demagogiche né da prepotenza tirannica. Se non aspirò a un'instaurazione monarchica, dinastica e assolutista, certamente sognò che il tribunato, come rappresentante della sovranità popolare, assumesse caratteri e funzioni sovrane, transitorie nelle persone, ma permanenti nella vita dello stato. E la sua personalità era pari al compito che si prefisse, esuberante e straripante, sì da poter concentrare in sé una somma immane di lavoro, da bastare a tutti i compiti del potere esecutivo, da vegliare all'attuazione piena delle sue leggi, da dirigere ogni sfera dell'amministrazione. Tanta potenza di lavoro incuteva rispetto anche agli avversarî, e contribuì a radicare in loro il convincimento che egli tendesse al sovvertimento dell'ordine pubblico e aspirasse alla tirannide. E poiché il principato fu lo sbocco finale e fatale della crisi della repubblica, i cui primi segni tangibili in ordine di tempo furono appunto i tentativi di G., più ancora che quelli di Tiberio, anche i posteri amarono accentuare in quei tentativi le tendenze monarchiche; ma è esagerazione che va al di là di ogni spunto della tradizione affermare col Mommsen che G., lungi dal voler dare alla repubblica romana basi democratiche, aspirasse a sostituirla con la tirannide nella forma di un tribunato a vita, padrone assoluto dei comizî formalmente sovrani. Egli non aspirò alla monarchia, seppure ebbe sentore di molte debolezze del regime repubblicano e qualche geniale bagliore di futuri rimedî e temperamenti, come quando vagheggiò di risolvere il grande problema di garantire la forza e l'unità del governo entro gli schemi repubblicani combinando il tribunato col consolato. E soprattutto egli ripugnò da forme militaresche di dittatura e da qualsiasi repressione delle libertà civili.

Le prime rogazioni, da lui presentate appena nominato tribuno, pare siano state quella che dichiarava ineleggibili a ogni altra carica dello stato i magistrati che fossero stati deposti dal popolo, e quella che proclamava illegale ogni condanna di cittadini che, anche in momenti straordinarî, fosse avvenuta senza deliberazione del popolo. Con la prima egli mirava a dare riconoscimento solenne alla deposizione del tribuno M. Ottavio, fatta votare dal fratello; con la seconda si prefiggeva, oltre che di rafforzare il palladio della libertà repubblicana, che stava nel diritto di provocazione al popolo, di colpire gli avversarî che avevano fatto uccidere Tiberio e dopo avevano mandato a morte un numero considerevole di suoi seguaci, facendoli giudicare da un tribunale speciale. La prima di queste proposte G. ritirò per intercessione della madre, che ne aveva intuito il lato non nobile di persecuzione di un avversario leale, che niente altro aveva fatto se non valersi di un suo sacrosanto diritto; la seconda invece fece approvare dal popolo, e, dando ad essa valore retroattivo, ottenne che P. Popilio, unico console superstite del 132 a. C., sul quale si concentrava l'odio della democrazia, prendesse la via dell'esilio. La legge era riuscita per la maggioranza di una sola tribù, onde G. vide sempre meglio la necessità di accattivarsi il popolo, e a questo fine propose la sua famosa legge frumentaria, la quale stabiliva che ogni cittadino, che dichiarasse la sua presenza nella capitale, potesse mensilmente prelevare dai pubblici granai una certa misura di frumento, pare di cinque moggi, al prezzo di sei assi e un terzo, pari press'a poco alla metà del prezzo corrente. È una legge che imponeva un grande onere all'erario, allettava il proletariato urbano all'ozio e alla tracotanza, lo corrompeva e ne faceva accrescere le file, onde fu sempre considerata come una delle leggi più demagogiche di G. e condannata quasi unanimemente da antichi e da moderni; ma la giustifica, almeno in parte, la disperata situazione economica in cui quel proletariato versava e l'essersi G. preoccupato di aprire ad esso anche altri sbocchi con la fondazione di colonie e col più intenso promovimento di lavori pubblici; né è giusto imputare al tribuno tutta la responsabilità degli abusi che di quella legge poi si fecero. Comunque è fuori dubbio che essa contribuì enormemente alla popolarità di lui e fu quella che meglio gli assicurò la rielezione al tribunato, ottenuta nell'estate del 123.

Dopo la rielezione e nei primi mesi del suo secondo tribunato, la sua attività legislativa e amministrativa raggiunse la massima intensità, ma lo stato delle fonti non ci permette di ristabilire la successione dei varî atti: non poco turbamento deriva dal fatto che qualche autore ha fatto confusione tra la data della rielezione al tribunato, che cadeva nell'estate, e l'inizio del secondo anno di carica, che cadeva al 10 dicemhre, trasferendo così al secondo anno di magistratura alcune delle leggi che appartengono al primo. Si aggiunga che nell'esposizione che fanno le fonti, il punto di vista sistematico s'incrocia talora con quello cronologico, sicché ci s'imbatte in ripetizioni imbarazzanti. Ma, fortunatamente, più che la serie cronologica importa la sostanza delle riforme di G. A vantaggio del proletariato, oltre che la già esposta legge framentaria, furono ispirate la legge agraria, con la quale il tribuno sostanzialmente confermava quella del fratello, correggendone forse le imperfezioni, colmandone qualche lacuna, e soprattutto reintegrando i triumviri nei loro poteri giurisdizionali; e le leggi per la fondazione di colonie a Taranto e a Capua (secondo Plutarco, ma le altre fonti in luogo di Capua parlano di Squillace, e par certo che la colonia dedotta in quest'ultima città sia graccana: invece, quanto a Capua, forse G. pensò a dedurvi una colonia, ma poi desistette da questo progetto) e, soprattutto, nel territorio dell'antica Cartagine, con la quale ultima legge si trasgredì per la prima volta il principio della limitazione delle colonie all'Italia, e si aprì la via all'emigrazione transmarina, additando in essa un nuovo sbocco permanente del proletariato cittadino e italico. Legge complementare della frumentaria può essere considerata quella relativa alla costruzione di pubblici granai, e complementare dell'agraria e della coloniale quella per la costruzione di grandi vie, che in pari tempo servì a G. come mezzo per alleviare la disoccupazione. Di carattere popolare fu anche la legge militare, che, a quanto pare, ristabilì l'osservanza imprescrittibile dei limiti di età fissati per il servizio, abbassò il numero delle campagne che davano diritto al congedo, e pose a carico dell'erario le spese per il vestiario, che prima dovevano essere detratte dal soldo.

Queste le provvidenze principali a vantaggio del popolo. Con altre G. pensò a spezzare la forza dell'aristocrazia, cercando di attirare a sé l'ordine equestre, costituito essenzialmente dei ricchi commercianti, e di porlo così contro la nobiltà senatoria. Questo lo scopo della sua legge relativa alla sistemazione tributaria della recente provincia d'Asia, e della legge giudiziaria. Con la prima introdusse in quella provincia tutta una serie d'imposte dirette e indirette, soprattutto la decima dei prodotti del suolo, e sancì che la loro riscossione fosse appaltata per l'intiera provincia con asta da tenersi a Roma, sicché i provinciali non vi potessero concorrere, e gli appalti dovessero aggiudicarsi ai cavalieri, col che si apriva all'ordine equestre una vera miniera di nuove risorse. Circa il contenuto della seconda legge, le fonti sono contraddittorie, e molte sono state le discussioni dei moderni sul modo di conciliare le notizie antiche, o di dar la preferenza alle une o alle altre, e sui rapporti della legge di G. con la lex repetundarum a noi conservata in un'importantissima iscrizione; ma la cosa più probabile è che la legge di G. stabilisse che le liste dei giurati per i processi civili e per le quaestiones straordinarie penali, tra cui la più importante era la quaestio de repetundis, dovessero essere costituite esclusivamente di cavalieri, mentre dapprima le giurie erano state di spettanza esclusiva del Senato. La legge era motivata da abusi assai gravi e disdicevoli che erano stati perpetrati sin qui dai senatori nei giudizî, ma ad analoghi abusi si dava ora adito ai cavalieri, chiamandoli a giudicare tanto i colleghi, che avessero commesse prevaricazioni e vessazioni nella riscossione delle imposte provinciali, quanto i governatori, che per il semplice fatto di essersi opposti a simili iniquità fossero poi stati con procedimenti sicofantici trascinati innanzi ai tribunali. Ma G. otteneva in tal guisa, o almeno sperava di ottenere, il suo scopo di contrapporre l'ordine equestre all'oligarchia senatoria come fattore di giudizio e di controllo, e di assicurare sempre nuova esca alla contesa fra i due ordini.

Il tribuno era giunto in tal guisa all'apogeo della sua potenza, e sembrava che la via fosse sgombra ormai per la piena esecuzione del suo piano, ma era troppo presto perché i nemici si dichiarassero vinti. Essi vegliavano e cospiravano nell'ombra, pronti a profittare di qualsiasi errore dell'avversario e di qualsiasi favorevole contingenza. Il loro giuoco riuscì, e G. scese a poco a poco giù dall'altare sul quale il volgo lo aveva elevato. L'ordine equestre, del quale egli aveva tanto accresciuto la potenza, si allontanò da lui, riconciliandosi, almeno momentaneamente, col Senato, e la folla, come sempre accade, sedotta dalla corruzione e da altri miraggi, l'abbandonò e rimase muta spettatrice dello scempio del suo idolo. Come ciò poté avvenire? A mano a mano che ci avviciniamo alla catastrofe, la tradizione si fa più incerta e lacunosa, onde dobbiamo rinunciare a riafferrare tutte le fasi della parabola, come anche resta incerto il giudizio dei fatti. Ma i tratti salienti sono questi. G. vide il coronamento dell'opera sua nella sistemazione del problema federale, spinto a ciò da Marco Fulvio Flacco che, come console nel 125 a. C., aveva tentato inutilmente di varare un suo liberale progetto, e che si era fatto eleggere tribuno per il 122, nella speranza di portarlo ad esecuzione. Era di somma importanza per il partito democratico allargare più che fosse possibile il numero dei cittadini, per le ripercussioni che ciò poteva avere sull'aumento delle terre demaniali da distribuirsi e, specialmente, per rafforzare la propria clientela, e valersene sempre meglio a dominare il meccanismo dei comizî. Fu dunque proposto dai due tribuni che ai Latini fosse concessa la cittadinanza e agl'Italici la latinità; ma la proposta fu imprudente, perché urtava contro l'egoismo della cittadinanza in genere, e non ebbe sorte migliore del tentativo del 125. Uno dei tribuni, M. Livio Druso, pose il suo veto alla votazione della rogazione, e non avendo G. osato proporre la decadenza del collega dal suo ufficio, ripetendo il gesto che aveva provocato la cauta del fratello, la sua proposta fallì, e segnò l'inizio dell'abbassamento del suo prestigio. Il Senato ne approfittò subito per soffiare nel fuoco e disviare la plebe dal suo favorito, facendo ricorso a quegli stessi mezzi demagogici dai quali egli non era rifuggito, incitando cioè Livio Druso a far brillare al popolo speranze maggiori di quelle che gli aveva lasciate intravedere G. Ed ecco Druso farsi a proporre l'abrogazione del tributo che, in forza della legge agraria, dovevano pagare i beneficiarî delle nuove distribuzioni demaniali, la fondazione di dodici colonie in Italia, ciascuna di 3000 coloni, e il divieto a ufficiali romani d'infliggere la pena del bastone a soldati latini. E questo giuoco di ultrademagogia riuscì, agevolato dal fatto che nel frattempo G. si era assentato da Roma per settanta giorni per recarsi in Africa, e quivi predisporre tutto il necessario per la fondazione della colonia, già decretata, nel territorio di Cartagine. Al suo ritorno, dovette constatare con amarezza che il suo astro volgeva al tramonto, e quando si presentò candidato per la conferma al terzo tribunato, non fu rieletto. Così era scalzato il fondamento del suo potere, e poco dopo fu eletto console per il 121 L. Opimio, quegli che come pretore aveva soggiogato Fregelle, ed era uno dei più decisi capi dell'oligarchia.

Questo, essenzialmente, lo sviluppo delle ultime gesta di G., anche se l'ordine ne sia stato un po' diverso.

Quando G. lasciò il tribunato, e rientrò tra le file dei semplici cittadini, gli ottimati, col console Opimio alla testa, si volsero alla demolizione dell'opera sua, ma delle lor mene non siamo sufficientemente informati, come non siamo informati sull'atteggiamento dell'ex-tribuno, sino alla catastrofe, che si svolse al principio dell'estate del 121. L'occasione di questa fu che, essendosi annunciato dall'Africa che infausti prodigi avevano accompagnato i preparativi di fondazione della colonia, gli avversarî di G. fecero dichiarare dagl'indovini che la colonia era infausta, e il Senato propose senz'altro al popolo l'abrogazione della legge di fondazione. G. fu così provocato a difendere la sua legge, e nel giorno in cui doveva aver luogo la votazione sul Campidoglio egli vi si recò coi suoi seguaci, molti dei quali si erano armati, secondo alcune fonti a insaputa del capo, secondo altre da lui aizzati, e non poterono impedirsi zuffe dall'una parte e dall'altra. Mentre il console sacrificava, uno dei suoi inservienti, Quinto Antillo, fu ucciso (anche qui alcuni dicono per ordine di G., altri senza veruna sua responsabilità; chi rappresenta Antillo come provocatore, chi come innocente; chi vede in lui un inserviente del console, chi un semplice popolano, chi un famigliare di G.). Ne nacque un terribile parapiglia; G. tentò invano di arringare il popolo, e gli avvenne d'incontrarsi a parlare con un tribuno che concionava in quello stesso momento. Se ne trasse pretesto per accusarlo di averne leso la sacra potestà. L'adunanza fu sciolta; il console L. Opimio fu investito dei pieni poteri per salvare la repubblica dalla minaccia rivoluzionaria, e all'alba successiva occupò il Campidoglio con arcieri cretesi, la curia e il forte con senatori e con cavalieri consenzienti, accompagnati da schiavi armati. Intanto G. e Fulvio si erano recati coi loro seguaci sull'Aventino, l'antica rocca del popolo nelle lotte tra patrizî e plebei, e Fulvio si era asserragliato nel tempio di Diana, ma né all'uno né all'altro sfuggiva la gravità della situazione, e, preoccupati dell'impari lotta contro le forze dello stato, tentarono un accomodamento col Senato, ma invano. L. Opimio diede ordine di assalire l'Aventino, promettendo-impunità a chi se ne allontanasse subito; e i Graccani, a questa promessa, abbandonarono quasi tutti il loro posto. I pochi rimasti, circa 250, furono massacrati dalla turba dei nobili moventi all'assalto coi Cretesi e con gli schiavi. Fulvio col figlio maggiore fuggì in un nascondiglio, ma, scovato, fu ucciso. G., ritiratosi al principio dell'assalto nel tempio di Minerva, fuggì poi sulla destra del Tevere, e, incalzato alla schiena dai suoi nemici, si fece uccidere nel bosco delle Furie da un suo fido servo, che volle tosto seguirlo nella morte. Il capo di G. fu portato da un Lucio Settimuleio al console Opimio, che lo fece pagare, conforme a precedente promessa, a peso d'oro. I corpi degli uccisi furono gettati nel Tevere, le loro case abbandonate al saccheggio, circa tremila seguaci fatti perire nelle carceri. La memoria dei Gracchi fu pubblicamente maledetta. Si giunse perfino a proibire alla madre di vestire il lutto per la morte del figlio, ma non si pote impedire che il ricordo dei fratelli vivesse nella memoria del popolo, e gentili omaggi ai luoghi in cui essi erano caduti ne attestassero la perenne gratitudine.

Fonti principali per la storia dei Gracchi sono le vite relative di Plutarco (v. l'edizione dello Ziegler, Lipsia 1915) e i capitoli 7-26 del primo libro delle guerre civili di Appiano (v. l'edizione del Viereck, Lipsia 1905, e quella di Strachan-Davidson, Oxford 1902); molto meno diffuse le notizie che si hanno nei frammenti del XXXIV libro di Diodoro (5-7, 24-27, 28 a e 29 a), del XXIV di Dione Cassio, e nelle varie fonti latine: periochae di Livio, Velleio Patercolo, Valerio Massimo, Floro, Eutropio, Orosio, Auctor de viris illustribus. Notevoli i cenni e i giudizî sparsi in varî scritti di Cicerone. Molto utile la raccolta del Greenidge e del Clay, Sources for Roman History B.C. 133-70, Oxford 1903. Infinite sono state le discussioni sui rapporti reciproci delle fonti superstiti e sugli archetipi della tradizione; particolarmente rilevanti quelle sul valore e sulle tendenze della fonte di Appiano.

Bibl.: Il periodo graccano è uno di quelli che sono stati maggiormente studiati, specialmente negli ultimi decennî, onde la bibliografia ne è vastissima. Basti qui ricordare, tra le opere di carattere generale: Th. Mommsen, Römische Geschichte, 9ª ed., II, Berlino 1903, p. 59 segg.; W. Ihne, Römische Geschichte, V, Lipsia 1879, p. 25 segg.; C. Neumann, Geschichte Roms während des Verfalles der Republik, I, Breslavia 1881, p. 104 segg.; A.H.J. Greenidge, A history of Rom, I, Londra 1904; W.E. Heitland, The Roman Republic, Cambridge 1909, II, p. 265 segg.; T. Frank, Storia economica di Roma (traduzione dall'inglese), Firenze 1924, p. 113 segg.; e tra gli studî di carattere speciale: L.W. Nitzsch, Die Gracchen, Berlino 1847; E. Meyer, Untersuchungen zur Geschichte der Gracchen, Halle 1894, ripubblicato in Kleine Schriften, I, 2ª ed., Halle 1924, p. 363 segg.; recensito ampiamente da Ed. Schwartz, in Göttinger Gelehrte Anzeigen, CLVIII (1896), p. 792 segg.; E. Kornemann, Zur Geschichte der Gracchenzeit, in Klio, I, Beiheft, 1903; R. Pöhlmann, Zur Geschichte der Gracchen, in Sitzungsberichte der Akad. der Wissenschaften zu München, 1907, ripubblicato nella 2ª ed. del vol. Aus Altertum und Gegenwart, Monaco 1911, p. 118 segg. col titolo Tib. Gracchus als Sozialreformer; E.G. Callegari, La legislazione sociale di C.G., Padova 1896; G. Cardinali, Studi Graccani, Roma 1912; P. Fraccaro, Oratori ed orazioni dell'età Graccana, in Studi storici per l'antichità classica, V (1912), p. 317 segg. e n. s., I (1913), p. 42 segg.; id., Studi sull'età dei Gracchi, Città di Castello 1914, e Ricerche su C.G., in Athenaeum, n. s., III (1925), p. 76 segg., 156 segg., cfr. ivi, 1931, p. 291 segg.; W. Judeich, Die Gesetze des C. Gracchus, in Historische Leitschrift, 3ª s. XV (1913), p. 473 segg.; E. Pais, in Ricerche sulla storia e sul diritto pubblico di Roma, s. 3ª, Roma 1918, Athenaeum, n. s., III (1925), pp. 76 segg., 156 segg.; E. von Stern, Zur Beurteilung der politischen Wirksamkeit des Tiberius und C. Gracchus, in Hermes, LVI (1921), p. 229 segg.; G. De Sanctis, Rivoluzione e reazione nell'età dei Gracchi, in Atene e Roma, n. s., II (1921), p. 209 segg.; F. Münzer, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclop., s. 2ª, II, 1923, coll. 1375 segg., 1409 segg.; B. Kontchalowsky, Recherches sur l'histoire du mouvement agraire des Gracques, in Revue Historique, CLIII (1926); W. Esslin, Die Demokratie und Rom, in Philologus, LXXXII (1927), p. 313 segg.; U. Karhstedt, Die Grundlagen und Voraussetzungen der Röm. Revolution, in Neue Wege zur Antike, IV (1927), p. 97 segg.; G. Corradi, Gaio Gracco e le sue leggi, in Studi di filologia classica, n. s., V (1927), p. 235 segg.; VI (1928), pp. 55 segg., 139 segg.; J. Carcopino, Autour des Gracques, Parigi 1928; F. Taeger, Tiberius Gracchus, Stoccarda 1928; M.A. Levi, La Costituzione Romana dai Gracchi a Giulio Cesare, Firenze 1928, p. 7 segg. (v. anche le voci agrarie, leggi; agro con la relativa bibl.).