GALEAZZO MARIA Sforza, duca di Milano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 51 (1998)

GALEAZZO MARIA Sforza, duca di Milano

Francesca M. Vaglienti

Primogenito di Francesco, conte di Tricarico, e di Bianca Maria Visconti, figlia legittimata del duca di Milano Filippo Maria, nacque il 14 genn. 1444 a Fermo, nella rocca chiamata Girone o Girifalco e venne battezzato il 17 marzo. All'indomani della nascita, lo Sforza aveva inviato un messo a Milano per trasmettere la notizia al suocero e sapere quale nome volesse dare al nipote. Il Visconti decise per Galeazzo, in ricordo dell'avo suo Galeazzo (II), conte di Pavia, evitando abilmente ogni riferimento alla successione al trono ducale di Milano, pur riconoscendo in tal modo al neonato l'appartenenza al casato visconteo.

La permanenza a Girifalco venne interrotta nel 1445, quando le città della Marca si ribellarono alla signoria sforzesca e Fermo pose l'assedio alla rocca, costringendo lo Sforza a condurre in salvo a Pesaro la famiglia che, nell'estate del 1446 - all'aggravarsi dello stato di salute del duca Filippo Maria - si trasferì a Cremona, signoria dotale di Bianca Maria. La città, presto affiancata da Pavia, divenne base delle operazioni che, morto il Visconti (13 ag. 1447) e seguita la disgregazione politica del Ducato, portarono lo Sforza a ricomporre, nell'arco di un triennio, la compagine territoriale del passato dominio e - in nome degli accampati diritti alla successione della consorte e dei figli - a conquistare la signoria su Milano (26 febbr. 1450). Il 22 marzo 1450 il nuovo duca fece il suo trionfale ingresso in città da porta Ticinese, accompagnato dalla moglie e dal piccolo G., fatto proclamare nell'occasione conte di Pavia.

Insieme con la sorella Ippolita, G. alternò la sua residenza tra i castelli di Pavia e Abbiategrasso, sotto l'attenta tutela dell'ava Agnese del Maino. Qui gli venne impartita un'educazione di stampo umanistico che lo trasformò ben presto in utile strumento politico nelle ambascerie inviate dal duca Francesco ai potenti dell'epoca. Il suo debutto di oratore coincise con la presenza a Ferrara, nel gennaio 1452, del re dei Romani Federico III d'Asburgo, sceso in Italia per cingere la corona imperiale a Roma.

Confortati dal credito acquistato a Ferrara, dove il loro primogenito aveva recitato alla perfezione l'allocuzione preparatagli da Francesco Filelfo, i duchi affidarono G. alle cure di Baldo Martorelli e, a partire dal 1457, a quelle di Guiniforte Barzizza, già segretario del duca Filippo Maria, che iniziò G. alla difficile arte del governo.

Sotto la vigile guida del Barzizza G. condusse, tra il 1457 e il 1459, una serie di ambascerie presso le principali signorie padane. Dal luglio al settembre 1457 fu ospite del duca di Modena, Borso d'Este. Gli alti onori tributatigli nell'occasione finirono per inquietare non poco il padre, preoccupato dalle conseguenze negative che simili premure avrebbero potuto sortire nell'animo del figlio. Proprio a questo periodo risalgano infatti i Suggerimenti di buon vivere che egli dettò a uso del primogenito. Nella primavera 1459 si svolse l'ambasceria, allestita con sfarzo inusitato, destinata a Firenze dove G. avrebbe incontrato papa Pio II Piccolomini diretto alla Dieta di Mantova. A Firenze G., ospite della famiglia de' Medici, ottenne un grande riconoscimento dal pontefice che gli riservò un posto d'onore accanto a sé durante udienze plenarie e cortei e gli permise di cavalcare alla sua destra, indirizzando agli altri potentati italiani un messaggio dalle precise valenze politiche. In seguito G. accompagnò Pio II a Mantova dove ritrovò la madre e i fratelli; presenziato che ebbe all'inaugurazione della celebre Dieta, prese commiato dal pontefice e a fine maggio si diresse a Venezia, per concordare con la Serenissima il mantenimento della pace in Italia e dissiparne la esasperata e nota diffidenza nei confronti di Milano.

A partire dal 1461, dopo una grave infermità che lo aveva portato in punto di morte, il duca Francesco iniziò a fare partecipe il figlio dei suoi progetti politici, legandolo alla potente e capace figura del primo segretario Cicco Simonetta. Fra i tre andò maturando una sorta di intesa profonda che si prefiggeva la continuità e il potenziamento del casato sforzesco: G. venne istruito sugli obiettivi da raggiungere - conseguimento dell'investitura imperiale, rafforzamento e ampliamento territoriale, accentramento del potere - che solo lui, discendente legittimo di una Visconti, avrebbe potuto rivendicare e porre in essere; il Simonetta s'impegnò ad assicurare coerenza alla politica dinastica attraverso le generazioni. Dallo stretto legame creatosi fra i tre la duchessa venne esclusa: a questa emarginazione dai disegni politici del consorte, nonché all'irruenza del primogenito nel volere conseguire rapidamente i risultati che il padre aveva fissato, si devono i contrasti che caratterizzarono i rapporti tra madre e figlio all'indomani della scomparsa del duca.

Un primo scontro di portata tutta politica si ebbe in merito alla prospettiva matrimoniale che attendeva Galeazzo Maria. Nel 1450 il duca Francesco aveva stipulato un trattato di alleanza con il marchese di Mantova che prevedeva le nozze del conte di Pavia con Susanna Gonzaga, in seguito sostituita, a causa della deformità comparsa nella futura sposa, da Dorotea, sorella minore di questa. Ben presto subentrarono però nuovi fattori politici che indussero il duca a rivolgersi ad altro partito. Nel 1461, infatti, era salito al trono di Francia Luigi XI, che quando era delfino aveva a lungo goduto dell'appoggio di Milano; quello stesso anno, inoltre, Genova era riuscita a liberarsi - complici le manovre sotterranee del duca - dall'occupazione francese. Allo Sforza si offrì l'opportunità di legarsi più strettamente al casato d'Oltralpe facendo sposare a G. la figlia del duca Ludovico di Savoia, Bona, cognata di Luigi XI. La definitiva rottura del contratto con i Gonzaga si verificò infatti nel 1463, allorquando in cambio della sua neutralità nei confronti di Filippo di Savoia, ribelle all'autorità regia, lo Sforza chiese e ottenne dal sovrano francese la signoria feudale su Savona e Genova, occupate rispettivamente nel 1464 e nel 1465, e l'avvio delle trattative necessarie alla conclusione delle nozze tra G. e Bona.

Strettamente connessa alla politica filofrancese di Francesco Sforza appare la decisione, presa nel 1465, di inviare il primogenito in soccorso di Luigi XI, minacciato da una vasta coalizione baronale - denominatasi Lega del pubblico bene - che mirava a sostituire al re il fratello Carlo. Nonostante le difficoltà economiche in cui da tempo versava il Ducato, lo Sforza allestì un corpo di milizie regolari poste sotto il comando del figlio che venne destinato alla difesa del Delfinato e del Lionese, province occupate dai Borgognoni. All'inizio di settembre G. lasciò Milano per raggiungere il grosso della spedizione che lo attendeva ai confini del Ducato; i risultati bellici dell'impresa furono discreti, benché non entusiasmanti data l'esiguità dell'armata - 2000 cavalieri e 1000 fanti - e la mancanza di artiglieria pesante. A interrompere le azioni belliche dei Milanesi giunse, verso la metà di ottobre, la notizia della tregua generale stipulata da Luigi XI con i baroni ribelli. Le truppe ricevettero allora l'ordine di acquartierarsi nel Delfinato dove G. venne raggiunto, nel corso della lunga tregua invernale, dalla dolorosa notizia della morte, avvenuta a fine dicembre, dell'ava Agnese del Maino. A meno di tre mesi di distanza, un ancor più tragico lutto lo avrebbe nuovamente colpito, ponendo fine alla spedizione in terra di Francia e interrompendo le trattative matrimoniali: l'8 marzo 1466 moriva infatti a Milano Francesco Sforza.

Deceduto il consorte, la duchessa Bianca Maria assunse immediatamente il governo in nome del figlio assente e inviò nelle principali città del dominio uomini fidati, per prevenire il pericolo di una rivolta dei centri soggetti. La celerità con la quale si diffuse in tutta la penisola la notizia del triste evento sembra essere la chiave di lettura per comprendere il vero significato dell'attacco portato contro G. - di ritorno dalla Francia - nei pressi della Novalesa. L'annuncio giunse rapidamente a Vercelli, dove risiedeva Maria di Savoia che, moglie ripudiata di Filippo Maria Visconti, nutriva forti motivi di rancore nei confronti della nuova dinastia: fu lei a trasmettere l'informazione a Jolanda, sorella del re di Francia e moglie del duca Amedeo IX, reggente la Savoia in nome del marito gravemente infermo. Costei inviò Agostino da Legnana, più noto come l'abate di Casanova, in Piemonte, dove costui giunse con ampio margine sulla comitiva milanese di ritorno in patria. Insieme con il fratello Antonio egli ebbe agio di preparare, coadiuvato da prezzolati signorotti locali, l'agguato da portare contro G., rendendo vano il tentativo di questo e dei suoi di passare inosservati sotto le mentite spoglie di mercanti.

L'idea che ci si trovi innanzi a un complotto di vaste proporzioni sorge naturale considerando come, aggredita che fu la compagnia sforzesca il 14 marzo - ma fortunosamente scampata da subitanea morte e rifugiatasi nell'abbazia della Novalesa -, il 16 del mese si fosse già diffusa a Crema, nel territorio della sempre ostile Venezia, la notizia che G. "era stato taliato a peze" (Magistretti, 1889, p. 788). Se il progetto e l'esecuzione del piano di uccidere, ovvero sequestrare, G. va probabilmente attribuito alla reggenza di Savoia, segretamente spalleggiata dalla Serenissima, risulta tuttavia verosimile che dietro l'attentato vi fosse il diretto interesse di Luigi XI che da un indebolimento del dominio sforzesco in Lombardia avrebbe tratto il massimo vantaggio. Probabilmente informato dalla sorella di quanto stava per accadere - né Jolanda avrebbe osato tanto senza il suo consenso - il re di Francia dispose l'invio a Milano di un primo contingente armato di 2000 uomini: con G. morto, in aiuto della duchessa Bianca Maria; con G. ostaggio, per favorire la liberazione del giovane. Comunque si fosse risolto l'incidente, il re avrebbe avuto l'occasione di attestarsi militarmente nel Ducato milanese e - approfittando del vuoto di potere così creatosi - di soddisfare le rivendicazioni su Milano avanzate dal duca d'Orléans, di permettere a Venezia l'ampliamento dei propri confini occidentali e, infine, di porre una forte ipoteca sul Regno aragonese di Napoli, sino ad allora costantemente difeso dal duca Francesco contro le pretese angioine. È probabile inoltre che Luigi XI mirasse da un lato a occupare nuovamente Genova e dall'altro a conquistare al Regno il Ducato di Savoia, accusando Amedeo IX di fellonia e lesa maestà, delitti puniti con la confisca del feudo.

Fu proprio l'eventualità di una devoluzione del Ducato pedemontano che, intuita provvidenzialmente dal marchese Antonio di Romagnano, impedì il successo del piano. La duchessa Bianca Maria infatti, venuta a conoscenza dell'agguato teso a G. e delle difficoltà che egli aveva nell'uscirne insieme con i pochi compagni rimastigli fedeli, si rivolse al Romagnano, l'amico più fidato e potente che Milano vantasse nel Consiglio di Torino e costui, compreso appieno il pericolo che incombeva sulla dinastia sforzesca non meno che su quella di Savoia, con un tempestivo intervento in Novalesa riuscì - corrompendo e minacciando - a far desistere dal loro intento gli assalitori. G. venne così liberato e condotto in salvo a Novara. Il re di Francia si disse addolorato dell'accaduto e offrì con insistenza un soccorso armato a G. che con cortesia e fermezza lo respinse, mentre la duchessa Jolanda professò la sua totale estraneità agli eventi.

Acclamato signore di Milano dal Consiglio dei novecento riunito per l'occasione il giorno stesso del suo ingresso in città (20 marzo 1466), ricevuto in seguito a Vigevano il giuramento di fedeltà dei centri soggetti, il ventiduenne nuovo duca si vide tuttavia costretto, per difetto d'età, ad associare al governo dello Stato la madre Bianca Maria. Coesistenza resa non facile dalla forte personalità di entrambi e dalla pari convinzione di operare nel rispetto della volontà di Francesco Sforza, ma soprattutto dal formarsi intorno ai due di opposti schieramenti di governo che, al fine di far prevalere interessi di parte, trovavano conveniente esasperare screzi e incomprensioni personali tra i coreggenti.

I fragili equilibri sociali e di potere pazientemente costruiti dal duca Francesco all'interno del dominio, i delicati rapporti diplomatici - da lui intessuti con i potentati della penisola per assicurare un durevole periodo di pace - vennero travolti dal contrasto apertosi tra i duchi e dalla possibilità di trarne vantaggio offerta ad alcuni Stati, Venezia e la Savoia in testa. Così a Milano G. procedeva a una vera e propria secessione di corte - trasferendosi insieme con pochi uomini fidati, fra i quali Cicco Simonetta, al castello di porta Giovia - e intraprendeva con energica irruenza una drastica riforma delle magistrature e degli offici ducali, mentre ai confini dello Stato le potenze tradizionalmente ostili creavano nuove e continue occasioni di frattura tra il duca e i suoi alleati - Firenze, Napoli, Mantova e il Monferrato - per screditarlo e isolarlo politicamente. A minacciare in maniera concreta la stabilità interna del Ducato di Milano, e più in generale a turbare la pace sancita tra i potentati italiani con la Lega del 1455 (rinnovata a Roma il 4 genn. 1467), intervenne Bartolomeo Colleoni, agli stipendi della Serenissima, emarginata dall'accordo. Sotto lo stendardo dell'anziano condottiero si raggruppò una vasta coalizione di interessi che, esternamente sostenuta da Venezia, abbracciava le rivendicazioni angioine su Napoli, la posizione filoangioina degli Este, l'ostilità della Savoia nei confronti degli Sforza, il malcontento di quella parte della nobiltà milanese estromessa dal governo del Ducato, la causa dei fuorusciti fiorentini antimedicei e degli esuli genovesi antisforzeschi.

La guerra che il Colleoni nel 1467 scatenò in Romagna con l'intenzione di indebolire la signoria medicea ai suoi confini settentrionali si rivelò, sotto l'aspetto bellico, di molto inferiore ai timori dei collegati e tuttavia irta di insidie soprattutto per Galeazzo Maria. Egli aveva infatti deciso di comandare personalmente le truppe milanesi inviate in soccorso di Piero de' Medici, materialmente esposto alle minacce del condottiero bergamasco. La situazione del Ducato era però ben lungi dal favorire una simile impresa, sia dal punto di vista finanziario - le casse dello Stato registravano un passivo di 100.000 ducati -, sia da quello politico, mancando il nuovo principe di investitura imperiale, nonché di consenso interno. D'altro canto G. non poteva rifiutare il soccorso armato all'alleata Firenze per l'accordo con il casato mediceo che prevedeva cospicue sovvenzioni in cambio della protezione militare sforzesca e per la necessità di confermare i legami con i collegati esterni al fine di rinsaldare la propria autorità nel dominio. Se la gloria militare gli fu negata, perché nel momento in cui si ebbe l'unico episodio bellico di una certa rilevanza nell'intera campagna (battaglia della Riccardina, 25 luglio 1467) egli si trovava a Firenze, è pur vero che G. conseguì un più consistente successo ottenendo dalla Repubblica una condotta di 30.000 ducati all'anno in tempo di guerra e l'annullamento del debito di 80.000 ducati contratto in passato dal duca suo padre. Nonostante la sconfitta subita, il Colleoni continuò a impegnare gli avversari più con lo spettro dell'instabilità e delle scorrerie che con azioni belliche reali; quando però giunse la notizia che Filippo di Savoia, strumento nelle mani della Serenissima e di Luigi XI, aveva approfittato dell'assenza di G. per marciare sulle terre del marchese Guglielmo di Monferrato, alleato di Milano, e minacciare i confini occidentali del Ducato stesso, G. - che non aveva dimenticato l'agguato in Novalesa - abbandonò il campo della Lega con tanta celerità da irritare i Fiorentini, e si diresse a tappe forzate contro il nemico che venne rapidamente sconfitto. Il trattato di pace tra Amedeo IX, del quale il fratello Filippo era luogotenente generale, e G. venne formalmente stipulato il 14 nov. 1467.

A partire dalla data del suo insediamento a Milano, l'atteggiamento politico di G. può essere interpretato solo tenendo conto delle gravi difficoltà economiche in cui versava la Camera ducale e della necessità di concentrare in sé la somma delle potestà principesche, onde evitare interferenze esterne o ambiguità interne che minassero alla base la sua capacità d'azione. A tal fine, si susseguirono tra 1466 e 1469 operazioni istituzionali e finanziarie dagli effetti talvolta traumatici: incanto dei dazi, del reddito sull'imbottato e delle investiture feudali, purché non si trattasse di castelli o di luoghi fortificati; aumento dei dazi e del prezzo del sale per staio; riscossione a Genova di 5000 ducati promessi da quella città in cambio dell'appalto sul commercio del guado nel Ducato; offerta equivalente al 24% di interesse a quanti avessero fatto credito alla Camera ducale e puntiglioso recupero dei crediti da questa concessi; progressiva eliminazione dei privilegi in materia fiscale goduti da feudatari, consorzi mercantili o Comunità del dominio; riorganizzazione in senso produttivo dello sfruttamento delle risorse naturali del territorio (saline, boschi); adozione di forti misure repressive volte a disincentivare il contrabbando, e, infine, l'esazione dell'"inquinto", nuova imposta, destinata a colpire i possessori laici ed ecclesiastici del dominio. La forte pressione fiscale esercitata in questo periodo da G., oltre a consentirgli di mantenere in tempo di pace un consistente esercito permanente, gli permetteva di intervenire massicciamente in campo economico onde favorire progetti di sviluppo del settore produttivo interno. Approfittando del relativo periodo di pace instauratosi a partire dal 1468, egli da un lato emanò una serie di decreti volti a tutelare e favorire sempre più l'artigianato lombardo, dall'altro destinò investimenti cospicui all'impianto e allo sfruttamento di risorse alternative e nuove per il Ducato - quali la coltivazione del riso (1470 c.) e del gelso (1468), la produzione della seta (1468-69), l'introduzione della stampa (1469-70) e il progetto di armare una flotta in concorrenza con Firenze e Venezia (1471) -, senza trascurare il rafforzamento di quelle più tradizionali, quali la vocazione tutta lombarda di essere crocevia principale di traffici internazionali: da qui i lavori di riassetto della rete viaria e fluviale - con l'ampliamento della Martesana e del Naviglio tra Pavia e Binasco, resi navigabili - e i provvedimenti atti a rendere sicuri passi e porti del Ducato.

Le energiche misure adottate da G. sconvolsero però gli equilibri creatisi fra i vari "corpi" del Ducato nel clima di prudente stabilità che il potere politico aveva ricercato nel periodo precedente. I dissensi e i malumori suscitati nel ceto egemone dagli interventi di G. trovarono un portavoce naturale, anche se forse inconsapevole, nella duchessa Bianca Maria, la quale scese in aperto conflitto con il figlio, giungendo a contemplare anche la possibilità di cedere la signoria dotale di Cremona al figlio Sforza Maria, promesso sposo di Eleonora d'Aragona, figlia del re di Napoli. Lo scontro sollecitò G. a perseguire l'esautoramento del potere tanto nei confronti della madre quanto, anche se per il momento in misura minore, dei fratelli.

La rottura definitiva del dialogo con la madre coincise non a caso con la decisione di G. di troncare la trattativa matrimoniale del fratello Sforza Maria e di concludere il proprio matrimonio con Bona di Savoia. La celebrazione delle nozze di G. con la cognata di Luigi XI (Milano, 7 luglio 1468) rappresentò una svolta decisiva per la vita politica del Ducato: da un lato, la duchessa madre, contraria a questo matrimonio, abbandonò ogni velleità di governo e, mentre si ritirava a Cremona, morì nel corso del viaggio (Melegnano, 23 ott. 1468); dall'altro, con la conclusione di tale parentado, G. fidava - oltre che sui 100.000 scudi d'oro promessigli dal re di Francia come dote per Bona di Savoia - sull'appoggio del sovrano quando avesse deciso di intervenire in Piemonte per riconquistare i possedimenti già viscontei di Asti e Vercelli.

Rimasto solo al vertice del Ducato, ma sempre affiancato dal fedele Cicco Simonetta, il giovane principe volle completare quella riforma istituzionale di magistrature e offici che già lo aveva visto impegnato all'indomani della sua ascesa al potere: organizzando e delimitando i rispettivi ambiti di competenza, ricorrendo sempre più all'utilizzo di personale tecnico-professionale anche di provenienza straniera, strutturando gerarchicamente gli offici ducali e sottoponendoli a rigorosi controlli, G. procedeva rapidamente nello svuotare cariche di governo che sino ad allora erano state appannaggio del ceto egemone di Milano e del Ducato. Offici e magistrature centrali vennero raggruppati nella corte dell'Arengo, in una Milano che andava velocemente trasformandosi da città egemone in capitale dello Stato regionale; in parallelo il sistema della corte principesca subì un sensibile sviluppo in vista di tre obbiettivi principali: ricompensare con il fasto e l'opulenza della vita di corte le aspirazioni frustrate di famiglie e personaggi emarginati dalla gestione dello Stato; allontanare gli stessi dai centri di governo, obbligandoli a seguire il duca nei suoi frequenti spostamenti fuori Milano; riconoscere alle città e ai centri del Ducato che ospitavano la corte una dignità e un prestigio virtualmente pari a quelli vantati dalla capitale ambrosiana.

Il riproporsi costante della delicata questione relativa alla mancata legittimazione al ducato, spinse G. a intraprendere in questo periodo azioni in apparenza contraddittorie, incerto come egli era se, al fine di ottenere l'agognato riconoscimento, fosse meglio rivolgersi all'imperatore, o piuttosto indirizzarsi al pontefice. Così, allo scoppio della crisi di Rimini (estate 1469) provocata da Roberto Malatesta che, godendo della protezione della Lega, aveva assunto la signoria della città contro i diritti di devoluzione reclamati dalla Chiesa, G. si trovò nella scomoda posizione di dover operare una drammatica scelta di campo: rispettare gli accordi stipulati con gli alleati a difesa del Malatesta avrebbe significato alienarsi le simpatie del pontefice e perdere l'opportunità di ottenerne l'investitura al Ducato; viceversa, appoggiare apertamente papa Paolo II, succeduto nel 1464 a Pio II, avrebbe pregiudicato in modo definitivo l'intesa di mutua protezione tra Milano, Firenze e Napoli suggellata con la Lega del 1468. G. optò per una soluzione di compromesso e inviò un contingente armato in soccorso di Rimini, come previsto nei patti fra collegati, vincolandolo però all'obbligo di rispettare i possessi della Chiesa nelle Romagne ed escludendolo perciò dalla maggior parte delle azioni belliche intraprese a difesa del Malatesta. Inoltre G. - che nel frattempo aveva avviato frenetiche trattative diplomatiche con la Curia al fine di conseguire l'investitura pontificia al Ducato - rallentò ad arte la marcia delle truppe di soccorso, tanto che queste giunsero a destinazione a conflitto vittoriosamente risolto per la Lega. L'atteggiamento tenuto da G. ebbe l'unico effetto di irritare tutti, alleati vecchi e nuovi: neppure il tentativo operato dal duca di scaricare la responsabilità del mancato intervento in Romagna sul capitano del contingente, il fratellastro Tristano Sforza, condannato in contumacia per alto tradimento, gli evitò il biasimo e la diffidenza dei collegati.

Dei limiti della Lega era già pienamente cosciente Venezia che, politicamente isolata, di continuo promuoveva azioni diplomatiche finalizzate a incrinare la reciproca fiducia dei collegati, insinuando sospetti e minacciando alleanze - con l'Impero, con il Papato, con la Francia - votate di volta in volta alla destabilizzazione interna e alla rovina di ognuno dei potentati stretti nel patto. Nell'autunno 1469 il re di Napoli Ferdinando I, per difendersi dalla possibilità di un accordo tra la Serenissima e il pontefice destinato a sostenere la causa angioina, giunse a proporre la convocazione a Firenze di una Dieta tra alleati per trasformare la Lega in strumento di offesa. Il piano prevedeva il simultaneo attacco di Milano contro Venezia - teso al recupero dei domini già viscontei di Bergamo, Brescia e Crema -, di Firenze contro i possessi della Chiesa in Romagna, di Napoli contro il pontefice. G., impossibilitato ad agire liberamente sul piano della politica estera senza aver prima tacitato il malcontento serpeggiante a Milano, fu tuttavia costretto a rispondere di non poter schierare le sue truppe. Ricorse poi nuovamente all'unico strumento di affermazione interna, seppure di valore secondario, a lui accessibile: convocato il Consiglio dei novecento alla fine di dicembre, fece riconoscere per acclamazione suo erede al Ducato il primogenito Gian Galeazzo, nato pochi mesi prima, e giurare fedeltà alla dinastia sforzesca; nei primi giorni del gennaio 1470, a Vigevano, ottenne poi uguale omaggio dalle altre città e terre del dominio.

Rinnovata la triplice Lega l'8 luglio 1470, G. si apprestò poi ad attaccare Venezia, secondo il piano propostogli da re Ferdinando I e sfruttando il momento di debolezza militare della Serenissima, impegnata contro i Turchi di Maometto II che da poco le avevano sottratto Negroponte. Senonché il sovrano aragonese, minacciato anch'egli dalla espansione turca, si era affrettato a stringere un accordo separato e segreto con Venezia (formalizzato il 1° genn. 1471). A questo trattato il duca di Milano reagì tentando di promuovere, insieme con il papa Paolo II e Firenze, l'organizzazione di una crociata alternativa a quella allestita da Napoli e dalla Serenissima, ma, allo scarso entusiasmo dimostrato dal pontefice, fece eco la decisione di Lorenzo de' Medici di sovvenzionare con 200.000 fiorini, quale pegno di alleanza, la spedizione antiturca di re Ferdinando I. Questa situazione spinse G. a far visita alla Repubblica fiorentina nel marzo 1471. Nel corso del soggiorno lo sfarzo ostentato dal corteo milanese, a sottolineare la dipendenza di Firenze dalle armi sforzesche, destò tra gli ospiti una grande indignazione; per sottolineare maggiormente la propria supremazia G. giunse a progettare un assalto, in seguito fallito, alla cittadella di Piombino, protettorato aragonese, con l'intenzione di farne successivamente dono alla Repubblica di Firenze. Lorenzo de' Medici si convinse allora della necessità di mediare fra i collegati e decise l'esborso di 50.000 fiorini, destinati a sovvenzione, di pari importo, dell'impresa napoletana e della visita ducale.

Nel 1471, l'improvvisa scomparsa di papa Paolo II e l'elezione del candidato sostenuto da G., il cardinale Francesco Della Rovere che assunse il nome di Sisto IV, parvero nuovamente favorire i progetti di affermazione territoriale del duca a discapito dell'alleato fiorentino.

Il latente contrasto di interessi fra G. e Lorenzo ebbe modo di manifestarsi appieno quando il secondo promosse presso il pontefice la candidatura a cardinale del fratello Giuliano, in competizione diretta con l'uguale richiesta avanzata dal duca per il fratello Ascanio Maria, già protonotario apostolico. Per screditare l'avversario innanzi a Sisto IV, G. approfittò della controversia sorta su Imola, signoria retta da Taddeo Manfredi in nome della Chiesa, ma, in concreto, protettorato di Firenze. Taddeo, deciso a rinunciarvi dietro appannaggio annuo, aveva già iniziato a trattare con Venezia, quando suo figlio Guidaccio - istigato dal duca di Milano - gli si ribellò e conquistò la città. Assurto al ruolo di arbitro, G. si impadronì di Imola e propose alla Repubblica - indispettita dall'oltraggio - di acquistarla per 50.000 ducati. Firenze, impossibilitata a corrispondere tale somma, dovette cedere il suo diritto di prelazione sulla città a Sisto IV che, con il pretesto dei debiti accumulati da Taddeo, rivendicava a sé la signoria per farne dono al nipote Girolamo Riario, genero di G. per averne sposato la figlia naturale legittimata Caterina (gennaio 1473). A conclusione della vicenda, protrattasi sino al dicembre 1473, G. ottenne dal papa i 50.000 ducati per la cessione di Imola - meno i 10.000 ducati della dote di Caterina -, una signoria per il genero e la riconoscenza del pontefice preoccupato di sistemare convenientemente l'irrequieto nipote. Inoltre G. provocò ad arte Lorenzo de' Medici, suggerendogli di non prestare, attraverso il suo banco in Curia, la somma necessaria a Sisto IV per acquistare la città, se prima non gli fosse stata assicurata l'elezione del fratello al cardinalato, suscitando l'adirata reazione del pontefice che sottrasse al casato mediceo la gestione della tesoreria romana e bocciò la candidatura di Giuliano alla porpora.

Per sostenere una politica tanto spregiudicata occorreva la pronta disponibilità di un forte esercito. Tra il 1472 e il 1474, G. investì cospicue somme e dedicò cure particolari alla costituzione di un solido apparato militare con una spesa annua stimata intorno agli 800.000 ducati. Attento alle innovazioni tecniche che si affacciavano allora in campo bellico, soprattutto nel settore delle artiglierie, G. fece anche progettare e fondere una bombarda a lunga gittata dalle proporzioni gigantesche, chiamata "Galeazesca vittoriosa", rimasta l'esempio massimo delle bocche da fuoco sforzesche, in grado di impressionare - più tardi - lo stesso Leonardo da Vinci.

Trovando comunque preferibile ricorrere alla via diplomatica per uscire al più presto dalla scomoda situazione di isolamento politico seguita al suo atteggiamento disinvolto nei confronti degli antichi alleati, G. dovette ricercare nuovamente l'amicizia di Napoli. A tal fine, il 26 sett. 1472, egli accettò di stipulare nella città partenopea - tramite suoi procuratori - il contratto di matrimonio tra il primogenito Gian Galeazzo e Isabella, figlia della sorella Ippolita Maria Sforza e del duca di Calabria Alfonso d'Aragona. Era un risultato importante per G., teso a incrinare i rapporti di alleanza tra Napoli e Venezia, all'indomani del trattato che la Serenissima aveva stipulato con la Borgogna in funzione antifrancese e antimilanese (18 luglio 1472). Con un certo margine di sicurezza, egli poté quindi affrontare la crisi apertasi a Genova, sobillata alla rivolta contro gli Sforza proprio da Veneziani e Borgognoni. Procedette pertanto alla fortificazione del Castelletto e alla riscossione di una tassa straordinaria di 10.000 ducati per sovvenzionarne i lavori: prodromo minaccioso del tipo di dominazione che il signore di Milano avrebbe esercitato in futuro sulla città. Mancando di concreti sostegni dall'esterno, i Genovesi dovettero ben presto addivenire a una riconciliazione con il duca, sostenuto peraltro dalla fazione popolare, e il 15 giugno 1473 rinnovarono allo Sforza il loro giuramento di fedeltà.

Negli anni Settanta G. assunse anche all'interno del dominio un atteggiamento che, sebbene risoluto, è più improntato alla mediazione: promosse un'amministrazione equa ed efficiente della giustizia ducale, estese l'imposizione di tributi vecchi e nuovi, cercò di ridurre il peso politico delle corporazioni maggiori e di rivitalizzare le attività artigianali. In ambito ecclesiastico, sfruttò i precedenti accordi con la Chiesa e ne imbastì di nuovi al fine di rafforzare il proprio controllo sull'assegnazione di benefici nel dominio non meno che sulla regolamentazione della vita del clero nel Ducato; nel campo della legislazione feudale, intervenne con norme volte a uniformare la vasta gamma dei poteri esercitati dai signori locali, in quello dell'istruzione universitaria e dei collegi professionali emanò decreti volti sia a limitare l'autonomia giurisdizionale dello Studio pavese e del Collegio dei giurisperiti di Milano, sia ad accrescere i livelli di preparazione e competenza dei loro membri.

G. avviò anche un programma di registrazione delle nascite, oltre che delle morti, affidato interamente a offici civili. A tutela della salute dei suoi sudditi, infine, si adoperò per rendere più efficaci i provvedimenti da adottare nel caso delle ricorrenti epidemie di peste e dei meno frequenti cataclismi naturali, quali inondazioni e terremoti. Spesso, però, i suoi progetti cozzavano contro gli interessi di parte. È il caso della riforma monetaria del 1474, compromessa sul nascere dall'inevitabile coinvolgimento in essa del patriziato milanese. La riforma si era resa necessaria dopo che Firenze e Venezia, per attrarre l'argento tedesco alle rispettive zecche, avevano aumentato il prezzo dell'argento, svalutando il circolante. Milano dovette allora procedere a una svalutazione della sua moneta argentea di circa il 2%. Nel contempo, però, G. diede il via a una ristrutturazione complessiva di tutto il circolante metallico d'argento, creando un complesso di denominazioni che andavano dal denaro alla lira, quest'ultima coniata in una moneta dal peso eccezionale di 9,8 gr alla lega di 964 millesimi (testone). In merito all'attività della Zecca milanese, non gestita direttamente dal duca ma data in appalto, G. si ispirò a sentimenti di rara correttezza e di straordinaria novità per l'epoca, dichiarandosi disposto a rinunciare al diritto di signoraggio. L'eliminazione di questa imposta avrebbe infatti permesso a coloro che portavano metallo alla Zecca di ricavare maggiore valuta in moneta dall'argento consegnato, limitando gli effetti della svalutazione e nel contempo sollecitando l'afflusso di metallo. Senza contare che G. si era prefissato di assegnare l'appalto soltanto a persone che avessero fornito debite garanzie di fabbricare una maggiore quantità e una migliore qualità di moneta ai parametri fissati dagli organi di governo competenti. Nonostante le buone intenzioni iniziali, su questo ultimo punto le pressioni esercitate dalla corte tanto sul principe quanto su esponenti delle magistrature deputate all'assegnazione dell'appalto, oltre a una inesplicabile mancanza di concorrenti, finirono per favorire la candidatura di un membro del nobile e potente casato milanese dei Castiglioni, il quale - sia pure in misura ridotta - continuò a pretendere i diritti di signoraggio, blandendo G. con il versamento di una parte di essi alla Camera.

Neppure gli sforzi che G. riversò in campo artistico, per celebrare la dinastia con cicli pittorici ad affresco che adornassero le sale dei suoi castelli, sortirono migliori risultati: cancellati dal tempo o volutamente scrostati dai successori, di essi ci rimangono solo le puntigliose istruzioni che egli dettò agli artisti deputati all'impresa, fra i quali Bartolomeo da Cremona, Bonifacio Bembo, Zanetto Bugatto - ritrattista ufficiale dei duchi - e Vincenzo Foppa. Allo stadio puramente progettuale rimase l'idea di G. di far erigere una statua equestre in onore del padre Francesco, poi ripresa da Ludovico il Moro con Leonardo, e di assicurarsi i servigi di Antonello da Messina quale pittore di corte.

A grande prestigio, ma di effimera durata, assurse la Cappella musicale voluta e istituita da G. a partire dal 1471: reclutando, con la prospettiva di lauti compensi, i migliori cantori di tutta Europa e affidandoli a un compositore di talento quale Gaspard van Werbecke, il duca riuscì in poco tempo a creare un collettivo di venti cantori, fra i quali compaiono nomi di chiara fama internazionale, come Giovanni Cordier. Infine, molti dei codici che si trovavano nella biblioteca del castello pavese gli sono appartenuti: alcuni risultano copie, riccamente miniate, fatte eseguire da Francesco Sforza per invogliare G. allo studio dei classici; altri erano copie da lui direttamente commissionate, o a lui dedicate da poeti, scrittori e trattatisti.

Di pari passo con le iniziative di governo G. dovette vigilare per il mantenimento del proprio dominio a fronte delle costanti pressioni esterne. Erano, quelli, anni in cui gli antichi collegati cercavano ormai freneticamente di imbastire nuovi accordi bilaterali a tutela di interessi particolaristici e immediati, che finivano per favorire i piani delle grandi potenze straniere, sempre più inclini a intervenire in Italia. Lorenzo de' Medici, per difendersi dai nemici del suo regime che si erano stretti intorno al re di Napoli, ricercò e ottenne l'amicizia di Venezia (2 nov. 1474), che si era allontanata dal sovrano aragonese in seguito alla controversia su Cipro, dove Ferdinando I cercava senza successo di insediare Alfonso, suo figlio illegittimo. A G. si prospettavano così due possibili percorsi diplomatici da seguire: assecondare l'alleanza tra Firenze e Venezia per convincere il pontefice a riconoscere a Milano un ruolo egemone all'interno di una ricostituenda lega generale; oppure, stringere un nuovo accordo, visto di buon occhio da Sisto IV, con l'isolato re Ferdinando I e attuare l'antico progetto di sferrare un attacco congiunto contro la Serenissima. A dispetto di ogni previsione, tuttavia, G. optò per una terza soluzione: preso atto delle pericolose implicazioni insite nell'accordo da poco stipulato tra Francia e Svizzera e nella non meno minacciosa alleanza stretta da Luigi XI con Filippo di Savoia, G. ruppe il trattato con il sovrano d'Oltralpe e si strinse in alleanza con il duca di Borgogna (30 genn. 1475). L'accordo con Carlo il Temerario offriva in apparenza a G. una svariata gamma di vantaggiose opportunità: approfittare dello scontro prossimo tra il Borgognone e la Svizzera per stipulare con quest'ultima un trattato più favorevole al Ducato e tutelare i confini settentrionali; sperare nella rilevante intercessione del duca Carlo presso Federico III al fine di conseguire l'investitura imperiale; ottenere la partecipazione onorifica alla crociata contro i Turchi, che avrebbe accresciuto il prestigio internazionale del casato sforzesco; ma, soprattutto, stabilire il proprio controllo sul Piemonte e riconquistare Vercelli, con il consenso della duchessa reggente Jolanda, dichiaratasi favorevole all'accordo tra Milano e Borgogna. In realtà, Carlo il Temerario intendeva spingere lo Sforza a prender parte alla crociata in modo che il Ducato si trovasse esposto all'aggressione borgognona, prevista dal trattato di Nancy che egli aveva di recente sottoscritto con l'imperatore (17 nov. 1475). Gli intrighi del duca di Borgogna si dissolsero, però, dopo la sconfitta delle sue truppe a Morat, inflittagli dall'imponente macchina bellica elvetica. G., anche per frenare le possibili ritorsioni dei vicini Svizzeri, stipulò allora con il re di Francia un nuovo trattato (Roanne, 9 ag. 1476), che rimase tuttavia inoperante per l'insanabile contrasto insorto tra i contraenti sul destino della Savoia.

Il clima politico esterno, davvero incandescente in quel 1476, finì per arroventare gli animi anche all'interno del dominio sforzesco: ai primi di giugno, Gerolamo Gentile - sostenuto dal sovrano aragonese e da quello francese - tentò senza successo di istigare alla rivolta, in funzione antimilanese, i cittadini di Genova. Ancora più pericolosa per G. si rivelò poi la sedizione interna capeggiata dai suoi stessi fratelli, Sforza Maria e Ludovico, che - in giugno - nel corso di una seduta consiliare nel castello di Pavia tentarono di pugnalarlo. I due episodi, strettamente connessi tra loro, sembrano essere la minacciosa risposta del sovrano d'Oltralpe al progetto sforzesco di espansione nel Piemonte, che contrastava apertamente le mire francesi sulla Savoia. G. decise di procedere comunque nella spedizione in terra piemontese, ma si fece più cauto: nessuno, a Milano, conobbe infatti modalità e finalità della campagna militare, se non a occupazione avvenuta. Con il pretesto di volersi vendicare contro Giovanni Ludovico di Savoia, vescovo di Ginevra, continuo artefice di intrighi e ribellioni antisforzesche, il duca ordinò a Donato Del Conte di invadere la signoria territoriale che il prelato, in qualità di abate, deteneva nel Canavese. Il contingente militare - inizialmente composto da 200 famigli da corazza e 3000 fra balestrieri e fanti - si mosse rapidamente e, alla fine di giugno, aveva già occupato le terre facenti capo al dominio abbaziale di S. Benigno di Fruttuaria. In principio, G. avrebbe voluto - a obiettivo raggiunto - chiedere al vescovo ginevrino un riscatto di 40.000 ducati per rimetterlo in possesso dei beni abbaziali; ma, il 27 di quel mese, la duchessa Jolanda di Savoia era stata presa in ostaggio dal duca di Borgogna e G. si trovò dunque a disporre di un nuovo e più valido pretesto per proseguire la campagna in Piemonte. Decise pertanto di consegnare le terre conquistate al Consiglio di Torino, dimostrando in tal modo che le sue reali intenzioni erano di soccorrere la duchessa prigioniera e preservare il governo del nipote, il minorenne duca Filiberto, futuro sposo della figlia Bianca Maria, in virtù di un accordo matrimoniale stipulato tra le due dinastie nel 1474. Quasi a voler sistemare tutte le questioni rimaste in sospeso con il vicino Ducato di Savoia, il duca delegò poi al Del Conte il compito di ledere in modo massiccio e sistematico i suoi avversari occidentali nei loro possessi, trascurando l'occupazione permanente degli obiettivi conquistati. La vera offensiva sforzesca nella Savoia cismontana, infatti, non era ancora stata lanciata: G. era in paziente attesa di un valido appiglio istituzionale che legittimasse il suo intervento in Piemonte e, soprattutto, di avere - nelle abbondanti nevicate invernali - l'unico alleato in grado di impedire alle truppe del re di Francia di valicare le Alpi e contrastare la sua azione di conquista. Il destro politico gli venne offerto quando, ai primi di settembre del 1476, il sovrano d'Oltralpe inviò a Torino Filippo di Savoia in qualità di governatore del Piemonte, ufficialmente per difendere i diritti della duchessa Jolanda, in realtà per riaffermare la totale dipendenza della Savoia dalla Corona francese. Tra ottobre e novembre G. guidò l'esercito nel Vercellese, dove occupò Santhià e San Germano, decidendo poi di porre il suo quartier generale, per la successiva campagna di primavera, a Moncrivello. Forse a motivo di ciò, Luigi XI cambiò fronte rapidamente e, riconosciuti alla sorella i diritti di reggenza della Savoia, richiamò Filippo Oltralpe privando così lo Sforza del movente per intervenire in Piemonte a difesa della duchessa Jolanda. Allora, con il probabile fine di rendere manifesto a Luigi XI che egli aveva compreso il suo gioco, G. inviò in Francia - quasi fossero un presente natalizio - due delle pedine asservite, per ambizione personale, ai piani del re: i fratelli Sforza Maria e Ludovico, autori del suo tentato assassinio.

Di attentati alla propria vita, veri o presunti, G. ne aveva subiti sin dalla sua ascesa al governo, il più clamoroso risultava quello portatogli da "uno balestrero da cavallo, lo quale - quando noi eramo in campo in Romagna - cercò per molte vie de amazarne, ma essendone noi advisati per bona via, li fecemo venire fallito el pensero" (Arch. di Stato di Milano, Sovrane, cart. 1462). Il tentativo di assassinare G. non era riuscito, dunque, sia perché la vittima era stata debitamente informata, sia perché l'attentatore non era persona che godesse della sua fiducia e in grado pertanto di avvicinarlo impunemente. Curato sin nei minimi particolari, invece, il progetto di uccidere G. che prese corpo tra la fine di agosto e i primi di settembre 1476, quando egli si apprestava alla campagna di Piemonte. L'organizzazione della congiura venne affidata a Giovanni Andrea Lampugnani, nobile milanese, che in breve tempo riuscì a coinvolgere altri due giovani membri del patriziato cittadino, Gerolamo Olgiati e Carlo Visconti, oltre a una eterogenea e nutrita schiera di favoreggiatori, cui affidò un ruolo di secondo piano nell'esecuzione del suo progetto. I seguaci in armi erano stati scelti con cura dal Lampugnani in base allo stesso requisito che animava il suo gesto: rancori vecchi e nuovi che l'atteggiamento di G., estremamente disinvolto nel trattare con la nobiltà cittadina, aveva infiammato in uomini convinti di essere stati ingiustamente allontanati dai vertici del governo. Il rapido processo di emarginazione dal potere che lo Sforza aveva avviato a danno del patriziato milanese, sistematicamente escluso dai gangli vitali dell'apparato di governo, aveva assunto dimensioni tanto considerevoli da essere stato notato anche all'estero. A scorgere per primo i vantaggi derivanti da tale latente conflitto, fu lo stesso Luigi XI che, nel rinnovare il trattato con G. nell'estate 1476, dette implicitamente a intendere all'oratore ducale Francesco da Pietrasanta, esponente del patriziato urbano, che egli avrebbe avallato ogni impresa politica del ceto aristocratico volta a ribaltare la situazione interna del Ducato.

Scelti gli uomini, il Lampugnani concentrò la sua attenzione sul luogo e sul momento nel quale attuare il progetto: venne deciso di sfruttare la consuetudine dei duchi di recarsi ad ascoltare la messa nel giorno di S. Stefano nella chiesa omonima. Il posto prescelto rispondeva a requisiti ideali per la buona riuscita dell'attentato perché, oltre a contare sul fattore sorpresa, i congiurati avrebbero potuto seguire, in modo esplicito, l'esempio di quei nobili milanesi (in gran parte loro diretti antenati) che, rivendicando l'autonomia del governo cittadino e le libertà comunali, avevano ucciso il duca Giovanni Maria Visconti all'uscita della chiesa di S. Gottardo nel 1412. Per quanto concerneva l'esecuzione materiale dell'assassinio, il modello cui vollero rifarsi apertamente era quello - ben noto - messo in atto contro Giulio Cesare, con l'intento di nobilitare il gesto come legittima reazione alla condotta tirannica del principe. Così, la mattina del 26 dic. 1476, il Lampugnani e gli altri cospiratori si recarono nella chiesa di S. Stefano in paziente attesa dell'arrivo di Galeazzo Maria. Mancò poco, tuttavia, che l'intero piano fallisse, perché G. e il suo seguito, scoraggiati dall'imperversare del cattivo tempo, furono tentati di rinunciare all'impegno; senonché il duca, nel timore "che si potria dire che 'l fussi venuto qui [a Milano] e non si lassassi vedere, […] si aviò, e montò a chavallo con tutta la chorte e ve 'l chonduciemo a quella benedetta chiesa", come ebbe poi a riferire il fiorentino Orfeo Cenni da Ricavo, consigliere segreto, in un lungo resoconto scritto che egli fece dell'accaduto all'oratore ducale Sforza Bettini (Casanova, p. 304). Entrato che fu in chiesa, G. venne fermato nel suo incedere dal Lampugnani che - fattosi largo tra la folla - cadde alle sue ginocchia per presentare una pretestuosa supplica in favore del suo casato. G. reagì irritato e il Lampugnani replicò conficcando il pugnale, nascosto sotto il mantello avvolto intorno al braccio, nell'inguine di Galeazzo Maria. Dopo un secondo colpo che raggiunse G. allo stomaco, anche gli altri due congiurati si avventarono su di lui. Nella chiesa si scatenò il panico e la scena che si presentava agli astanti dovette essere davvero raccapricciante: il Lampugnani, fuggendo, inciampò, cadde e venne ucciso sul posto dai provvisionati ducali i quali, dopo lo sbandamento iniziale, tentavano affannosamente di ovviare all'irreparabile, colpendo e catturando quei congiurati che, meno lesti di altri, non si erano ancora dileguati tra la folla.

I pericoli, subito evidenti, che la crisi politica apertasi con l'uccisione di G. comportava, sia per la stabilità interna del dominio (minacciata da prevedibili sedizioni dei centri soggetti, non meno che da una lotta per la successione resa inevitabile dall'essere Gian Galeazzo ancora minorenne), sia per le mire che da sempre alcuni potentati stranieri - soprattutto Napoli, la Francia e Venezia - nutrivano sul Ducato, spinsero i principali esponenti del ceto nobiliare a riversarsi nelle strade di Milano: "gridando: Ducha! e confortando el popolo" (Casanova, p. 306). Con tale gesto, in apparenza paradossale, gli ottimati perseguivano il duplice scopo di conservare la legalità e di ricostruirsi un'immagine - negli ultimi tempi assai appannata - di assoluta adesione alla dinastia che avrebbe permesso loro, come di fatto avvenne, di recuperare l'egemonia perduta, infiltrandosi nei delicati meccanismi di un governo di reggenza. E sulla volontà comune di garantire la continuità del potere ducale testimoniano a sufficienza i resoconti, ufficiali o meno, che vennero trasmessi in Italia e all'estero per illustrare l'accaduto.

Piccole e grandi contraddizioni, indicative del generale sconcerto provocato dall'assassinio di G., sembrano segnare anche l'atteggiamento che il governo di reggenza tenne nei confronti dei congiurati, delle loro famiglie e dei loro complici, quasi a dimostrazione dell'incapacità, o dell'impossibilità di affrontare e reprimere un complotto così vasto. Le confessioni rilasciate sotto tortura dai congiurati catturati svelano i retroscena dell'attentato solo in senso orizzontale, denunciando complicità di medio e basso livello oppure coinvolgendo persone compromesse da tempo, per altri motivi, agli occhi dell'autorità ducale. Gli elementi che avrebbero potuto ricondurre l'attentato alle più alte sfere della nobiltà e della corte milanese, in definitiva le dirette beneficiarie del gesto, furono eliminati, trascurati, oppure s'infransero nella reticenza dei testimoni e nell'inerzia degli inquirenti.

Che la complessa morfologia della congiura, troppo compromessa da un imprecisabile numero di fattori politici - interni ed esterni - per essere circoscritta ai suoi soli esecutori materiali e ricondotta a un unico ideale, avesse gettato in grave imbarazzo l'apparato di governo ducale, nonché i membri stessi della dinastia sforzesca, appare evidente allorquando si consideri la sorte riservata alle spoglie mortali di Galeazzo Maria. Il cadavere del quinto duca di Milano soltanto a sera venne: "ridutto in la canonicha de Sancto Stefano" (Arch. di Stato di Mantova, Gonzaga, cart. 1625), spogliato, lavato e esaminato. Vestito con gli ornamenti ducali, G. "fu portato nel magiore templo de Maria Vergine e tumulato un mezo de due colonne, levato da terra ad alto ne l'ordine de li antecessori suoi" (Corio, p. 1410) "per non fare altra demostrazione ove el se sia, et anche in posterum non se possi mostrare a dito" (Arch. di Stato di Mantova, Gonzaga, cart. 1625). L'imbarazzo della corte milanese era evidente.

In seguito a una serie di gravi accessi di febbri che lo avevano colpito tra l'autunno 1469 e il 1471, G. aveva dettato due testamenti, uno a Pavia il 18 maggio 1470, l'altro a Milano il 3 nov. 1471, rogati dal notaio Cristoforo Cambiaghi, suo segretario. G. ebbe quattro figli legittimi: il primogenito Gian Galeazzo, il 20 giugno 1469; Ermes il 30 maggio 1470; Bianca Maria il 19 luglio 1471 e Anna il 18 luglio 1476. Prima del matrimonio ebbe, da Lucrezia Landriani, quattro figli naturali tutti legittimati: Carlo nel 1458, Alessandro nel 1460, Caterina nel 1463, e Chiara nel 1464. Dalla sua ultima amante, Lucia Marliani, ebbe altri due figli, pure legittimati: il 17 apr. 1476 Galeazzo, e nel 1477 Ottaviano, nato postumo.

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