MALATESTA, Galeotto Roberto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 68 (2007)

MALATESTA (de Malatestis), Galeotto Roberto

Anna Falcioni

Figlio illegittimo e primogenito di Pandolfo (III), signore di Fano, e della bresciana Allegra dei Mori Castellano, nacque a Brescia, o forse a Rimini, il 3 febbr. 1411. Il M. fu affidato allo zio paterno Carlo Malatesta, signore di Rimini, e alla moglie di questo Elisabetta Gonzaga, che riversarono su di lui le cure premurose di due genitori mancati.

Sin dagli esordi sulla scena pubblica, gli incarichi ufficiali del M. furono di stampo prettamente diplomatico: il 18 maggio 1426 venne inviato, in rappresentanza dello zio, ad accogliere il legato pontificio della Romagna Louis Aleman al fine di porgergli gli omaggi della casata e congratularsi per la recente riconquista di Imola e Forlì, sottratte al duca di Milano. L'anno successivo scortò dal Casentino a Rimini Margherita Anna, figlia di Francesco dei conti Guidi di Poppi, che il padre Pandolfo avrebbe dovuto sposare in terze nozze. Alla morte di questo (3 ott. 1427), il M. accondiscese di buon grado a tutte le iniziative dello zio Carlo, tese a proiettarlo al vertice della famiglia e dello Stato. La prima decisione presa in merito da Carlo fu quella di adottare legalmente il M. combinando per lui, nel 1427, anche un matrimonio vantaggioso con Margherita, figlia di Niccolò (III) d'Este signore di Ferrara. Ma maggiore interesse rivestiva la questione dell'eredità malatestiana: il signore di Rimini partì alla volta di Roma, per ottenere una favorevole legittimazione del M. e dei fratellastri Sigismondo Pandolfo e Domenico detto Malatesta Novello e la conseguente possibilità di accedere al potere. Un viaggio, questo, resosi, tra l'altro, necessario per arginare l'intromissione nella causa successoria della parte pesarese della famiglia ben decisa a far valere i propri legittimi diritti. Carlo vantava però crediti nei confronti di papa Martino V, avendo svolto un ruolo fondamentale nella sua elezione al soglio pontificio: fu così che il signore di Rimini ottenne la legittimazione di tutti e tre i nipoti ai quali assicurò, nella fitta rete di rapporti dinastici, la protezione dei signori di Mantova, Faenza e Ferrara.

Alla morte di Carlo (14 sett. 1429), tutto era pronto per un passaggio di poteri senza traumi: il diciottenne M. assunse la guida dello Stato malatestiano, ma subito si profilarono all'orizzonte minacce e pericoli. Il 23 genn. 1430 Martino V, in aperta contraddizione con quanto promesso allo zio, intimò la cessione alla Chiesa di tutte le terre che i Malatesta possedevano a titolo di vicari, con diritto però di rivalsa producendo entro trenta giorni le proprie ragioni. Di fronte alle richieste avanzate dal pontefice, apertamente intenzionato a esautorare il ramo riminese, il M. mise subito in mostra il suo carattere mite, incline alla conciliazione pacifica più che alle armi. Facendo sfoggio di una moderazione che nasceva da un attento calcolo politico, il M. agì su due fronti distinti: da una parte, sostenuto dal podestà Ungaro degli Atti di Sassoferrato, riportò l'ordine all'interno della città di Rimini che, non gradendo l'iniziativa pontificia, era insorta; dall'altra attivò una fitta rete di canali diplomatici presso la Curia, inviando ambasciatori a Roma, non senza aver manifestato prima la propria disponibilità a restituire Sansepolcro, Cervia, Bertinoro e le terre al di là del Metauro, secondo i desideri espressi dal papa. La risoluzione d'ogni dissidio avvenne comunque l'11 marzo 1430, quando una lettera di Martino V riconosceva il M. erede legittimo di Carlo, in risposta alla proposta, ovviamente accolta, di riconsegnare, in cambio, alla Chiesa tutte le terre da lui richieste. Inoltre il M. e i suoi fratelli ricevettero le bolle di investitura dei vicariati di Rimini, Cesena e Fano (1430), confermati fino all'ottava generazione mantenendo, così, invariato e ancora più saldo il dominio sul nucleo fondante della signoria.

L'ascesa al potere riminese del giovane M. fu, tuttavia, accompagnata dal coagularsi di una pericolosa opposizione interna di matrice aristocratica, nata in seno al Consiglio da lui stesso nominato e sfociata nell'iniziativa sovversiva di Giovanni di Ramberto Malatesta. Costui, nel maggio 1431, forte della solidarietà dei Malatesta di Pesaro, tentò di impadronirsi della città. Il preventivo avvertimento di Niccolò (III) d'Este, suocero del M., l'ardita reazione di Sigismondo Pandolfo, ma soprattutto la lealtà dei sudditi riminesi e le pressioni di Venezia determinarono il fallimento del moto di ribellione, che pure costrinse tutta la famiglia Malatesta a rifugiarsi nel palazzo del Gattolo.

D'estrazione decisamente popolare apparve, invece, il tumulto che si verificò, nell'autunno 1431, a Fano. Il moto cittadino fu, infatti, guidato da un ecclesiastico regolare, Matteo Buratelli da Cuccurano, appoggiato dagli strati meno abbienti della popolazione. La crisi fu risolta a favore della signoria grazie alla repressione condotta da Sigismondo Pandolfo e dalle milizie accorse in suo aiuto sotto la guida del cugino Carlo Malatesta di Pesaro e il 22 dic. 1431 il Buratelli fu impiccato.

Per riaffermare il pieno dominio della signoria, il 9 genn. 1432 il M., affiancato dai fratelli, concesse a tutti coloro che avevano preso parte all'insurrezione il condono delle pene, devolvendo i beni confiscati al Buratelli al capitolo della cattedrale di Fano e accordando l'esenzione dal pagamento del dazio della pesa ai canonici della città. Un'analoga politica di riconciliazione era stata perseguita dal M. nei confronti dei fautori e dei complici di un altro tumulto fanese, verificatosi nel maggio 1431, durante il quale era stato aggredito il vescovo Giovanni da Serravalle. In tale occasione il M. intervenne per la salvezza dei rivoltosi, evitando che fossero comminate la scomunica e l'interdizione dalla vita religiosa e civile.

I tumulti del 1431 erano nati in una situazione di crisi, che già in precedenza aveva richiesto interventi legislativi. Ai primi segnali di difficoltà che erano arrivati dalla città di Fano il governo malatestiano aveva risposto prontamente con la concessione, il 3 nov. 1429, di una serie di esenzioni volte ad alleviare la difficile situazione economica e il dilagante pauperismo. Tra l'ottobre e il novembre 1430 il M. rinnovò al Comune le immunità già conferite da Pandolfo (III) e, per favorire una certa mobilità nei commerci su scala locale, riconobbe sgravi daziari, in particolare sul trasporto dei cereali. Come punto d'appoggio a difesa del contado fanese, il M. munì di opere campali il castello di Serrungarina.

Nella medesima ottica si pongono gli interventi operati a favore di Rimini dove fu rinnovato un decreto che consentiva ai mercanti ragusei di commerciare liberamente piombo, stagno, pellame, cera e lana all'interno della città e del suo territorio. Sempre per agevolare gli scambi, i Malatesta applicarono esoneri fiscali per l'esportazione di panni, guado, robbia, vasellame e frutta, oltre a prendere sotto il loro controllo l'attività feneratizia ebraica, al fine di tutelare i diritti dei debitori. Sempre a Rimini, il M. portò a termine, con il placet di papa Eugenio IV (1431), i lavori di fortificazione alla porta e al palazzo signorile del Gattolo.

Nella gestione dello Stato, il M. non si dimostrò quindi un incapace come gran parte della storiografia ha indotto finora a credere e, soprattutto nella politica estera, egli tese a consolidare la rete di relazioni già avviata dallo zio Carlo, imperniata sul riconoscimento del ruolo egemone di Venezia nell'Adriatico e sulla tradizionale alleanza con il marchese di Ferrara, dei cui consigli egli, da buon genero, non esitò a valersi.

Né la sua corte fu avulsa dal mecenatismo e dall'amore per le lettere: nel 1430 a Rimini soggiornarono per un certo periodo Carlo Marsuppini, che dedicò al M. la traduzione dell'opera Ad Nicoclem di Isocrate, e Niccolò Niccoli, venuti al seguito dei fratelli Cosimo (il Vecchio) e Lorenzo de' Medici.

Un aspetto importante della biografia del M. riguarda la sua religiosità, sulla quale non mancano contributi che ripropongono su basi critiche e con apporti documentari e iconografici i tradizionali studi sull'argomento. Questo tipo di indagine non ha potuto prescindere dalle numerose opere agiografiche pervenute, capostipite delle quali è il Tractatus (o Legenda) de vita et morte religiosi viri beati Galeocti Roberti de Malatestis Tertii Ordinis Sancti Francisci, redatto poco dopo la morte del M. da Nicola da Rimini, un francescano maestro di teologia, che lo conobbe personalmente. Appena posteriore al Tractatus furono la redazione in latino e il volgarizzamento della vita del M. scritta da un altro francescano, Mariano da Firenze, entrambe le versioni pubblicate dal Giovanardi (1928).

Il Tractatus, edito nel 1915 dal Bartolucci, dispose una serie crescente di aneddoti di carattere schiettamente devozionale intorno a quello che potremmo definire l'evento clou dell'esperienza religiosa del M.: il suo ingresso, il 4 ott. 1431, nel Terzo Ordine francescano. Da un attento vaglio di tutte le fonti agiografiche questo avvenimento, documentato da testimoni oculari, quali lo stesso frate Nicola, e riferito anche dalle cronache, resta probabilmente uno dei punti fermi per la moderna scienza storica. Il resto, quando non è ripetizione pedissequa di certi stereotipi agiografici, si sottrae a ogni verifica critica e viene inficiato dal dubbio della forzatura per fini apologetici ed encomiastici.

Il M. morì a soli 21 anni, nella rocca di Santarcangelo, il 10 ott. 1432. Scelse di essere sepolto con umiltà, come era vissuto, facendosi tumulare nella terra davanti alla chiesa di S. Francesco di Rimini.

La sua scomparsa prematura e una vita dedita, in parte, a opere pie e alla continenza contribuirono in maniera determinante a diffondere fin da subito la sua fama di santità, riflessa anche in un affresco absidale conservato nel convento di S. Francesco in Rovereto di Saltara. Eseguito attorno alla metà degli anni Trenta dal pittore pesarese Giovanni Antonio Bellinzoni, il dipinto raffigura il M. con la tonaca francescana e il cordiglio, accanto a s. Sebastiano e s. Francesco. La Chiesa di Roma, da parte sua, non accennò minimamente a cause di beatificazioni, mentre la pietà popolare tributò onori da santo al M. e finì con l'ispirare le opere agiografiche e iconografiche coeve e postume.

Fonti e Bibl.: Cronache malatestiane dei secoli XIV e XV, a cura di A.F. Massera, in Rer. Ital. Script., 2a ed., XV, 2, pp. 60-63; B. Branchi, Cronaca malatestiana, a cura di A.F. Massera, ibid., p. 175; T. Borghi, Continuatio Cronice dominorum de Malatestis, a cura di A.F. Massera, ibid., pp. 88 s.; Legenda b. Galeoti Roberti de Malatestis(, a cura di C. Bartolucci, in Archivum Franciscanum historicum, VIII (1915), pp. 532-557; Vitae duae b. Galeoti Roberti de Malatestis(, a cura di G. Giovanardi, ibid., XXI (1928), pp. 62-85; C. Clementini, Raccolto istorico della fondatione di Rimino(, II, Rimino 1627, pp. 226-269; F.G. Battaglini, Memorie istoriche di Rimino(, Bologna 1789, pp. 157, 227-232, 314, 407 s.; L. Tonini, Della storia civile e sacra riminese, V, Rimini nella signoria de' Malatesti, 1, Rimini 1882, pp. 76-79, 81-94, 675-694; G. Giovanardi, Il beato G.R. Malatesti nel suo V centenario, in Il Rubicone, IV (1932), pp. 29-33; T. Kaeppeli, Le traduzioni umanistiche di Isocrate(, in Studi romagnoli, II (1951), pp. 57-65; G. Franceschini, I Malatesta, Varese 1973, pp. 311-320; A.G. Luciani, La signoria di G.R. M. (1427-1432), Rimini 1999; A. Turchini, Il tempio Malatestiano, Sigismondo Pandolfo(, Cesena 2000, pp. 44 s., 82, 91, 93 s., 96, 98-102, 104, 108, 121, 154, 169, 197, 313, 380, 397; Bibliotheca sanctorum, VIII, pp. 582 s.

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