GANIMEDE

Enciclopedia Italiana (1932)

GANIMEDE (Γανυμήδης, Ganymēdes)

Angelo Taccone

Secondo la leggenda più nota egli è figlio del Dardanide Troe e di Calliroe, figlia dello Scamandro; altre versioni lo dicono nato di Laomedonte o d'Ilo o d'Assàraco o d'Erittonio. La più antica forma della leggenda (Iliade, XX, 232 segg.) lo dice il più bello dei mortali e narra che appunto perciò gli dei lo rapirono e lo portarono in cielo perché servisse da coppiere a Zeus ed abitasse sempre con gli eterni. Ben presto però Zeus medesimo rapisce il giovinetto, al cui padre concede come compenso immortali rapidissimi cavalli o un aureo tralcio, opera di Efesto. In antico sembra sia stato un impetuoso vento mandato dagli dei a rapire G., ma ad un certo punto (dopo Ibico) sottentra l'aquila di Zeus e da ultimo Zeus medesimo in forma d'aquila. Il luogo del ratto è in origine la Troade, dove Ganimede al momento in cui viene rapito sta pascolando le greggi del padre. Ma quando la leggenda di Ganimede va assumendo un carattere erotico (il che avviene abbastanza presto; vedi, tra l'altro, i versi 1345-46 della silloge teognidea) le località variano, e si spostano in paesi ove l'amore per giovanetti fu specialmente fiorente, come Creta e l'Eubea. Varie località appaiono anche nelle spiegazioni razionalistiche della leggenda, che sostituiscono a Zeus come rapitore Tantalo o Minosse. La leggenda che narra di G. come dell'amasio di Zeus, è quella che ha preso più sviluppo nella poesia classica. Vi accennano più o meno largamente ad es. Pindaro nell'Olimpica I, Sofocle nelle Colchidi (fr. 320 N.2), Euripide in luoghi dell'Oreste, dell'Ifigenia in Aulide, molti epigrammi (in qualcuno è anche introdotto il motivo della gelosia di Era), Luciano, Nonno, Ovidio. Alla tarda età ellenistica o alla romana appartiene il catasterismo di G. come hydrochoos.

La leggenda di Ganimede ha offerto parecchi soggetti all'arte antica; la quale ha tuttavia in particolar modo preferito la rappresentazione del ratto. Molte sono le figurazioni vascolari; ma qui accenneremo, per brevità, solo alle opere della grande arte, dove riuscì famoso specialmente il bronzeo gruppo di Leocare ateniese (2ª metà del sec. IV a. C.), nel quale il problema di presentare il giovinetto coi piedi che più non toccano terra è risolto mediante l'appoggio dell'aquila ad un tronco d'albero. Ne abbiamo un certo numero di mediocri riproduzioni marmoree, tra cui la migliore è quella che si conserva in Vaticano nella Galleria dei Candelabri. Nel gruppo di Leocare l'aquila è la ministra di Zeus, e come tale tende non soltanto col volo ma pur con lo sguardo al cielo, alla dimora del suo signore. Invece al momento della leggenda in cui Zeus medesimo in forma d'aquila rapisce per amore il bel giovinetto s'inspira il gruppo marmoreo conservato a Venezia (Museo di S. Marco), dove il braccio destro del giovinetto fu malamente restaurato: esso doveva in origine cingere il collo dell'aquila. Altri momenti della leggenda preferiti dalla rappresentazione artistica furono quello in cui l'aquila si trova a terra accanto a Ganimede e quello di Ganimede che abbevera l'aquila.

Bibl.: W. Drexler, in Roscher, Lexikon d. gr. u. röm. Mythol., I, coll. 1595 segg.; Pauly-Wissowa, Real-Encykl., VII, coll. 737 segg.; L. Preller, Griech. Mythologie, 4ª ed. di C. Robert, I, Berlino 1894, pp. 499 segg.

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