GARGIULO, Domenico, detto Micco Spadaro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 52 (1999)

GARGIULO, Domenico, detto Micco Spadaro

Matteo Lafranconi

Pittore napoletano attivo principalmente nei due decenni a cavallo della metà del XVII secolo, dotato di un talento brillante, è scarsamente documentato nonostante un'ampia produzione, sistematizzata nella monografia a lui dedicata da Sestieri e Daprà.

La ricostruzione della vicenda biografica del G. passa necessariamente attraverso la considerazione prudente della testimonianza di Bernardo De Dominici, che a lui ha dedicato una "vita" ricca di informazioni la quale, pur mescolando notizie autentiche a varie fioriture aneddotiche, rappresenta l'unica significativa fonte letteraria a nostra disposizione, ricca soprattutto di acute intuizioni critico-stilistiche. Secondo lo storico napoletano il G. "nacque nella città di Napoli l'anno 1612 da Pietro Antonio, che l'arte di spadaro esercitava nella strada detta di Visitapoveri". L'indicazione della residenza della famiglia ha spinto già Ceci a cercare conferme nei registri battesimali della parrocchia di S. Giacomo degli Italiani conducendo uno spoglio sistematico per i primi tre decenni del XVII secolo ma trovando solamente due "Domenico Gargiulo": il primo nato il 16 apr. 1609 da Giovan Jacopo Gargiulo e Claudia Sifola e l'altro nato il 1° apr. 1610 da Paolo Gargiulo e Angela Infantino; ma naturalmente è possibile che non si tratti di nessuno dei due e che lo storico si sia sbagliato oltreché sulla data e sul nome del padre, anche sul nome della strada.

De Dominici racconta la vicenda del G. basandosi sull'idea di fondo, invero funzionale all'efficacia romanzesca di quelle pagine, di una sua inclinazione naturale e precocissima verso la pratica del disegno; una propensione che, giovinetto, lo avrebbe presto fatto entrare in conflitto con il padre, propenso piuttosto a che il figlio proseguisse nell'attività di fabbricante di spade. Una forte determinazione a perfezionarsi nell'arte del disegnare lo avrebbe portato dapprima a esercitarsi da solo, copiando accuratamente stampe e disegni di maestri affermati e poi, compiuti i diciotto anni, a trovare accesso, grazie alla sua amicizia con Carlo Coppola, alla bottega di Aniello Falcone dove oltre a Coppola lavoravano anche Andrea de Lione, Paolo Porpora, Marzio Masturzo e Salvator Rosa. Sarebbe stato particolarmente l'esempio di quest'ultimo, il quale si andava distinguendo per un'elaborazione originale e spiritosa del genere paesistico, a educare il G. al gusto per la rappresentazione realistica del paesaggio, incoraggiandolo a esercitarsi dal vero durante le frequenti uscite in campagna.

La progressiva specializzazione nella rappresentazione di paesaggi o scene cittadine affollate da figurine presentate con minuto descrittivismo e con attenzione quasi cronachistica verso la realtà sociale popolare, venne elaborata sulla base di una non dissimulata aderenza - da un punto di vista sia stilistico sia compositivo - ai modelli di Jacques Callot, le cui incisioni dovevano di certo circolare anche a Napoli; tale specializzazione limitò le sue possibilità di ergersi a protagonista della scena artistica napoletana, ricca in quel momento di diverse figure dominanti delle grandi commissioni pubbliche, ma gli consentì certamente una solida affermazione relativamente a quel genere la cui risonanza era, e sempre più sarebbe stata, di carattere tipicamente privato. De Dominici, che non manca di individuare questo aspetto, ci fornisce un nutrito elenco di opere del G. presenti nelle case di notabili napoletani; per quanto raramente verificabile, questo elenco rappresenta una preziosissima fonte per la storia del collezionismo a Napoli tra Sei e Settecento (Labrot, pp. 508-510). In particolare viene citato il nome del regio consigliere don Rodrigo Messia il quale avrebbe acquistato dal G. una Strage degli innocenti, opera non ancora rintracciata che fu tra le prime a ottenere un certo consenso pubblico quando fu esposta durante la festa del Corpus Domini, in occasione della quale ogni anno giovani pittori presentavano le loro opere sui quattro altari della chiesa omonima. Viene ricordata anche la grande considerazione che del G. ebbe il reggente Stefano Carriglio il quale gli commissionò diverse opere da inviare in Spagna (Ruotolo, pp. 146 s.). Un'Eruzione del Vesuvio di collezione privata napoletana e la celebre Rivolta di Masaniello del Museo di S. Martino a Napoli (Sestieri - Daprà, nn. 140 s.) corrispondono molto probabilmente ai due dipinti che De Dominici vide in casa del cavaliere Piscitelli. Altri dipinti, descritti come paesi e marine, capricci o "quadri con feste, fiere ed altri accidenti", sono ricordati nelle case del duca di Sant'Elia, del barone di San Luigi, del duca di San Vito de' Caraccioli, del principe di Avellino e di altri titolati ancora.

Pur confondendo i termini storici precisi, De Dominici sottolinea l'importanza della collaborazione con Viviano Codazzi da Bergamo, secondo lui iniziata a partire dal 1647 sotto il patrocinio di Gaspar Roomer; essa consentì dapprima la sperimentazione e poi la serializzazione di una formula di ampio successo, basata sull'inserimento delle vivaci scene del G. entro le prospettive architettoniche monumentali del pittore bergamasco. In realtà nel 1647, anno della rivolta popolare detta di Masaniello, Codazzi non era "da poco giunto in città" ma era piuttosto in procinto di lasciarla essendo arrivato probabilmente già nel 1634, anche se il problema della sua attività giovanile - compreso quello di una preliminare formazione romana - resta ancora sostanzialmente aperto. Di fatto il G. seppe inserirsi armoniosamente nel tessuto espressivo di Codazzi sotto il profilo sia pittorico sia compositivo, dimostrandosi capace di valorizzare con intelligenza le caratteristiche prospettiche proprie del suo collega, soprattutto nell'organizzazione delle complesse coreografie dei gruppi di figure. È senz'altro a questa capacità che De Dominici si riferisce parlando di "figure proprie e ben situate". Federico Zeri (in Marshall, p. VII) ha rilevato che tale fusione assume oggi un risalto minore rispetto a quello che doveva avere un tempo, e ciò in quanto le parti dipinte da Codazzi hanno spesso subito un irreversibile processo di ossidazione che ne ha alterato gli effetti di volumetria e profondità spaziale.

Trattandosi di un pittore prodigo di sigle a margine dei suoi dipinti ma avaro di date, la produzione del G. deve necessariamente articolarsi attorno allo snodo della sua produzione per i monaci della certosa di S. Martino, l'unica a essere documentata con una certa precisione (Faraglia, 1885; Sestieri - Daprà, pp. 25-35). Si è generalmente ritenuto che i primi lavori svolti dal G. all'interno della certosa fossero gli affreschi nella cappellina del Tesoro (1638 circa), ma alla luce di una più attenta lettura dei documenti è stato possibile affermare che il G. iniziò la sua lunga collaborazione con i monaci nell'atrio della chiesa, affrescando i due riquadri delle pareti laterali con episodi della persecuzione dei certosini in Inghilterra (Sestieri - Daprà, p. 27). Il G. dovrebbe essersi dunque inserito nel cantiere nel 1637, anno cui corrispondono gli ultimi pagamenti all'ormai anziano Belisario Corenzio e forse proprio grazie a un'intercessione di quest'ultimo. A ciò seguirebbero effettivamente gli affreschi della volta della cappellina del Tesoro, il grande ciclo, sempre ad affresco, del coro dei fratelli conversi (1638-40) e la decorazione di alcuni ambienti del cosiddetto quarto del priore iniziata nel 1642 e conclusasi nel 1646. Nel corso degli anni in cui fu impegnato alla certosa il G. realizzò per i monaci anche un considerevole numero di dipinti su tela, sistematicamente citati nei documenti, tra cui è senz'altro da ricordare il Rendimento di grazie dopo la peste del 1656, conservato nel Museo nazionale di S. Martino e recante la data 1657 (Sestieri - Daprà, n. 146), con il quale - a tre anni dall'ultimo pagamento registrato dai documenti - si conclusero, a quanto ne sappiamo, i rapporti del G. con i monaci certosini. A questo dipinto è da collegarne un secondo, di soggetto analogo, raffigurante il Largo Mercatello durante la peste del 1656, anch'esso in S. Martino.

Tali dipinti, insieme con l'Eruzione del Vesuvio nel 1631 e alla Rivolta di Masaniello del 1647 già citati a proposito della collezione Piscitelli, formano un gruppo omogeneo in cui il G. rivela a pieno la peculiarità del suo modo di affrontare i quadri di storia. Intorno alla rappresentazione dell'eruzione del Vesuvio, per esempio, si erano cimentati già molti artisti soprattutto stranieri come François de Nomé, Didier Barra, Jan Asselyn; utilizzandolo come sfondo di raffigurazioni di s. Gennaro, il fenomeno era stato presentato anche da Domenichino nella cappella del Tesoro di S. Gennaro in duomo, nonché da Massimo Stanzione e Battistello Caracciolo alla certosa di S. Martino; il G., tuttavia, è l'unico che riprodusse - anche se molti anni dopo l'avvenimento - lo spettacolo naturale nei termini di un moderno vedutismo (Causa, pp. 1-15), senza tradire la sua indole che lo portava a rappresentare dettagli spiritosi e semmai ponendosi sulla scia di Scipione Compagno. Lo stesso avviene nella Peste al largo Mercatello, dove l'autore rifiuta di inserire la sua opera nel filone di quelle che affrontarono questo tema con intenzioni puramente religiose, dimostrandosi interessato piuttosto alla rappresentazione realistica di quello specifico momento storico.

Agli anni del più intenso impegno nella certosa, e precisamente al 1641, è legata l'Ultima Cena della chiesa di S. Maria della Sapienza (attualmente in deposito nel convento di S. Lorenzo Maggiore), una delle poche opere pubbliche in cui il G. si cimentò in un tema dell'iconografia religiosa tradizionale; tale dipinto è testimone, nelle ascendenze stilistiche di marca neoveneta, forse mediate da altri artisti attivi nella chiesa della Sapienza, di una formazione artistica che non si dovette evolvere con lineare coerenza. Di nuovo al 1641 sono da legare le figure a lui attribuite presenti in tre capricci architettonici di Codazzi recanti quella data (Sestieri - Daprà, nn. 77 s., 80).

Anteriormente a questa serie di dipinti che si snoda intorno al 1640 e stante l'oscurità degli anni della sua formazione e prima maturità, gli esordi del G. vanno per il momento individuati in una coppia di tondi con scene di genere, già nella collezione del principe di Fondi e oggi sfortunatamente dispersi (ibid., nn. 1 s.), che in occasione della mostra napoletana del 1938 Ortolani asserì essere firmati e datati 1636. Intorno alla metà del quarto decennio sono collocati per via stilistica alcuni altri dipinti che, oltre alla forte dipendenza dai bamboccianti romani già presente nella citata coppia di tondi, permettono di rilevare una certa indecisione impaginativa nella disposizione delle figure e un'inventiva ancora non del tutto disinvolta nella gestione dei particolari descrittivi; ciò ad esempio accade nella Fiera del Museo Correale di Sorrento o, in misura minore, nella Festa al santuario della Madonna dell'Arco (Napoli, collezione Amodio; ibid., nn. 5 s.). Alla seconda metà del quarto decennio sono stati anticipati i primi esempi della forte influenza che l'arte di Bernardo Cavallino esercitò sul G., particolarmente evidente nel denso impasto pittorico dell'Adorazione dei pastori di Filadelfia (La Salle University Art Museum); alle spalle di entrambi gli artisti, d'altronde, è da riconoscere pure l'ascendente esercitato dalle contemporanee ricerche del Maestro dell'Annuncio ai pastori. Certamente determinante dovette essere pure la presenza a Napoli di Giovanni Battista Castiglione (detto il Grechetto), documentato dal 1635 al 1639, che poté agire da mediatore con la cultura romana di area poussiniana ma anche da esemplificatore di una nuova, personalissima ambientazione pastorale di soggetti biblici (Standring, p. 16). La mediazione del Grechetto riguardò forse anche alcune componenti proprie del filone classicistico romano da Andrea Sacchi a Pietro Testa, individuabili dietro l'acquisizione da parte del G. di un gusto compositivo più aperto e movimentato.

Anche per quanto riguarda la formazione del G. più specificamente paesaggistica è necessario presupporre una conoscenza non superficiale dei vari specialisti stranieri attivi a Roma nei primi decenni del Seicento come Claude Lorrain, G. Dughet, C. van Poelenburg, J. Asselyn, B. Breenbergh e J. Both; da ciò è derivata l'idea non ancora documentata di un suo viaggio di studi a Roma intorno al 1630 che ben potrebbe spiegare un risultato come la Marina comparsa in un'asta Semenzato (ubicazione attuale sconosciuta; Sestieri - Daprà, n. 7), ritenuta uno dei primi esempi noti di paesaggistica pura eseguiti dal Gargiulo.

Per quanto riguarda invece l'attività tarda del G., dopo l'ex voto per la fine della peste dipinto per i monaci di S. Martino nel 1657 e fino alla sua morte, tanto alla certosa quanto altrove si perdono le tracce dell'artista.

Anche De Dominici, forse incapace di proporre un'articolazione cronologica dei dipinti da cavalletto elencati in base alla collocazione topografica, non si sofferma su questa fase e accenna soltanto alla frequentazione da parte del G. della bottega di Aniello Mele, rivenditore di quadri, dove si incontrava con l'ormai anziano Vaccaro e suo figlio Nicola, insieme ai più giovani Giovan Battista Ruoppolo e Luca Giordano; dello stile di quest'ultimo si possono rilevare tracce notevoli in alcuni dipinti che, per questa ragione, sono oggi riferiti alla produzione spadariana tarda: si vedano ad esempio La predica del Battista e il Battesimo di Cristo (entrambi conservati in collezioni private napoletane; ibid., nn. 167 s.), oppure l'Adorazione dei pastori e la Circoncisione (entrambi Marano di Castenaso, coll. Molinari Pradelli; ibid., nn. 169 s.). L'influenza giordanesca si mescola ad effetti prericceschi nell'Adorazione dei magi di Monaco (Bayerische Staatsgemäldesammlungen).

Oltre che dalla presenza di sue opere in tutte le più importanti collezioni napoletane dell'epoca, l'alta considerazione in cui il G. fu tenuto nel contesto artistico napoletano è testimoniata dal fatto che venne scelto come persona di fiducia per catalogare e stimare la quadreria di Ettore Capecelatro, una delle più rilevanti in città (Labrot, p. 101), nonché dal fatto che Luca Giordano nel 1664 volle dividere con lui l'incarico in S. Maria Reginacoeli (Sestieri - Daprà, p. 46), nonostante l'inesperienza nell'affrontare quadri a figure grandi. Il successo della formula spadariana è d'altronde implicito nell'esistenza di un nutrito seguito di imitatori e allievi, cui già De Dominici dedica ampio spazio, e dal quale emergono in modo speciale i nomi di Pietro Pesce, Ignazio Oliva, Francesco Salernitano e Giuseppe Piscopo anche se fra questi solo del primo conosciamo oggi alcune opere firmate (ibid., p. 47).

Un'ultima notazione dedominiciana su cui è interessante soffermarsi è quella secondo cui il G., che fin da giovane si esercitò in modo indefesso su opere grafiche altrui, mise insieme una raccolta di disegni di maestri celebri comprendente, secondo tale testimonianza, anche fogli raffaelleschi, la quale sarebbe poi confluita nella più celebre e ricca collezione di G. de Haro, marchese del Carpio, viceré a Napoli dal 1683 al 1687 (Mena Marqués).

Come per la nascita anche a proposito della data di morte l'informazione di De Dominici non è del tutto attendibile, malgrado la celebrità del G. e la maggiore prossimità temporale all'epoca in cui le Vite furono scritte; il teorico napoletano sostiene infatti che il G. morì a Napoli nel 1679 all'età di sessantasette anni ma ancora una volta il vaglio dei registri parrocchiali di S. Maria dell'Avvocata, sua presunta parrocchia se davvero abitava nei pressi della chiesa di Gesù e Maria, non ha permesso di confermare la notizia (Ceci), peraltro contraddetta anche dal fatto che Baldinucci afferma che "Micco Spataro, pittore di figurine e paesi, morì che sono tre anni", spingendoci dunque a pensare che il G. sia morto piuttosto intorno al 1675.

Fonti e Bibl.: F. Baldinucci, Nota de' pittori, scultori et architetti che dall'anno 1640 sino al presente…, in Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua (1681), a cura di P. Barocchi, Firenze 1975, VI, p. 366; B. De Dominici, Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani (1742-45), III, Napoli 1844, pp. 401-436; N.F. Faraglia, Notizie di alcuni artisti che lavorarono nella chiesa di S. Martino e nel Tesoro di S. Gennaro, in Arch. stor. per le province napoletane, X (1885), p. 446; Id., Notizie di alcuni artisti che lavorarono nella chiesa di S. Martino sopra Napoli, ibid., XVII (1892), p. 661; G. Ceci, D. G. detto Micco Spadaro. Memoria letta all'Accademia Pontaniana nella tornata del 16 febbr. 1902, in Napoli nobilissima, XIV (1905), pp. 65-68, 104-108; S. Ortolani, La pittura napoletana del sec. XVII, in La Mostra della pittura napol. dei secc. XVII, XVIII, XIX (catal.), Napoli 1938, p. 95; R. Causa, L'eruzione del Vesuvio nel 1631. Un dipinto di Micco Spadaro ed un poemetto di G.B. Bergazzano, Napoli 1956; R. Ruotolo, Collezioni e mecenati napoletani del XVII secolo, in Napoli nobilissima, s. 3, XII (1973), pp. 145-153; Dibujos italianos de los siglos XVII y XVIII en la Biblioteca Nacional (catal.), a cura di M. Mena Marqués, Madrid 1984, pp. 15, 19; T. Standring, La vita e l'opera di G.B. Castiglione, in Il Genio di G.B. Castiglione (catal.), Genova 1990; G. Labrot, Italian inventories, I, Collections of paintings in Naples 1600-1780, Munich-London-New York-Paris 1992, pp. 101, 508-510; D.R. Marshall, Viviano and Niccolò Codazzi, Milano 1993, ad indicem; G. Sestieri - B. Daprà, D. G. detto Micco Spadaro, Milano-Roma 1994 (con bibliografia completa); G. Borrelli, Un capolavoro annunciato, Napoli 1996; C.R. Marshall, "Causa di stravaganze": order and anarchy in D. G.'s Revolt of Masaniello, in The Art Bulletin, LXXX (1998), pp. 478-497.

CATEGORIE
TAG

Giovan battista ruoppolo

Strage degli innocenti

Bernardo de dominici

Adorazione dei magi

Belisario corenzio