Scaruffi, Gasparo

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia (2012)

Gasparo Scaruffi

Marco Bianchini

Gasparo Scaruffi è autore dell’Alitinonfo, un’opera che si colloca alle origini della scienza economica. Primo sistematico scritto italiano di temi monetari a contenuto anche teorico, è noto come precoce esempio di argomentazione scientifica a favore di un ordine monetario universale. Maturato in età rinascimentale, esso, tra l’altro, esprime le esigenze e le preoccupazioni di una borghesia finanziaria internazionale a fronte di un crescente disordine monetario e del progressivo avanzare dell’assolutismo politico. Sebbene intrisa di elementi della ‘magia naturale’ dell’epoca, l’opera impiega i metodi della nascente scienza sperimentale che stava emergendo dal mondo delle botteghe e dei fondaci mercantili, affermando la centralità dell’osservazione e della misurazione dei fenomeni.

La vita

Gasparo Scaruffi, ultimo di sette figli, nasce a Reggio Emilia il 17 maggio 1519 da Antonio e Giulia Dalli. Gli Scaruffi (detti dei Baldicelli o Baldocelli) fanno parte di una di quelle reti familiari di mercanti e banchieri italiani che, dal 14° al 16° sec., sono protagoniste, accanto a quelle ebraiche, del commercio internazionale. La loro presenza nel distretto di Reggio Emilia è attestata già nel 1315. La loro ascesa ai vertici della ricchezza è legata all’arte della seta il cui massimo splendore è raggiunto alla metà del Cinquecento, quando Gasparo Scaruffi ha una trentina d’anni. Nel corso di tre secoli, dal Cinquecento al Settecento, i diversi rami degli Scaruffi faranno parte delle quattro casate che siedono senza soluzione di continuità sui seggi consiliari della città. Il Comune che essi contribuiscono a rappresentare aveva compiuto, nel 1409, atto di dedizione agli Estensi in un’alleanza in grado di dare copiosi frutti.

Nell’arco di un secolo e mezzo, la città raggiungerà, grazie alla lavorazione della lana e della seta, uno splendore mai raggiunto prima e non più riconquistato. Da parte loro, gli Estensi faranno di Ferrara un punto di riferimento internazionale di politica e di cultura. Nella loro capitale troverà ospitalità, nel 1438, il Concilio tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente. A Ferrara farà le sue prime osservazioni astronomiche, nel 1497, Nicola Copernico. L’avanzare dell’assolutismo regio, nell’Europa della seconda metà del Cinquecento, indebolisce, però, l’autonomia del Comune. Il ridimensionamento di impero e papato riduce le garanzie e la forza di comunità di limitate dimensioni come Reggio, le politiche mercantilistiche degli Stati più potenti colpiscono le esportazioni dei preziosi tessuti locali e gli Estensi, da parte loro, procedono anch’essi a un progressivo accentramento dei poteri e, tra questi, anche quello di battere moneta.

Alla morte di Antonio Scaruffi, nel 1525, assume il ruolo di capofamiglia il secondogenito Gian Maria, mentre il primogenito Girolamo, avviato alla carriera ecclesiastica, proseguirà gli studi. Le tradizioni mercantili della famiglia vengono conservate e potenziate. Si sa che vengono gestiti, nel centro della città, botteghe di spezie, panni e merceria. Altre se ne acquisteranno. Nel corso del tempo, si affittano o si acquistano vasti poderi, si prendono in appalto opere edilizie e idrauliche, si commerciano grani con la Lombardia e la Romagna, s’importa filo di seta da Venezia e lo si lavora in patria; come banchieri si tengono corrispondenze con diverse piazze in Italia e fuori.

Nulla si conosce della giovinezza di Gasparo. Quanto alla sua formazione si deve stare alle sue parole, secondo le quali egli non ha mai studiato libri per essere stato «travagliato in altri negotij». Tuttavia, in una lettera al duca di Mantova del 10 giugno 1568, egli allude a sé come buon ‘contista’, esperto nel saggiare monete d’oro e d’argento, nella conduzione di zecche e banchiere su più piazze. Competenze che implicano, quanto meno, d’intendersi di metallurgia e di essere stati a scuola di ‘abaco’.

Oltre a condurre gli affari di famiglia, il fratello Gian Maria si assume responsabilità pubbliche. Nel 1542 è tra i sovrastanti della zecca comunale, nel 1545 è tesoriere del Comune, nel 1546 figura tra gli Anziani, ossia tra i consiglieri del Comune, e si reca in ambasceria a Ferrara per discutere con il duca della tassa sul sale e della moneta con la quale lo Stato estense si fa pagare tale cespite.

È di questo periodo, in particolare del 1544, la prima notizia di Gasparo adulto e operoso. Egli sta soggiornando a Piacenza e ha come recapito il banco di Agostino da Lodi. Tre anni dopo, nel 1547, succede al fratello negli impegni civici: gli viene affidato l’incarico di ‘saggiatore’ della zecca, mansione che assolverà sovente negli anni a venire. Nel 1550 gli Anziani gli affidano un importante compito. A Mantova e a Parma alcune monete in corso a Reggio sono tariffate a meno di altre equivalenti monete e occorre ottenerne la giusta valutazione. Le due missioni hanno successo. Nel 1552 egli si aggiudica, come conduttore, l’appalto della zecca cittadina. La breve esperienza lo convince dell’opportunità di fare della battitura delle monete un servizio pubblico, a carico dello Stato o del Comune. Nel frattempo tra 1550 e 1555, mentre la città cambia volto per la difesa dalle nuove e più potenti artiglierie in uso nell’arte della guerra, si sposa, lascia la casa natale e si divide dai fratelli con l’intento di dedicarsi soprattutto alla professione di banchiere. In anni durante i quali il nuovo principe, Alfonso II (1533-1597), chiude temporaneamente la zecca reggiana, Gasparo è richiamato a responsabilità pubbliche. Tra il 1560 e il 1563 è tra gli Anziani e nel 1564, come già era stato per il fratello, è tesoriere.

Nel 1563 si associa con lo scultore Prospero Sogari (detto il Clemente, 1516-1584) in vista della realizzazione di due gigantesche sculture in marmo da vendere poi alla municipalità reggiana. Quelle due statue, un Ercole e un Marco Emilio Lepido, che ora adornano l’ingresso dell’ex Palazzo Ducale di Modena, rimarranno invendute. Acquisitane infine la piena proprietà con il pagamento di 1200 scudi d’oro, Scaruffi, nel maggio del 1584, le trasferirà nel cortile della sua abitazione in Reggio, facendole incorniciare da un fondale ideato da Orazio Perucci.

L’attività di banchiere lo fa incorrere in un grave infortunio. Secondo il biografo Andrea Balletti, tra il 1557 e il 1566, egli investe denaro di depositanti con il patto di spartire con essi eventuali utili o perdite. Troppo esposto, nell’agosto del 1566, il suo banco va incontro a una crisi di liquidità. Scaruffi è costretto a sospendere i pagamenti. Con l’accusa di bancarotta viene arrestato e subisce l’onta del carcere nella città di Ferrara. La sollecita intermediazione del governatore, Alfonso Estense Tassoni, dei parenti e le garanzie rappresentate dalle proprietà consentono, tuttavia, in breve tempo, di dare soddisfazione ai depositanti e di riaprire i battenti.

Risale a due anni dopo (1568) una proposta che Scaruffi avanza al duca di Parma e i cui specifici contenuti restano a tutt’oggi ignoti. Egli prospetta a Ottavio Farnese un progetto di riforma monetaria grazie al quale il suo Stato avrebbe incrementato le entrate senza alcun aggravio per i sudditi. I particolari sarebbero stati svelati solo a fronte di un cospicuo compenso. Di fronte all’esito negativo della proposta, analogo progetto egli presenterà poi al duca di Mantova, Guglielmo Gonzaga, e successivamente ai reggenti della città di Cremona, con il medesimo, negativo risultato finale.

Di lì a poco, nel 1570, muore, senza avergli dato figli, la prima moglie, Antonia Taconi. Gasparo si risposerà due anni dopo con Lucrezia Malaguzzi, dalla quale avrà un figlio, Jeroteo (1575-1591). Alla morte prematura della seconda moglie, passa a terze nozze con Laura Erasmi dal Borgo dalla quale avrà Arsenio (n. 1577), morto in tenera età, e che lascerà in attesa dell’ultimo figlio, Gasparo (1585-1606). Gli ultimi anni di vita di Scaruffi sono particolarmente intensi. Oltre ai matrimoni, alle paternità e agli affari, assume di nuovo impegni per la comunità. Nel 1573, anno in cui Alfonso II toglie definitivamente a Reggio e a Modena il diritto di tenere aperte le loro zecche, avocando a sé il monopolio in materia, egli è inviato a Ferrara in ambasceria. Nel 1574 riceve l’incarico di saggiare le specie monetarie che, provenienti da fuori distretto, circolano in Reggio. Effettuerà nella capitale del ducato, altre due ambascerie su analoghe questioni, una nello stesso anno e l’altra nel 1580. Nel frattempo, nel 1575, era ritornato a far parte del Consiglio cittadino. Morirà il 20 settembre 1584, a pochi mesi dall’installazione delle due statue del Clemente e senza poter assistere alla nascita del suo ultimo figlio. Per tempo aveva predisposto un monumentale sepolcro nella vicina chiesa di San Francesco, impreziosito da pregevoli sculture dello stesso Clemente e da un grande dipinto di Lelio Orsi.

L’Alitinonfo

Scaruffi ricorda, nella dedica iniziale, che la sua opera è stata scritta, su sollecitazione di Alfonso Tassoni e di Alfonso II, nel corso di quattro anni. Sebbene sia stata conclusa nel maggio del 1579, essa viene pubblicata solo nel 1582. Il volume è immediatamente giudicato una delle più pregevoli edizioni del Cinquecento.

Il frontespizio, di elaborata simbologia, è ispirato alle raffigurazioni architettoniche di Perucci con incisione su rame di Giulio Taccoli. Entro una cornice adorna di mascheroni, aquile e bracieri con fiamme, lo spazio è suddiviso in due parti. La metà superiore contiene il titolo, L’Alitinonfo [vale a dire, dal greco, vero lume] di M. Gasparo Scaruffi regiano per fare ragione et concordanza d’oro, e d’argento; che servirà in universale; tanto per provedere à gli infiniti abusi del tosare et guastare monete; quanto per regolare ogni sorte di pagamenti, et ridurre anco tutto il mondo ad una sola moneta. Nella metà inferiore spicca invece la raffigurazione di due divinità pagane (Apollo, ossia la vita, e Diana, ossia la verità) al centro delle quali sta una Concordia con cornucopia, simbolo d’abbondanza. Ai loro piedi, al di sotto dei basamenti delle tre figure, contenenti ciascuno un’iscrizione, vi è l’indicazione dello stampatore: «In Reggio, per Hercoliano Bartoli. M.D.LXXXII». Intorno all’operazione della stampa e della diffusione del volume aleggia, senza esporsi, la figura del notaio Prospero Bisi. È lui che stabilisce i patti con lo stampatore. È probabilmente lui l’autore della Breve instruttione sopra il discorso fatto dal Mag. M. Gasparo Scaruffi per regolare le cose di danari, firmata Il Prospero, contestualmente stampata e posta in appendice ad alcuni esemplari dell’Alitinonfo. È lui, infine, che, celandosi dietro la firma del contista Bernardino Pratisuoli, conclude, nel 1587, le Considerazioni sopra l’Alitinonfo, poi stampate nel 1604.

Il contenuto dell’Alitinonfo corrisponde al titolo. È un manuale prevalentemente tecnico, arricchito da numerose, dettagliate tabelle e da disegni delle future monete. Esso descrive i criteri cui attenersi per realizzare un coerente sistema di monete di vario peso e titolo e di diverse specie metalliche. Un sistema tale che, una volta adottato in ogni singolo Stato, avrebbe avuto l’effetto di dare vita a un circuito unico, universale e durevole di monete. Grazie a esso, è convinzione dell’autore, non sarebbe più stato conveniente speculare sul valore e sulla composizione dei metalli preziosi monetati. Si sarebbero ottenuti pagamenti nel contempo certi e giusti, semplici da calcolare e da contabilizzare, anche a distanza di tempo o tra luoghi lontani. Tale risultato si sarebbe raggiunto imponendo, per legge, alcune regole. In primo luogo, adottare una sola unità di valore per fare i conti, ossia l’antica e diffusa lira imperiale, nella sua suddivisione o in 12 soldi o in 240 denari o anche, secondo quanto Scaruffi scrive, in 480 bagattini (1 lira = 12 soldi; 1 soldo = 20 denari; 1 denaro = 2 bagattini). In secondo luogo, impiegare una sola unità di peso, vale a dire, la libbra bolognese di 12 once, con l’oncia pari a 24 denari e il denaro pari a 24 grani. Fissare infine, tra oro, argento e rame, una ragione di scambio uguale alla proporzione esistente in natura tra le rispettive quantità. E in natura, secondo Scaruffi, per ogni oncia d’oro, se ne trovano 12 d’argento e 1440 di rame. Di conseguenza l’oncia d’oro, per legge naturale e divina, varrebbe 12 volte quella d’argento e 1440 volte quella di rame. Attribuendo all’oncia d’argento il valore di 6 lire imperiali, ritenuto normale al tempo di Scaruffi, il valore naturale e legale dell’oncia d’oro sarebbe diventato di 72 lire e quello dell’oncia di rame, di cinque centesimi di lire. Ciò equivale a dire che per un’oncia d’oro sarebbe stato naturale e giusto pagare 12 once d’argento, oppure 120 libbre di rame, oppure, ancora, 34.560 bagattini: ciascuno del peso di un denaro o di 24 grani bolognesi e del valore di conto, in lire imperiali, di mezzo denaro.

Nella pratica, i desiderati effetti della riforma, insieme a una radicale semplificazione per i contisti, si sarebbero ottenuti iscrivendo in ogni moneta di nuova battitura, a eccezione di quelle di rame, almeno tre numeri. Il primo, a indicarne il valore contabile, in imperiali; il secondo, la lega impiegata, ossia quanti denari d’oro per oncia, oppure quante once d’argento per libbra; il terzo, il numero di pezzi occorrenti per raggiungere una libbra di peso. Alle monete di rame Scaruffi ritiene che si debbano imprimere solo due note: la prima, dal doppio significato di valore e di peso, che indichi il numero di bagattini che valgono; la seconda, il numero delle unità necessarie per farne un’oncia. Superfluo, invece, apporre l’indicazione della purezza. Per le monete preziose già in circolazione egli suggerisce che, da parte di saggiatori esperti, si provveda a tassarle (valutarle in peso e purezza) in modo da poterle apprezzare alla ratta (in proporzione al metallo fino contenuto). Le monete di rame, di qualunque genere, andrebbero invece rifuse o valutate a peso.

A queste fondamentali regole Scaruffi ne affianca altre di particolare tutela per coloro ai quali venga sottratto il controllo diretto sulla monetazione. Due in particolare. In primo luogo, essendo a quel punto indifferente pagare in metallo fino o in moneta coniata, che sia concesso ai privati di detenere liberamente metalli preziosi in qualsiasi forma – grezza, lavorata o monetata – e con essi, a peso, di poter effettuare qualunque tipo di pagamento. In secondo luogo, venga impedito agli zecchieri, nel modo più assoluto, di comprendere nei valori nominali delle monete, le loro fatture e qualunque tipo di aggio. Vale a dire, qualunque costo di produzione o eventuale tassa si deve pagare a parte, e non ottenersi mediante un peggioramento delle leghe. Il suggerimento pratico è che il principe stipendi i suoi zecchieri con qualche condecente annua provvigione. Il principe è il suo interlocutore. La moneta universale di Scaruffi è più il previsto esito di una pratica che si deve diffondere gradualmente, da Stato a Stato, che non il frutto di una volontà centrale. I richiami a una virtuale zecca universale sono retorici, come nel Proemio, rari e generici. Il riferimento specifico a una dieta di principi, sotto l’autorità del papa e dell’imperatore, appare, in poche righe, nel capitolo XLV, come se si trattasse di una integrazione dell’ultimo momento.

L’impressione, condivisa dai più tardi commentatori, è che l’Alitinonfo, a motivo degli squilibri esistenti nella distribuzione dei suoi contenuti, a causa delle ripetizioni nonché della vistosa diversità fra lo stile con il quale è scritto rispetto a quello proprio, assai caratteristico, di Scaruffi, sia stato composto riunendo parti di memorie vergate in diverse, precedenti occasioni. Parti poi fuse insieme, con l’intervento di un ‘letterato’ che si ipotizza esser stato il giureconsulto reggiano Pier Giovanni Ancarani. Così come il tema della zecca universale non è sviluppato tanto quanto richiederebbe il suo rilievo, altrettanto poco lo è l’argomento delle monete di rame, inserito nel capitolo XXXIII. L’enfasi, nella gran parte dell’Alitinonfo, è, infatti, sull’oro, sull’argento e sul loro rapporto 1:12. Quasi tutti i successivi lettori di Scaruffi si soffermeranno sul suo mistico bimetallismo quando, in realtà, di trimetallismo si tratta. Introducendo nel sistema il bagattino, una moneta alla portata di tutti, reale e ancorata sia all’oro sia all’argento, si avrebbe una semplice, intuitiva, universale, costante e comoda unità sia di conto sia di peso, capace di sostituire a poco prezzo, negli scambi quotidiani, ogni altra moneta e di uniformare qualunque valore del presente, del futuro e del passato. In altre parole, di trasformare, ai fini pratici, di tutti i giorni, il rame in oro. Di tutto ciò Scaruffi non solo non parla esplicitamente ma non spiega neppure perché egli sostenga, contemporaneamente, una posizione che sembra contrastante: infatti, ripetutamente esorta, nell’Alitinonfo e nelle lettere, a fare riferimento, nei contratti o negli instromenti, solo al metallo fino prezioso nonché a pagare e farsi pagare preferibilmente in oro e argento, ancorché grezzi, o in vasellami.

La convivenza, entro un medesimo sistema monetario, di monete basse, di scarso valore intrinseco, e di monete alte è un problema spinoso che sarà ripreso e approfondito da Geminiano Montanari, circa un secolo dopo, ma che Scaruffi lascia in sospeso. Un tema implicitamente presente anche nella Lezione delle monete (1588) di Bernardo Davanzati, laddove egli considera come monete solo quelle d’oro e d’argento.

Della problematicità dell’argomento ben si avvede lo pseudo Pratisuoli, ossia il notaio Bisi, nelle sue Considerazioni. Egli nota infatti prestamente come nell’Alitinonfo il rame, sotto la forma dei bagattini, venga stabilmente agganciato all’oro e all’argento. Compiendo calcoli, egli si avvede anche che, nel progetto di Scaruffi, da un’oncia di rame si ottengono 24 bagattini del valore di un soldo. A Reggio, invece, e più in generale in Italia, nella stessa quantità di rame, del valore ugualmente di un soldo, sono tradizionalmente contenuti solo venti bagattini. Nel sistema di Scaruffi, in altri termini, a parità di rame vi è un numero di bagattini superiore del venti per cento rispetto all’uso corrente. Una circostanza che potrebbe creare equivoci.

In sostanza, nell’Alitinonfo è presente, secondo i calcoli contenuti nelle Considerazioni, un’alchimia monetaria non apertamente dichiarata. Un’alchimia che, come hanno sospettato nel tempo diversi interpreti, richiama i progetti avanzati da Scaruffi, nel 1568 e 1569, a Parma, Mantova e Cremona. Ciò non significa che l’autore delle Considerazioni prenda, in linea di principio, le distanze. Egli pare essere pienamente consapevole del fatto che un sistema come quello di Scaruffi, basato su una moneta che è anche merce, sia fuori dal controllo dell’autorità monetaria e, nel suo caso, del principe, di cui diffida. Concorda pienamente sul rapporto fisso 1:12, di cui trova conferma, oltre che in una tradizione lunga centinaia di anni, anche nella Summa (1494) di Luca Pacioli. Non accetta però che si tocchi l’intrinseco delle monete di rame. Desidera anche più garanzie. Suggerisce di istituire in città un Paviglione delle monete, sostenuto in parte dalla comunità, che assolva al servizio pubblico di verificare il valore delle monete. È anche un convinto, insistente e dettagliato sostenitore della dieta di principi che, sotto l’autorità del papa e dell’imperatore, convenga di uniformarsi alle regole necessarie per la creazione di una moneta universale.

In poche parole, intorno e all’interno dell’Alitinonfo, a complicarne la lettura, si muovono forze non del tutto congruenti: l’autore stesso, un’aristocrazia degli affari non solo locale, il Comune e il principe. È però indiscutibile che sia un’opera che porta alla luce e legittima, da un lato, l’impiego di una logica economica che aspira al rigore, dall’altro, la forma del dibattito razionale e scientifico nell’affrontare una questione d’interesse pubblico. Già vi sono adombrati principi e metodi che saranno approfonditi lungo i secoli successivi: la centralità della misurazione, l’uso dell’aritmetica e dell’osservazione come strumento euristico, il concetto di homo oeconomicus, quello di utilità e rarità, l’idea di una legge economica distinta e insensibile rispetto a quella civile, di una legge civile (la tariffa monetaria) che può incidere sulla distribuzione della ricchezza, quella di valore come rapporto tra grandezze e non come sostanza, quella, infine, di un sistema mondiale e interdipendente di merci e monete tendenzialmente in un equilibrio.

Come si evince dalle lettere di Scaruffi, risulta poi evidente come egli sia ben consapevole che, nei fatti, si producono, con effetti reali, alterazioni nominali dei valori e che, ristabilendo un nuovo equilibrio, si possono trarre vantaggi economici e sociali. In particolare, egli nota come il metallo fino delle monete di città in particolari condizioni sia, quasi sistematicamente, valutato meno rispetto a quello di altre città. Si avvede altresì che i percettori di redditi fissi, ossia gli Stati, i proprietari terrieri e i salariati, sono danneggiati dal progressivo incremento del prezzo delle merci e che, inoltre, differenti circuiti di merci e monete registrano una diversa dinamica dei prezzi. Concetti e constatazioni destinate a divenire patrimonio stabile della disciplina.

Quanto alla fissità del rapporto 1:12 tra oro e argento, occorre notare, da un lato, che essa esprime l’esigenza universale, sentita anche nella scienza economica, di disporre di un metro di paragone ideale sul quale raffrontare i fenomeni reali, dall’altro, che Scaruffi si è formato intellettualmente in un ambiente nel quale la magia e l’astrologia non si sono ancora separate dalla scienza.

Tra i pochi autori che egli cita, ossia Platone, Cassiodoro e Aristotele, vi è anche Giovanni Agostino Panteo, già autore di una Ars transmutationis metallicae (1518), del quale nomina, ben conoscendola, un’opera su alchimia e metallurgia intitolata Voarchadumia (1530). Peraltro, tra le carte del notaio Prospero Bisi è conservato un inventario di libri eloquente sulle letture che nell’ambiente di Scaruffi si vanno facendo. Oltre a opere di contenuto religioso, vi figurano classici latini, scrittori italiani contemporanei, testi di viaggi, di storia e di geografia, trattati antichi e moderni di agricoltura, numerosi testi di abaco e, per finire, libri di quelle che erano allora le scienze naturali: trattati di alchimia, astrologia e metallurgia, tra i quali la tutt’altro che fantasiosa Pirotechnia dei metalli (1540) di Vannoccio Biringuccio.

Bibliografia

A. Balletti, Gasparo Scaruffi e la questione monetaria nel secolo XVI, Modena 1882.

A. Nussbaum, A note on the idea of world money, «Political science quarterly», 1949, 3, pp. 420-27.

M.A. Romani, Una alchimia monetaria alla metà del Cinquecento, «Economia e storia», 1976, 1, pp. 5-26.

Gasparo Scaruffi. La vita e l’opera, Atti del Convegno di studi, Reggio Emilia (14 novembre 1984), a cura del Rotary Club, Reggio Emilia 1986 (con segnalazioni archivistiche nei due saggi di M.A. Romani e G. Badini, rispettiv. pp. 57-69 e pp. 97-102).

A. Santini, L’unione monetaria nel Rinascimento. L’“Alitinonfo” di Gasparo Scaruffi per il duca d’Este, Ferrara 1999.

G. Giannantonj, Il “Vero lume” di Gasparo Scaruffi e la ricerca della moneta universale (secoli XVI-XVIII), Bologna 2000.

M. Bianchini, Gasparo Scaruffi. Una famiglia, una città, un visionario progetto, in Palazzo Scaruffi. Storia, arte, restauri, a cura di A. Mazza, E. Monducci, M. Zamboni, Parma 2010, pp. 9-35 (nel volume si vedano anche i saggi di A. Cadoppi, pp. 75-109 e 177-215, e A. Mazza, pp. 111-43 e 145-75, nonché le appendici documentarie curate da E. Monducci, A. Cadoppi, C. Caselli).

Si veda inoltre: ASE (Archivio Storico degli Economisti), Biografia di Gasparo Scaruffi, a cura di M. Mosca, http://ase.signum.sns.it/scaruffi.html (19 aprile 2012).

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