Gene

Enciclopedia del Novecento (1978)

Gene

GGuido Pontecorvo

di Guido Pontecorvo

Gene

Sommario: 1. Cenni storici. 2. 1900-1915: i geni come perle di una collana.  3. 1940-1955: le unità elementari della genetica. 4. Il gene oggi. □ Bibliografia.

1. Cenni storici

Il gene, o più precisamente il materiale genetico, è il simbolo della biologia del XX secolo, così come la teoria dell'evoluzione per selezione naturale lo è stata per la biologia del secolo precedente. Il fatto che l'evoluzione sia considerata oggi implicita nella natura del materiale genetico dà la misura del progresso che si è realizzato.

L'ipotesi dell'esistenza di un materiale genetico con proprietà diverse da quelle di tutti gli altri componenti cellulari cominciò a prendere piede intorno al 1920, ma la certezza si ebbe soltanto con gli esperimenti di incrocio condotti su animali e su piante superiori. Fin dal 1865 Mendel aveva gettato le basi di questo tipo di ricerche, ma esse non vennero comprese e non furono utilizzate fino a dopo il 1900 (v. genetica). Fu H. J. Muller che intuì le due proprietà peculiari del materiale genetico definendole con una chiarezza non più superata. La prima e più fondamentale proprietà è che il materiale genetico è ‟capace di provocare la riproduzione della sua specifica struttura, ma [...] può tuttavia cambiare ripetutamente - ‛mutare' - e conservare ancora la proprietà di riprodurre se stesso nelle sue diverse e nuove forme [...]. Qualora si abbia un qualsiasi materiale o insieme di materiali con questa poco comune caratteristica, l'evoluzione ne deriverà automaticamente". La seconda proprietà è che il materiale genetico ‟gioca un ruolo nel determinare la natura di tutte le sostanze, strutture e attività cellulari. Attraverso questi effetti a livello cellulare, i geni influenzano l'intero organismo" (v. Muller, 1922, p. 34).

Verso il 1950 si cominciò a pensare con un certo grado di sicurezza che la struttura del materiale genetico doveva essere quella di un polimero lineare aperiodico. Il fatto che il materiale genetico produca i suoi effetti soprattutto determinando la struttura e la velocità della sintesi di singole proteine costituì il logico sviluppo di una vecchia idea di A. E. Garrod (v., 1908) generalizzata da G.W. Beadle (v., 1945) con l'aforisma ‟un gene - un enzima". L. Pauling e altri (v., 1949) dimostrarono che nell'uomo il gene mutante che determina l'anemia falciforme provoca la sintesi di un'emoglobina elettroforeticamente anomala, e W. M. Ingram (v., 1956) stabilì che questo cambiamento è la conseguenza di una singola sostituzione amminoacidica.

Fino al 1953 l'esistenza, la struttura, la replicazione, la mutazione e il modo d'azione del materiale genetico erano basati solo su prove indirette e deduttive. Fra il 1940 e il 1953 tre scoperte fondamentali trasformarono l'ipotesi di ciò che il materiale genetico doveva essere nella certezza di ciò che esso effettivamente era. Due di queste scoperte scaturirono dall'introduzione dei microrganismi come materiale di ricerca in genetica. Esse furono la dimostrazione data da O. T. Avery e altri (v., 1944) che il ‛principio trasformante' che provoca il cambiamento ereditario di un antigene di un ceppo di Pneumococcus in quello del ceppo donatore è l'acido desossiribonucleico (DNA), e la dimostrazione data da A. D. Hershey e M. Chase (v., 1952) che in un virus batterico è il DNA, e non la proteina, che inizia la moltiplicazione virale all'interno della cellula ospite. Così a partire dal 1952 si ebbero validi motivi per ritenere che almeno nei Batteri e nei batteriofagi il materiale genetico dovesse essere costituito da DNA. Questa idea non avrebbe trovato molto credito dieci anni prima; si sapeva già da molto tempo che negli animali superiori e nelle piante il DNA era, assieme alle proteine, un componente dei cromosomi, e fin dall'inizio la citologia e la genetica avevano stabilito che la maggior parte dei geni erano localizzati sui cromosomi, ma negli anni trenta e quaranta si pensava che a causa della loro notevole specificità i probabili depositari del materiale genetico fossero le proteine.

La terza più significativa acquisizione venne dalla pubblicazione di due lavori di J. D. Watson e F. H. C. Crick (v. i contributi del 1953) i quali proposero per il DNA una struttura a due filamenti complementari che comportava implicazioni biologiche di grande portata. Questo modello strutturale ha dato un senso ovvio e immediato alle due caratteristiche uniche ed essenziali del materiale genetico che erano state comprese da Muller trentun anni prima e, inoltre, ha aperto all'indagine biochimica lo studio della replicazione e della mutazione del gene e di come questo codifica le proteine, influenzando così tutte le proprietà della cellula e, alla fine, dell'organismo.

Nel volgere di tre anni S. Benzer (v., 1955), ampliando enormemente il lavoro condotto da altri su Drosophila e su Aspergillus, riuscì, con le tecniche di ricombinazione, a completare l'analisi di un segmento comprendente due geni del materiale genetico del batteriofago. Il lavoro di Benzer ha fornito la conferma definitiva dell'idea precedente che un gene è composto da una sequenza di unità di mutazione separabili per ricombinazione, e ha portato all'inevitabile conclusione che queste unità sono costituite da coppie di nucleotidi del DNA. Quindi una sequenza di qualche centinaio ditali coppie di nucleotidi costituisce la più piccola unità funzionale del materiale genetico, il gene, ribattezzato come ‛cistrone' da Benzer. Da ciò deriva che la funzione della sequenza dei nucleotidi di un cistrone è di determinare in maniera ‛colineare' la sequenza degli amminoacidi di una catena polipeptidica: la generalizzazione di Beadle ‟un gene - un enzima" può essere sostituita in maniera più precisa da: ‟un cistrone - una catena polipeptidica".

Ma l'esistenza di una relazione strutturale fra la sequenza dei nucleotidi di un gene e la sequenza in amminoacidi di un polipeptide non basta a svelarci come quest'ultima venga messa assieme e determinata a partire dalla prima. Le ricerche per comprendere quale sia il meccanismo determinante, cioè quali siano le modalità della sintesi proteica, sono state portate a termine soprattutto fra il 1958 e la fine degli anni sessanta. Le linee direttrici di queste indagini sono state delineate molto chiaramente da Crick (v., 1958), e il grandioso lavoro sperimentale degli anni sessanta ha confermato in tutte le sue linee essenziali l'ipotesi di questo autore. A tali studi la genetica ha contribuito principalmente con le idee e la biochimica essenzialmente con la tecnica: da allora le due discipline sono rimaste strettamente interconnesse.

La comprensione in termini chimici della funzione del materiale genetico nella sintesi proteica ha richiesto l'uso congiunto di una massa di dati diversi, offerti dalla cristallografia strutturale, dalla teoria dell'informazione, dalla enzimologia, ecc.; base di tutto sono state le conoscenze genetiche già allora disponibili: infatti la tappa più importante in questa ricerca - quella che ha stabilito che tre nucleotidi codificano un amminoacido - è stata realizzata esclusivamente in base all'analisi genetica.

La risoluzione del codice genetico, cioè delle modalità con cui una sequenza di quattro tipi diversi di nucleotidi determina una sequenza di venti tipi diversi di amminoacidi, costituisce l'elegante risultato di un insieme di ricerche teoriche e sperimentali che hanno costituito in biologia qualcosa di eccezionale. Si è visto che la sequenza dei nucleotidi di un filamento del DNA di un gene viene ‛trascritta' nella sequenza complementare di nucleotidi dell'acido ribonucleico (RNA). Il risultato della trascrizione - che è stato chiamato RNA messaggero - viene quindi ‛tradotto' (a una tripletta di nucleotidi corrisponde un amminoacido) nella sequenza di amminoacidi della catena polipeptidica. Un punto importante è che per la traduzione (e probabilmente per la trascrizione) la catena polinucleotidica porta brevi sequenze specifiche che servono come segnali di inizio e di fine. In tal modo, seguendo l'ordine delle triplette, la traduzione continua fino a che non venga turbata o per motivi strutturali o per altre cause; non sono perciò necessari appositi accorgimenti per separare fra loro le triplette.

La dimostrazione finale della colinearità fra la sequenza dei nucleotidi del DNA di un gene e la sequenza in amminoacidi della catena polipeptidica codificata da quel gene fu raggiunta nel 1964, in base a lavori condotti sia sui Batteri sia sui batteriofagi (v. Yanofsky e altri, 1964; v. Sarabhai e altri, 1964).

Dal 1960 a oggi le maggiori acquisizioni di ciò che adesso chiamiamo genetica molecolare sono state: a) l'analisi da parte di F. Jacob e J. Monod (v., 1961) di un sistema che regola in maniera specifica la trascrizione nei Batteri; b) la dimostrazione che il codice genetico è universale, cioè che le stesse triplette (codoni) determinano lo stesso amminoacido dai Batteri fino ai Mammiferi, e che è degenerato, cioè che la maggior parte degli amminoacidi sono determinati da più di un codone; c) la trascrizione enzimatica e la replicazione in vitro di sequenze di DNA; d) la traduzione enzimatica di sequenze di RNA in vitro; e) la sintesi chimica di determinate sequenze di DNA, compresa quella di un piccolo gene; f) l'isolamento in forma pura, da un batterio, del DNA che costituisce un piccolo aggregato di geni (un ‛operone').

Il termine ‛gene' è stato coniato nel 1909 dal genetista danese W. Johannsen al posto del termine post-mendeliano ‛fattore unitario'. Dall'astratto gene del 1909 all'isolamento, avvenuto nel 1970, di geni in forma pura le tappe fondamentali non sono state molte e saranno riassunte nei successivi capitoli.

2. 1900-1915: i geni come perle di una collana

L'idea che i geni fossero disposti come le perle di una collana si affermò solidamente intorno al 1915, quando Th.H. Morgan e i suoi collaboratori pubblicarono il libro ormai classico The mechanism of Mendelian heredity.

Mendel aveva dimostrato che l'eredità è un processo indiretto: i caratteri della progenie non derivano direttamente da quelli dei genitori, ma indirettamente dalla trasmissione di un assetto di determinanti particolati, ognuno dei quali viene trasportato da ciascun gamete in singola copia ed è perciò presente in duplicato nell'uovo fecondato. Le due copie di ogni determinante (‛alleli') possono essere identiche o diverse. Durante la gametogenesi avviene la ‛segregazione' delle due copie di ogni determinante e la ‛ricombinazione' fra quelle di determinanti differenti (v. genetica: Citogenetica).

Oltre a stabilire la natura particolata e indiretta dell'eredità, Mendel diede altri due contributi fondamentali, dimostrando che i determinanti che si uniscono al momento della fecondazione e di nuovo si separano alla gametogenesi emergono immutati da questo processo e, in un certo numero di casi, ricombinati, e che, a parte qualche eccezione, gli incroci reciproci portano allo stesso risultato, sebbene i gameti maschili e femminili differiscano notevolmente per dimensioni. Quest'ultimo contributo è stato di aiuto nel focalizzare l'attenzione dei successivi ricercatori sul nucleo come possibile depositario dell'eredità.

Le ricerche e le idee di alcuni pionieri - T. Boveri, W. S. Sutton, W. Bateson, R. C. Punnet, E. B. Wilson e Th. H. Morgan - permisero infine di formulare in termini precisi la teoria che i cromosomi contenuti nel nucleo sono i vettori dei determinanti ereditari: questi, a partire dal 1909, furono chiamati geni. Poiché già allora si sapeva che in una specie esistono molti più geni che coppie di cromosomi, i principali problemi che i ricercatori si trovavano ad affrontare in quegli anni erano: i geni sono veramente localizzati nei cromosomi? E se sì, come sono distribuiti fra i cromosomi e quale disposizione hanno nel singolo cromosoma?

La risposta a questi tre quesiti scaturì fondamentalmente dalle ricerche sul moscerino dell'aceto, Drosophila melanogaster, condotte da Morgan e dai suoi allievi, A. H. Sturtevant, H. J. Muller e C. B. Bridges, presso la Columbia University.

In merito al primo problema, questi ricercatori dimostrarono definitivamente non solo che i geni si distribuiscono in gruppi di associazione corrispondenti ‛per numero' al numero di coppie di cromosomi della specie e ‛per dimensioni' alle dimensioni relative dei cromosomi, ma anche che le rare anomalie nella distribuzione dei cromosomi sessuali possono essere riferite ad anomalie nella distribuzione di geni legati al sesso.

Le risposte agli altri due quesiti possono essere riassunte paragonando un cromosoma a una collana di perle, alle quali corrispondono i geni, ciascuno dei quali occupa una posizione precisa e può essere scambiato tra cromosomi omologhi, così come quando avviene la rottura accidentale del filo fra due perle seguita dal riallacciamento delle estremità rotte, con un processo chiamato crossing-over. Una valida prova a favore di questi concetti è stata fornita dalle conoscenze der comportamento dei cromosomi omologhi, che effettivamente si scambiano dei segmenti, nel corso della meiosi.

La frequenza degli scambi, che in prima approssimazione sono distribuiti uniformemente per tutta la lunghezza dei cromosomi, ha permesso di valutare la distanza tra due geni della stessa coppia di cromosomi. Il fatto che le distanze fra tre o più geni fossero approssimativamente additive ha convalidato l'ipotesi di una disposizione unidimensionale o lineare. Sulla base di questi dati A. H. Sturtevant (v., 1913) fu in grado di pubblicare la prima mappa di un cromosoma e cioè quella di sei geni legati al sesso in Drosophila.

Questo quadro, risultato dal lavoro della scuola di Morgan, spiegava tutte le caratteristiche note dei geni. Le tre proprietà in base alle quali poteva essere identificato un gene - la specificità degli effetti sui caratteri degli individui, la ricombinazione con geni differenti e la mutazione indipendente portavano a identificare una e una sola struttura. Si cominciò a considerare il gene come un'unità di funzione, di ricombinazione e di mutazione, con una posizione ben precisa lungo l'asse del cromosoma. Ci vollero 25 anni per rendersi conto che queste tre proprietà non dovevano essere necessariamente coestensive: fu ancora una volta merito di Muller (v. Raffel e Muller, 1940) se si accelerò il processo di revisione di questo concetto.

3. 1940-1955: le unità elementari della genetica

Con il passare degli anni si vennero raccogliendo dati, soprattutto di due tipi, che indussero a dubitare dello schema della collana di perle. In primo luogo la dimostrazione data da Sturtevant (v., 1925) in Drosophila di un ‛effetto di posizione', più tardi analizzato citologicamente da Muller e altri (v., 1936) e da Bridges (v., 1936); successivamente la scoperta della ricombinazione fra gli alleli di uno stesso gene. Oliver (v., 1940), Lewis (v., 1941) e M. M. Green e K. C. Green (v., 1949) in Drosophila, McClintock (v., 1944) nel mais e Roper (v., 1950) in Aspergillus, avevano infatti riscontrato esempi di ricombinazione fra mutanti allelici che inizialmente interpretarono con un'ipotesi ad hoc ancora basata sul modello della collana. In quel periodo venne proposta (v. Pontecorvo, 1952) un'interpretazione che rifiutava questo schema e ne prospettava un altro, poi confermato dagli sviluppi della genetica molecolare.

L'effetto di posizione di Sturtevant consisteva nel seguente fenomeno: talvolta si trova un piccolo segmento del cromosoma X di Drosophila duplicato o triplicato e i due o tre segmenti sono disposti in maniera sequenziale. Le femmine che hanno un cromosoma X con il segmento duplicato mentre l'altro è singolo hanno una forma degli occhi anormale; le femmine con la duplicazione in tutti e due i cromosomi X hanno un'anormalità più pronunciata; e infine quelle che portano il segmento triplicato in uno dei due cromosomi X e singolo nell'altro sono ancora più anormali di quelle che ne hanno due per parte. Gli ultimi due tipi hanno sempre quattro copie del segmento in questione, ma distribuite in maniera differente: evidentemente la disposizione degli elementi del materiale genetico ha un effetto sulle attività dei geni.

È difficile conciliare questi fatti con l'ipotesi della collana di perle senza formulare delle ipotesi addizionali: o i geni vicini si influenzano l'un l'altro o i prodotti primari dell'attività genica interagiscono sul posto. Nei dieci anni che hanno seguito la scoperta di Sturtevant si sono trovati parecchi altri esempi di effetti di posizione in diversi organismi.

L'altro valido motivo che rese necessaria una revisione della teoria della collana di perle fu la scoperta della ricombinazione fra alleli. Adesso comprendiamo che il significato di questa scoperta è che il gene è costituito da una sequenza di elementi, i nucleotidi del DNA, tra i quali avviene la ricombinazione.

Per esporre questo argomento è necessaria una terminologia precisa. Se g+ indica l'allele normale di un gene, g-1 è un allele mutante recessivo rispetto a g+ (cioè gli individui di genotipo g+/g-1 sono indistinguibili, per il carattere che interessa, dagli individui g+/g+) e g-2 è il simbolo di un terzo allele, anch'esso recessivo rispetto a g+, gli individui con genotipo g-1/g-2 avranno di norma fenotipo mutato, cioè simile a quello degli individui g-1/g-1 o g-2/g-2, o loro intermedi. Secondo il modello classico gli individui di genotipo g-1/g-2 dovrebbero produrre esclusivamente gameti g-1 o g-2 in proporzioni circa eguali: non dovrebbe mai nascere alcun gamete g+, fatta eccezione per rare mutazioni. In effetti in tutti i casi che abbiamo ricordato prima, pubblicati fra il 1940 e il 1952 e in molti altri resi noti più tardi, gli individui di genotipo g-1/g-2 producevano con bassa frequenza (minore di 10-3) qualche gamete g+, ma la maggior parte di questi non può essere spiegata sulla base di mutazioni. Inoltre si trovò, almeno in Drosophila e Aspergillus, che quando erano presenti esternamente al locus g, ma vicini a questo, dei marcatori allo stato eterozigote, i gameti g+ non soltanto erano ricombinanti nella loro maggioranza rispetto ai marcatori esterni, ma erano ricombinanti di una delle due classi possibili. Incroci con più di due alleli hanno permesso di localizzare gli alleli stessi in una sequenza lineare.

Le ipotesi ad hoc elaborate per far rientrare ognuno di questi primi casi scoperti nel modello a collana di perle diventarono sempre meno convincenti. Già molto tempo prima Muller (v. Raffel e Muller, 1940) aveva chiarito che la coestensività delle tre proprietà dei geni - funzione, mutazione e ricombinazione - non era nè teoricamente necessaria, nè indispensabile in base ai dati sperimentali. I tempi erano maturi per cercare di spiegare queste tre proprietà. Il modello proposto era il seguente (v. Pontecorvo, 1952): il gene, inteso come unità di attività fisiologica, è costituito da un segmento di cromosoma di lunghezza considerevole, cioè di circa 1.000 Å. Le diverse parti di questo segmento hanno un'attività coordinata e i cambiamenti in una qualsiasi di esse o nella loro posizione reciproca possono costituire una mutazione: cioè il gene cambiato agisce al momento della replicazione come un nuovo stampo e possiede un'attività diversa, normalmente più ridotta. La ricombinazione può avvenire fra i diversi siti mutabili e le unità di mutazione e di ricombinazione finali - che non è detto coincidano - possono essere di uno o due ordini di grandezza più brevi del segmento cromosomico che costituisce la base per l'unità di azione fisiologica.

Da questa concezione derivava che una caratteristica generale dei geni doveva essere la ricombinazione fra alleli di diversa origine. In tutti i casi studiati fino al 1952 la ricombinazione fra alleli era stata notata solo casualmente; anzi, nella grandissima maggioranza degli esperimenti di genetica che erano stati fatti essa non era stata affatto osservata. Il nuovo modello suggeriva che la ricombinazione fra alleli può avvenire con frequenze che richiedono un potere di risoluzione molto maggiore di quello comunemente utilizzato: era necessaria cioè la classificazione di decine di migliaia di prodotti della meiosi. Questa ipotesi venne immediatamente confermata saggiando su scala adeguata il classico locus w della drosofila dove erano disponibili molti alleli e dove precedentemente non si era osservata alcuna ricombinazione (v. MacKendrick e Pontecorvo, 1952).

Un'ulteriore conseguenza del nuovo schema è ciò che è stato chiamato, per analogia con la chimica, l'effetto cis/trans. Se adattiamo i simboli di cui abbiamo fatto uso prima al nuovo modello, un individuo eterozigote con la disposizione trans,

++++g2-+

————

+g1-++++

è un mutante. Invece un eterozigote con la disposizione cis,

++++++

————

+g1-++g2-+

dovrebbe essere, nella maggior parte dei casi, normale. I due eterozigoti differiscono soltanto nella distribuzione dei due siti mutanti fra i due cromosomi omologhi, ma l'eterozigote trans ha tutte e due le copie del gene g difettive mentre l'eterozigote cis ha soltanto una copia che è difettiva due volte, mentre l'altra è normale. Ancora una volta questa previsione è stata verificata in base al fatto che, per ricombinazione, si sono ottenuti gameti doppiamente difettivi g1-g 2-, e sulla scorta della dimostrazione che questa era la loro reale costituzione.

La differenza fra le disposizioni cis e trans identifica l'unità di funzione genetica. Differenze di questo tipo non sono mai state osservate, né quando i due mutanti recessivi sono localizzati su differenti coppie cromosomiche, né quando sono su di una stessa coppia cromosomica, ma molto lontani fra loro e neppure quando sono abbastanza vicini l'uno all'altro, ma influenzano caratteri nettamente diversi.

Le nostre conoscenze sulle unità genetiche erano a questo punto, quando Benzer (v., 1955) pubblicò il suo eccezionale lavoro su due geni contigui, i geni RIIA e RIIB nel batteriofago T4, ricerca che nei sei anni successivi ha poi notevolmente ampliato. Localizzando non meno di 2.400 mutanti in questi geni, riuscì a dimostrare che ciascun gene era composto da qualche centinaio di siti mutabili, scambiabili per ricombinazione e disposti linearmente. Oltre a ciò questo autore constatò che i segmenti A e B possedevano funzioni distinte poiché i fenotipi mutanti si formavano soltanto nelle combinazioni trans fra coppie di mutanti differenti compresi entrambi nell'uno o nell'altro segmento, ma non nelle combinazioni trans con un mutante in ciascun segmento. In base a ciò concluse che ogni segmento con limiti definiti costituiva un' unità di funzione e per questa ragione sostituì il termine gene con quello di ‛cistrone'. Suggerì anche, e la sua ipotesi è stata da allora verificata in numerosi altri sistemi, che la funzione dei cistroni A e B è quella di specificare le sequenze di amminoacidi di due catene polipeptidiche. Benzer stabilì una volta per tutte il fatto che il gene (cistrone) è un'unità di funzione costituita da una sequenza definita di siti mutabili e ricombinabili che considerò essere singole coppie di nucleotidi, o piccoli gruppi di coppie nucleotidiche, del DNA. Il lavoro di Benzer - che nel clima scientifico successivo al 1953 fu immediatamente compreso e accettato - costituì per la genetica una tappa di importanza pari alla dimostrazione, data quarant'anni prima, della disposizione lineare dei geni lungo i cromosomi.

4. Il gene oggi

Attualmente si ritiene che il materiale genetico di un cromosoma sia costituito da una sequenza di coppie nucleotidiche continua per tutta la lunghezza del cromosoma, ma suddivisa in segmenti aventi funzioni differenti. Fino a questo momento è chiaro che queste funzioni sono di almeno tre tipi: 1) trascrizione nell'mRNA, che a sua volta codifica le catene polipeptidiche di tutte le proteine nella cellula; 2) trascrizione nel grande apparato che presiede alle sintesi proteiche della cellula: RNA ribosomali, RNA transfer, ecc.; 3) ricezione di segnali - probabilmente costituiti da macromolecole - relativi alla a) replicazione; b) trascrizione; c) ricombinazione (intendendo come tale anche l'incorporazione di materiale genetico estraneo) e riparazione di danni di vario tipo; d) al movimento dei cromosomi nel processo di divisione cellulare. Un'ulteriore funzione, puramente ipotetica, di sequenze specifiche di DNA potrebbe essere quella di accettori di segnali che modificano la sequenza e tale variazione sarebbe una tappa del differenziamento. Dal 1955 sono stati fatti progressi considerevoli riguardo alle prime due funzioni, mentre più modeste sono state le nuove acquisizioni per quanto riguarda la terza.

Nella genetica classica (prima del 1953) un gene poteva essere sceverato soltanto se gli individui di una specie differivano per un particolare carattere e si poteva dimostrare che questa differenza segregava e ricombinava negli eterozigoti durante la gametogenesi. Adesso questa limitazione non esiste più. La sintesi di una proteina, anche se non è noto che questa possa variare fra i diversi individui, implica immediatamente l'esistenza di tanti geni specifici quante sono le differenti catene polipeptidiche nella proteina in questione. La relazione ‟una catena polipeptidica - un gene", che è l'opposto della frase che era familiare dieci anni or sono, ci ha aperto una visione completamente nuova: in un certo senso abbiamo superato il gene.

Non ci può essere conclusione migliore per questa rassegna sintetica delle nostre conoscenze sul materiale genetico delle parole di commiato di Muller (v., 1966, p. 516): ‟[...] la vita così come la conosciamo, liberata da tutte le sue sovrastrutture, sta tutta nelle tre caratteristiche proprie del materiale genetico". (V. anche biologia e biologia molecolare).

bibliografia

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