Genocidio [dir. int.]

Diritto on line (2019)

Andrea Caligiuri

Abstract

La parola ‘genocidio’ fu concepita da R. Lemkin per descrivere i crimini commessi dai nazisti contro gli Ebrei durante la seconda guerra mondiale. In base al diritto internazionale, il genocidio è un ‘crimine internazionale’. La Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 ha qualificato questo crimine come atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.

La Convenzione del 1948 si contraddistingue, in particolare, per offrire un quadro giuridico teso a fare valere non solo la responsabilità penale individuale, ma anche la responsabilità dello Stato per la commissione di un genocidio o per omessa prevenzione e punizione del crimine. La norma che pone il divieto di genocidio è riconosciuta anche come norma cogente dell’ordinamento internazionale.

La codificazione del crimine di genocidio

La parola ‘genocidio’ fu concepita da R. Lemkin (Lemkin, R., Axis Rule in Occupied Europe: Analysis, Proposals for Redress, Washington, 1944) per descrivere «a coordinated plan of different actions aiming at the destruction of essential foundations of the life of national groups, with the aim of annihilating the groups themselves». Essa ha trovato il suo primo impiego nell’atto di accusa indirizzato ai criminali nazisti tradotti in giudizio davanti al Tribunale militare internazionale di Norimberga con il solo fine di descrivere nel loro complesso gli atti criminali perpetrati contro gli Ebrei durante il secondo conflitto mondiale, in quanto lo Statuto di Londra istitutivo del Tribunale non annoverava il genocidio tra i crimini perseguibili (cfr., Procès des grands criminels de guerre devant le Tribunal militaire international (Nuremberg, 14 novembre 1945-1er octobre 1946), vol. I, Nuremberg, 1947, 46).

Solo con l’adozione unanime da parte dell’Assemblea generale dell’ONU della risoluzione 96(I) dell’11.12.1946, la comunità internazionale manifestò la chiara intenzione di reprimere il genocidio in quanto ‘crimine in base al diritto internazionale’ e il divieto di commettere genocidio venne tradotto in norme di diritto positivo con l’adozione, da parte della stessa Assemblea generale (risoluzione 260A(III) del 9.12.1948), della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, entrata in vigore il 12.1.1951 (ratificata dall’Italia con l. 11.3.1952, n. 153).

L’art. I della Convenzione afferma che «il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine in base al diritto internazionale». Il successivo art. II fornisce la definizione della fattispecie: «per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro». L’art. III dichiara punibili, oltre al genocidio, anche l’intesa mirante a commettere genocidio, l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio, il tentativo di genocidio e la complicità nel genocidio.

La definizione di genocidio sancita nella Convenzione è stata riprodotta in modo identico nell’art. 4 dello Statuto del Tribunale penale internazionale per l’ex Yugoslavia (TPIY), nell’art. 2 dello Statuto del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (TPIR), nell’art. 6 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale (CPI) e nell’art. 28 B dello Statuto (emendato) della Corte africana di giustizia e dei diritti umani. Tuttavia, nel tempo, non sono mancati tentativi di ampliare la definizione di genocidio, ad esempio, introducendo il concetto di genocidio culturale in quanto «violation of international law equivalent to genocide» (Declaration of San Jose on Ethno-Development and Ethnocide in Latin America, UNESCO Doc. FS82/WF.32 (1982), 11.12.1981), qualificando la pulizia etnica come «a form of genocide» (UN Doc. A/RES41/121, 18.12,1992, § 9 del preambolo) o lo stupro e le altre forme di violenza sessuale come «a constitutive act with respect to genocide» (UN Doc. S/RES/1820 (2008), 19.6.2006, § 4).

Il divieto di commettere genocidio, sebbene sia nato come norma convenzionale, trova un equivalente nel diritto internazionale consuetudinario (Corte internazionale di giustizia, Caso relativo alle riserve alla Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio, parere consultivo del 28.5.1951, in ICJ Reports, 1951, 23). La norma consuetudinaria si distingue per il suo carattere erga omnes (Id., Affare Barcelona Traction, Light and Power Co. (II fase), sentenza del 5.2.1970, § 34) e per la sua natura cogente (Id., Attività armate nel territorio del Congo: nuovo ricorso 2002 (Rep. Dem. del Congo c. Ruanda), sentenza del 3.2.2006, § 64).

Il bene giuridico protetto dalla norma sul genocidio

La norma che pone divieto di commettere genocidio ha il fine specifico di offrire una protezione dalla distruzione, totale o parziale, a quattro categorie di gruppi, i gruppi nazionali, etnici, razziali e religiosi.

Dai lavori preparatori della Convenzione del 1948 emerge che le quattro categorie di gruppi protetti furono individuate in quanto si ritenne di dovere tutelare solo quei gruppi che mostravano un alto grado di stabilità, essendo l’appartenenza ad essi definita generalmente sulla base della nascita. Pertanto, vennero esclusi dal regime di protezione i gruppi politici, sociali, economici e culturali, contrariamente a quanto prospettato da R. Lemkin (Lemkin, R., Axis Rule, cit.). Nonostante ciò, è rinvenibile nella prassi statale un tentativo di ampliare il novero dei gruppi protetti; interessanti indicazioni, al riguardo, provengono dalla giurisprudenza spagnola che interpretando la categoria di gruppo ‘nazionale’ ha sostenuto che esso non significa «a group comprising persons who belong to one nation», ma semplicemente «a national human group, a distinguishable human group characterized by something, and which is a segment of a larger collectivity» (Supreme Court, Criminal Chamber, Pinochet Case, 4.11.1998, § 5). Ne consegue che ogni gruppo nazionale andrebbe inteso come scomponibile in diversi sottogruppi, ad esempio in gruppi politici o sociali, che in quanto tali sarebbero protetti dalla norma sul divieto di genocidio.

La Convenzione del 1948 non fornisce una definizione di gruppo; pertanto, nell’individuare i criteri idonei a definire il gruppo, la giurisprudenza internazionale, in particolare del TPIY e del TPIR, ha fatto uso di due differenti approcci.

In base all’approccio oggettivo, utilizzato nella sentenza Akayesu dal TPIR, il gruppo esisterebbe nella realtà sociale in quanto identificabile sulla base di criteri oggettivi. Pertanto, il gruppo nazionale sarebbe costituito da individui che condividono una comune cittadinanza, il gruppo etnico sarebbe costituito da individui che condividono una medesima lingua e cultura, il gruppo razziale sarebbe costituito da individui con tratti fisici ereditari spesso identificati con una regione geografica, indipendentemente dai fattori linguistici, culturali, nazionali o religiosi, e il gruppo religioso sarebbe costituito da individui che condividono la stessa religione, confessione o pratica di culto. Tuttavia, già nella citata sentenza, il TPIR dovette prendere atto della difficoltà di distinguere, sulla base di un approccio oggettivo, i Tutsi, in quanto gruppo etnico all’interno della popolazione del Ruanda, constatando che tale gruppo non fosse distinguibile sulla base di peculiari caratteristiche linguistiche e culturali, ma che la divisione della popolazione ruandese in gruppi ‘etnici’ fosse una eredità storica che si era profondamente radicata nella coscienza collettiva e individuale, per cui il «sense of belonging» acquisiva un rilievo giuridico, benché il Tribunale sottolineasse che «it is a sense which can shift over time» (TPIR, Prosecutor v. Akayesu, Case No. ICTR-96-4-T, sentenza del 2.9.1998, § 172). Il passaggio all’identificazione di un gruppo etnico tramite un approccio soggettivo fu compiuto dal TIPR nel caso Kayshema, affermando che «[a]n ethnic group is one whose members share a common language and culture; or, a group which distinguishes itself, as such (self identification); or, a group identified as such by others, including perpetrators of the crimes (identification by others)» (TPIR, Prosecutor v. Kayshema and Ruzindana, Case No. ICTR-95-1, sentenza del 21.5.1999, § 98).

L’approccio soggettivo è stato utilizzato anche dal TPIY, a partire dal caso Jelisic, per identificare ciascuno dei gruppi protetti. Infatti, il TPIY si era mostrato consapevole del fatto che, salva la possibilità di determinare oggettivamente un gruppo religioso, tentare di definire un gruppo nazionale, etnico o razziale usando criteri oggettivi e scientificamente irreprensibili sarebbe stato un esercizio pericoloso il cui risultato non avrebbe corrisposto necessariamente alla percezione che di sé hanno le persone interessate da tali categorizzazioni (TPIY, Prosecutor v. Jelisic, Case No. IT-95-10-T, sentenza del 14.12.1999, § 70). Tuttavia, il TPIY nell’identificare il gruppo protetto non ha fatto uso del criterio dell’autoidentificazione da parte del gruppo interessato, ma ha ritenuto che l’appartenenza al gruppo dovesse essere determinata sulla base di un approccio in cui rilevi la stigmatizzazione del gruppo come distinta unità nazionale, etnica o razziale da parte dei presunti autori. Posto in questi termini, l’approccio soggettivo permetterebbe di identificare il gruppo attraverso due differenti criteri; un ‘criterio positivo’ in cui sono gli autori del crimine ad identificare il gruppo sulla base delle caratteristiche che ritengono essere particolari per un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso e un ‘criterio negativo’ che consiste nell’identificare il gruppo oggetto di genocidio per esclusione dei suoi membri dal gruppo a cui gli autori del crimine ritengono di appartenere, gruppo quest’ultimo avente specifiche caratteristiche nazionali, etniche, razziali o religiose (TPIY, Case No. IT-95-10-T, § 71).

La mens rea del genocidio

Il crimine di genocidio si caratterizza per la presenza di due separati elementi soggettivi, un ‘intento generale’ che riguarda tutti gli elementi oggettivi della definizione degli atti criminali (actus reus), ora definito nell’art. 30 dello Statuto della CPI come comprendente un elemento volitivo (intenzione) e un elemento cognitivo o intellettuale (consapevolezza), e un ulteriore ‘intento speciale’ o dolus specialis (intento di distruggere). Il dolus specialis costituisce il requisito soggettivo aggiuntivo che integra l’intento generale e senza il quale, pur in presenza di uno specifico actus reus, non si concretizza il crimine di genocidio. Tuttavia, l’esistenza del dolus specialis è alquanto difficile da accertare, posta anche la necessità di coniugare lo standard probatorio del «beyond reasonable doubt».

Come è stato sottolineato a partire dal caso Akayesu da parte del TPIR, «[t]his is the reason why, in the absence of a confession from the accused, his intent can be inferred from a certain number of presumptions of fact. The Chamber considers that it is possible to deduce the genocidal intent inherent in a particular act charged from the general context of the perpetration of other culpable acts systematically directed against that same group, whether these acts were committed by the same offender or by others …» (TPIR, Case No. ICTR-96-4-T, § 523). L’inferenza in materia di prova del genocidio è stata ribadita anche dall’Ufficio del Procuratore della CPI nell'Application for a Warrant of Arrest against Al-Bashir del 2008. Nel richiamare i principali criteri già elaborati dai Tribunali ah hoc, il Procuratore ha compilato un catalogo particolarmente esteso, anche se non esaustivo, di circostanze da cui desumere la commissione di un genocidio: il «pre-existing historical and political background»; il «systematic targeting of victims on account of their membership of a particular group»; la «scale of the atrocities committed»; i «genocidal statements»; i «forcible transfers»; la «sexual violence»; la «strategy to deny and conceal the genocide»; e gli «attacks on the cultural and religious property».

Nel definire la mens rea del genocidio possono essere rilevanti altri due aspetti, quello della dimensione quantitativa del crimine e quello della sua estensione geografica.

In merito al primo aspetto, la giurisprudenza del TIPY ha sottolineato come la mens rea si può esprimere sotto due forme. Essa può consistere nel volere distruggere un numero molto elevato di membri di un gruppo protetto, ci si troverà dunque in un’ipotesi di volontà di distruzione ‘massiccia’ del gruppo stesso; ma essa può consistere anche nel cercare di distruggere un numero più limitato di persone, selezionate in ragione dell’impatto che la loro scomparsa avrebbe sul gruppo protetto, e allora ci si troverà in un’ipotesi di distruzione ‘selettiva’ del gruppo stesso (TPIY, Case No. IT-95-10-T, § 82). In merito all’aspetto dell’estensione geografica del genocidio, sempre la giurisprudenza del TPIY ha sottolineato come l’intento genocidario possa consistere nell’intenzione di distruggere un gruppo che si trovi in una limitata zona geografica (TPIY, Case No. IT-95-10-T, § 83). In questo senso si era pronunciata già l’Assemblea generale dell’ONU nel qualificare come genocidio il massacro di palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila, in Libano, nel 1982 (UN Doc. A/RES/37/123, D, 16.12.1982).

Il contesto del genocidio

Il contesto criminoso è inteso come l’insieme di tutte le circostanze, a partire da quelle di tempo e di luogo, in cui è consumato l’actus reus.

Nella giurisprudenza dei tribunali penali internazionali ad hoc, in linea con il testo della Convenzione del 1948, emerge come il contesto criminoso sia stato identificato nel piano o nella politica genocidaria; tuttavia, la stessa giurisprudenza non ha considerato il contesto un elemento costitutivo del crimine, tutt’al più ha ritenuto che «the existence of such a plan would be strong evidence of the specific intent requirement for the crime of genocide» (TPIR, Cases No. ICTR-95-1-T and ICTR-96-10-T, § 276) o che «the existence of a plan or policy may facilitate proof of the crime» (TPIY, Prosecutor v. Jelisic, IT-95-10-A, sentenza del 5.7.2001, § 48).

Gli Elements of Crimes della CPI, invece, fanno espressamente riferimento al contesto criminoso in cui è commesso un atto genocidario, affermando che «[t]he conduct took place in the context of a manifest pattern of similar conduct directed against that group or was conduct that could itself effect such destruction». La CPI ha pertanto messo in rilievo come «the protection offered by the penal norm defining the crime of genocide – as an ultima ratio mechanism to preserve the highest values of the international community – is only triggered when the threat against the existence of the targeted group, or part thereof, becomes concrete and real, as opposed to just being latent or hypothetical» (CPI, Prosecutor v. Omar Al Bashir, ICC-02/05-01/09, Decision on the Prosecution’s Application for a Warrant of Arrest against Omar H.A. Al Bashir del 4.3.2009, § 124). La citata decisione è stata oggetto di critica, in quanto il requisito della «concrete and real threat», oltre a non essere richiesto espressamente dagli Elements, innalzerebbe oltremodo la soglia di perfezionamento del crimine, portandola ad un livello difficilmente distinguibile dalla realizzazione dell’evento di distruzione del gruppo protetto (Kress, C., The Crime of Genocide and Contextual Elements. A Comment on the ICC Pre-Trial Chamber's Decision in the Al Bashir Case, in Journal of International Criminal Justice, 2009, 7, 297-306).

La repressione del crimine di genocidio

In base all’art. IV della Convenzione del 1948, la commissione di uno qualunque degli atti criminali elencati nell’art. III fa sorgere una responsabilità penale in capo all’individuo cui siano imputabili. Detta norma non fa alcuna distinzione tra governanti, pubblici ufficiali e individui privati e, data la gravità del crimine, non prevede cause giustificative o di non imputabilità della responsabilità penale, a differenza di quanto accade, in base al diritto internazionale generale, per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Tuttavia, essa solleva un problema di coordinamento con la norma consuetudinaria sulla immunità dalla giurisdizione penale degli Stati terzi che garantisce i Capi di Stato e di Governo e i Ministri degli affari esteri (sul punto, si veda, Corte internazionale di giustizia, Mandato di arresto dell’11 aprile 2000 (Rep. Dem. del Congo v. Belgio), sentenza del 14.2.2002, § 61).

L’art. V della Convenzione impone agli Stati contraenti l’obbligo di emanare, in conformità alle proprie Costituzioni, le leggi necessarie per dare attuazione alle disposizioni convenzionali e in particolare di prevedere sanzioni penali efficaci per le persone colpevoli di genocidio o di altri atti genocidari (l’Italia ha adattato il proprio ordinamento agli obblighi convenzionali con la l. cost. 21.6.1967, n. 1 «Estradizione per i delitti di genocidio» e con la l. 9.10.1967, n. 962 «Prevenzione e repressione del delitto di genocidio»).

All’epoca della redazione della Convenzione sul genocidio, un ampio dibattito si sviluppò intorno al problema di quale giurisdizione fosse competente sui crimini di genocidio. R. Lemkin (Lemkin, R., Genocide as a Crime under International Law, in AJIL, 1947, 41, 145-151) aveva sostenuto con forza che per la repressione di un tale crimine fosse necessario riconoscere un titolo di giurisdizione penale universale. Tuttavia, l’art. VI della Convenzione stabilisce semplicemente che «[l]e persone accusate di genocidio o di uno degli altri atti elencati nell’art. III saranno processate dai tribunali competenti dello Stato nel cui territorio l’atto sia stato commesso, o dal tribunale penale internazionale competente rispetto a quelle Parti contraenti che ne abbiano riconosciuto la giurisdizione».

Il contenuto della norma mise da subito in rilievo come l’obbligo per uno Stato di esercitare la giurisdizione sulla base del principio di territorialità avesse una speranza di essere rispettato solo nel caso di un cambiamento di regime politico nello Stato in cui il genocidio era stato commesso e che qualora fosse nata una corte penale internazionale l’esercizio della sua giurisdizione sul crimine di genocidio sarebbe stata possibile solo previa accettazione da parte dello Stato della competenza dell’organo giurisdizionale internazionale (si noti, tuttavia, che la Corte internazionale di giustizia ha interpretato la nozione di ‘corte penale internazionale’, presente nell’art. VI, in modo estensivo, facendovi rientrare anche i tribunali penali internazionali istituiti dal Consiglio di sicurezza sulla base del Capitolo VII della Carta ONU; cfr. Affare relativo alla Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio (Bosnia-Erzegovina c. Serbia e Montenegro), sentenza del 26.2.2007, § 445).

Nondimeno, dalla prassi giurisprudenziale e legislativa di molti Stati emerge la tendenza ad interpretare l’art. VI della Convenzione come non limitativo della possibilità di ricorso alla giurisdizione universale da parte dei tribunali penali nazionali (per una ricognizione della prassi statale, si veda Universal Jurisdiction. A Preliminary Survey of Legislation Around the World – 2012 Update, disponibile su www.amnesty.org, 13). La dottrina, invece, è più propensa ad ammettere l’esistenza di un titolo di giurisdizione universale in ragione di una consuetudine internazionale (in tal senso, si veda, Institut de Droit international, Resolution on Universal criminal jurisdiction with regard to the crime of genocide, crimes against humanity and war crimes, Krakow Session, 2005).

La Convenzione del 1948 non ha predisposto particolari strumenti per assicurare la cooperazione giudiziaria in materia penale tra gli Stati contraenti, ad eccezione dell’art. VII che, in tema di estradizione, specifica che il genocidio e gli altri atti elencati nell’art. III non debbano essere considerati come reati politici ai fini dell’estradizione e che le Parti contraenti si impegnano ad accordare l’estradizione in conformità alle loro leggi ed ai trattati in vigore. In particolare, si deve sottolineare come nel testo della Convenzione non sia stato incluso un riferimento all’obbligo aut dedere aut judicare, la cui introduzione era stata prospettata nel corso dei lavori preparatori, e che oggi sembra emergere dalla prassi degli Stati come norma consuetudinaria che integra il sistema repressivo contemplato a livello convenzionale (sul punto, Caligiuri A., L’obbligo aut dedere aut judicare nel diritto internazionale, Milano, 2012, 79-81 e 242-248).

Il quadro giuridico incompleto fornito dalla Convenzione in materia di cooperazione giudiziaria ha fatto emergere l’esigenza di predisporre adeguate forme di cooperazione attraverso l’adozione di appositi strumenti internazionali, specie in quei contesti geografici in cui sono stati commessi crimini internazionali. A tal riguardo, un esempio positivo di cooperazione giudiziaria è quella instaurata dagli Stati membri della Conferenza Internazionale della Regione dei Grandi Laghi attraverso la conclusione del Protocol for the Prevention and the Punishment of the Crime of Genocide, War Crimes and Crimes Against Humanity and all forms of Discrimination del 2006 (sul punto, Caligiuri, A., Il sistema di prevenzione del genocidio e degli altri crimini internazionali nella Regione dei Grandi Laghi, in Candiotto, L.-Zagato, L., a cura di, Il Genocidio. Declinazioni e risposte di inizio secolo, Torino, 2018, 157 ss.).

La responsabilità internazionale dello Stato

La sentenza del 26.2.2007 della Corte internazionale di giustizia, nell’Affare relativo alla Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio (Bosnia-Erzegovina c. Serbia e Montenegro), ha respinto in modo chiaro la posizione di coloro che ritenevano la Convenzione del 1948 uno strumento atto a fare valere solo la responsabilità penale individuale e, eventualmente, la responsabilità dello Stato unicamente per omessa prevenzione e punizione del crimine. La Corte ha affermato, invece, che l’obbligo di prevenzione del genocidio implichi necessariamente un divieto per lo Stato di commettere genocidio, sottolineando che «[i]t would be paradoxical if States were thus under an obligation to prevent, so far as within their power, commission of genocide by persons over whom they have a certain influence, but were not forbidden to commit such acts through their own organs, or persons over whom they have such firm control that their conduct is attributable to the State concerned under international law» (§ 166 della sentenza).

Tra i numerosi problemi sollevati dal caso, la Corte ha dovuto, pertanto, affrontare anche la questione di come accertare il dolus specialis dello Stato per la commissione di un genocidio, accertamento ritenuto indispensabile per affermare, nel caso di specie, l’eventuale responsabilità internazionale imputata dalla Bosnia-Erzegovina alla Serbia e Montenegro.

Dal punto di vista pratico, data la natura particolare del crimine in questione, si deve sottolineare come sia difficile che un governo proclami pubblicamente o per iscritto di avere pianificato un genocidio ed è proprio la difficoltà di determinare l’intento speciale che offre spesso «une échappatoire commode pour les Etats» (Cassese, A., La communauté internationale et le génocide, in Le droit international au service de la paix, de la justice e du développement, Mélanges Michel Virally, Parigi, 1991, 184). Dunque, il problema che si è posto all’attenzione della Corte è stato quello di valutare se la mens rea di uno Stato nella commissione di un genocidio si dovesse identificare necessariamente con la mens rea dei suoi individui-organi (tesi sostenuta dalla Serbia e Montenegro) o piuttosto se non si dovesse valutare l’intenzione dello Stato nel suo complesso (tesi sostenuta dalla Bosnia-Erzegovina).

Nella sentenza citata, la Corte ha affermato che, in base all’art. IX della Convenzione sul genocidio, essa può accertare l’intenzione di uno Stato indipendentemente dal fatto se un individuo sia riconosciuto colpevole di genocidio, o di un crimine connesso, da parte di un tribunale competente. Come è stato sottolineato dalla stessa Corte, una diversa interpretazione della Convenzione avrebbe comportato l’impossibilità di accertare la responsabilità dello Stato nel caso in cui tribunali penali nazionali non avessero esercitato la loro giurisdizione in materia di genocidio o nella circostanza in cui nessun tribunale penale internazionale avesse avuto competenza sui crimini in questione (§ 185 della sentenza). Dunque, la Corte ha accolto in via di principio la possibilità dell’uso del metodo deduttivo nell’accertamento del dolus specialis dello Stato. Essa, in particolare, ha affermato che l’intenzione dello Stato deve essere accertata in riferimento a circostanze precise, a meno che non sia provata attraverso la dimostrazione dell’esistenza di un piano genocidario (§ 373 della sentenza). Vero è, tuttavia, che, nonostante queste affermazioni di principio, la Corte si sia dimostrata poco propensa a ricostruire l’intenzione dello Stato convenuto a partire dell’esame degli eventi accaduti in Bosnia-Erzegovina, facendo piuttosto riferimento alla giurisprudenza del TPIY in merito all’accertamento del dolus specialis richiesto per il crimine di genocidio. In particolare, il richiamo di tale giurisprudenza ha permesso alla Corte di chiarire che i crimini commessi in diverse località della Bosnia orientale, pur avendo interessato membri di un gruppo protetto, non sono stati commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, quel gruppo in quanto tale e che un genocidio fosse stato commesso nella sola enclave di Srebrenica. Inoltre, il riferimento alla giurisprudenza del TPIY ha indotto ad escludere l’esistenza di un piano globale per la commissione di un genocidio.

La citata sentenza ha precisato anche il contenuto dell’obbligo di prevenire la commissione di un genocidio.

La Corte ha ritenuto che l’art. I della Convenzione imponga allo Stato non solo l’obbligo di prevenire la commissione di un crimine all’interno del proprio territorio ma altresì l’obbligo di prevenire la commissione degli stessi crimini nel territorio di altri Stati. Secondo la Corte, l’obbligo di prevenire è un obbligo di comportamento e non di risultato (§ 430 della sentenza), cioè gli Stati devono mettere in opera tutti i mezzi che sono ragionevolmente a loro disposizione in vista di impedire, nella misura del possibile, il genocidio. Pertanto, lo Stato impegna la sua responsabilità se manca ‘manifestamente’ di mettere in opera le misure di prevenzione del genocidio che sono nella sua portata e che avrebbero potuto contribuire ad impedirlo. Secondo quanto affermato dalla Corte, un obbligo così definito è un obbligo di due diligence che deve essere apprezzato in concreto. A tal fine, si deve valutare, anzitutto, la capacità – che varia sensibilmente da Stato a Stato – di ‘influenzare effettivamente’ l’azione di persone suscettibili di commettere o che sono sul punto di commettere un genocidio; questa capacità si apprezza in funzione, tra l’altro, della lontananza geografica dello Stato considerato in rapporto al luogo degli eventi e dell’intensità dei legami politici e di ogni altro ordine tra le autorità di detto Stato e gli autori diretti di questi eventi. In secondo luogo, la capacità dello Stato va tuttavia valutata secondo criteri giuridici, in quanto lo Stato non può dispiegare la sua azione che nei limiti di ciò che ad esso è permesso in base alla legalità internazionale; pertanto, la capacità di influenza che lo Stato può esercitare varia a seconda della sua posizione giuridica rispetto alle situazioni e alle persone coinvolte dal rischio o dalla realtà del genocidio. Infine, la Corte ha sottolineato che la violazione dell’obbligo di comportamento sussiste anche qualora lo Stato di cui si invoca la responsabilità possa provare che, pur qualora avesse messo in atto tutte le misure ragionevolmente a sua disposizione, comunque non avrebbe potuto impedire la commissione del genocidio. In particolare, la Corte rileva come l’importanza di uno sforzo congiunto degli Stati, ciascuno agente conformemente al suo obbligo di prevenzione, possa condurre al risultato di impedire la commissione del crimine che gli sforzi di un solo Stato potrebbero non raggiungere.

Questo non significa però che l’obbligo di prevenire abbia inizio nel momento in cui il genocidio inizi ad essere perpetrato, ma quando lo Stato ha conoscenza o dovrebbe avere normalmente conoscenza dell’esistenza di un rischio serio di commissione del genocidio; è in questo caso che lo Stato deve mettere in opera, secondo le circostanze, ‘i mezzi suscettibili di avere un effetto dissuasivo’ per le persone sospettate di preparare un genocidio, o di cui si crede ragionevolmente che nutrano un dolus specialis.

Fonti normative

Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio; art. 4 Statuto del TPIY; art. 2 Statuto del TPIR; art. 6 Statuto della CPI; art. 28 B Statuto (emendato) della Corte africana di giustizia e dei diritti umani; l. 11.3.1952, n. 153 «Adesione dell'Italia alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite»; l. cost. 21.6.1967, n. 1 «Estradizione per i delitti di genocidio»; l. 9.10.1967, n. 962 «Prevenzione e repressione del delitto di genocidio».

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Attribuzione: Alexander Voronzow and others in his group, ordered by Mikhael Oschurkow, head of the photography unit [Public domain].

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