GEREMIA da Montagnone

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 53 (2000)

GEREMIA da Montagnone

Gabriella Milan

Nacque a Padova da Michele, probabilmente di professione giudice. Secondo Weiss, al quale dobbiamo la più completa ricostruzione biografica su G., la sua data di nascita può essere stabilita solo con una certa approssimazione.

Il primo documento relativo a G. è riconducibile al 1275, anno in cui il suo nome risulta incluso, insieme con quelli del padre e dei fratelli, Alberto e Amerigo, nel censimento dei cittadini di Padova fatto compilare dal podestà Roberto de' Roberti da Reggio. Poiché si diventava cittadini non prima dei quindici anni, è evidente che il primo termine utile per determinare la data di nascita di G. potrebbe riferirsi al 1260; d'altra parte il suo nome figura, questa volta insieme con quello del fratello Amerigo, in un documento del 2 apr. 1280 relativo al Collegio dei giudici di palazzo, incarico che non poteva essere ricoperto prima del trentesimo anno d'età; pertanto la data più attendibile della sua nascita dovrebbe coincidere con il 1250.

Dal censimento sopra ricordato la famiglia risulta domiciliata nel quartiere del duomo, riservato ai giudici. G. apparteneva dunque a una famiglia tradizionalmente impegnata nella professione giudiziale, tra le più cospicue di Padova. I signori da Montagnone, il cui feudo era localizzato nei monti padovani, verso Monselice, potevano vantare come progenitrice, secondo il Liber de generatione aliquorum urbis Paduae… di Giovanni da Nono, contemporaneo di G., la Berta del proverbio: "non è più il tempo che Berta filava la lana" (Rajna, 1875).

Per quanto riguarda la formazione, anche in mancanza di documenti è facile immaginare per G., dopo il consueto tirocinio di indirizzo grammaticale, la frequenza dei corsi di diritto presso lo Studio patavino, che dovette protrarsi almeno per gli otto anni necessari per il conseguimento del titolo di "doctor iuris civilis" con cui viene menzionato. Gli studi giuridici dovevano comunque essere ultimati nel 1280, quando G. entrò a far parte del Collegio dei giudici di palazzo. Tale corporazione era tra le più prestigiose, in quanto da essa provenivano i nominativi dei giudici che, nel corso di un quadrimestre, avevano il compito di presiedere gli uffici di maggiore responsabilità del Comune. Tra il 1294 e il 1317 il nome di G. compare in svariati documenti come giudice nel banco "ad porcum" e nel banco "ad vulpem", successivamente nei banchi "ad stambecum", "ad lupum", "ad ursum" e "ad cervum" (dal nome dell'animale dipinto nel salone dove prendeva posto la corte). Oltre a queste cariche G. fu per due volte (nel 1297 e nel 1318) uno dei quattro gastaldi che sovraintendevano al Collegio dei giudici, e registrò per tre volte nella matricola l'assunzione di nuovi membri: le sue registrazioni sono interessanti anche dal punto di vista linguistico come testimonianza del latino medievale d'uso. Accanto agli incarichi giudiziari, G. ebbe un ruolo anche nel Collegio padovano dei dottori giuristi, cioè nella commissione responsabile del corretto svolgimento degli esami per il conseguimento del dottorato in diritto civile. Accanto alle cariche ufficiali e alle attività professionali G. esercitò anche l'avvocatura, che gli permise di vivere nell'agiatezza: probabilmente grazie a questa attività poté trasferirsi con la famiglia nel palazzo fatto edificare in contrada S. Niccolò.

La sua ricchezza, ancora secondo la testimonianza di Giovanni da Nono, sarebbe inoltre da mettere in relazione con la pratica dell'usura, da cui sembra che G. non fosse esente; ma si tratta di una notizia difficilmente dimostrabile. G. risulta sposato con Guglielma, figlia di Antonio di Litolfo, dalla quale ebbe due figli: il primogenito Oddone, che seguì la professione del padre, e Durello.

I da Montagnone, come la maggior parte dei nobili padovani, erano filoghibellini e nel 1320 furono tra i cittadini che abbandonarono la città per unirsi a Cangrande della Scala. La notizia che G. abbia lasciato Padova non trova però conferma nei documenti: è assai probabile che l'età ormai avanzata, nonché il timore di perdere i suoi beni, lo abbiano trattenuto dall'impresa.

In un documento risalente al periodo marzo-giugno del 1321 è indicato come "mortuus": G. avrebbe dovuto assumere di nuovo l'incarico di giudice del Comune nel quadrimestre indicato se non fosse sopraggiunta la morte.

G. svolse tutta la sua attività, non solo di giudice, ma anche di letterato, a Padova; come altri famosi giureconsulti padovani con i quali fu sicuramente in contatto (Lovato de' Lovati, ad esempio, benché assai più giovane, e Rolando da Piazzola, i quali erano entrambi suoi colleghi nel Collegio dei giudici) subì il fascino degli studi umanistici. Fu così che, negli stessi anni in cui ricopriva gli incarichi di responsabilità per il Comune, lo troviamo impegnato nella compilazione di alcune importanti opere. Il suo nome è quasi interamente legato al Compendium moralium notabilium, una vasta raccolta di citazioni ricavate dai testi biblici, classici, patristici e medievali compilata tra il 1295 e il 1300.

La consuetudine di abbreviare e di compendiare faceva parte della vita intellettuale medievale e si rendeva necessaria a tutti coloro che volevano accedere alla cultura: è lo stesso G. a dichiarare che il fine della sua trattazione era quello di mettere a disposizione dei lettori, nel modo più agevole possibile, una summa di insegnamenti morali. Diversamente dai florilegi medievali, cui ovviamente si ricollega, la tecnica dell'abbreviazione presente nel Compendium riflette, piuttosto, l'influenza dell'uso giuridico peculiare della formazione dell'autore. L'opera è suddivisa in cinque parti: De religione, De iustitia, De prudentia, De temperantia et voluptatibus, De solitudine; ciascuna di esse comprende diversi libri (tre la prima parte, sei la seconda e la terza, rispettivamente cinque e quattro la quarta e la quinta parte); ogni libro contiene, infine, un certo numero di citazioni o rubriche poste in ordine cronologico. È lo stesso G. a illustrare la struttura dell'opera nell'introduzione, che è anche fonte di notizie relative alla sua attività di giudice. All'introduzione segue il catalogo degli autori citati, posti in un ordine cronologico abbastanza corretto: benché Marziale venga posto dopo Girolamo, il Catone dei Disticha è collocato correttamente tra gli auctores di età boeziana. La caratteristica notevole di questo elenco consiste nella distinzione che G. attua tra gli scrittori di età classica e gli scrittori di età medievale, riservando ai primi il titolo di "poeta", e applicando ai secondi l'appellativo di "versilogus". G. rivelerebbe in questa diversa denominazione la consapevolezza, che sarebbe stata manifestata anche dal Petrarca e dagli umanisti, di una netta cesura tra il periodo classico e il periodo medievale, che viene avvertito come periodo di declino. Secondo G. tale cesura si situerebbe dopo Isidoro di Siviglia: il primo autore a ricevere nel catalogo il titolo di "versilogus" è infatti Aviano, collocato immediatamente dopo Isidoro. Ma è dall'esame delle citazioni che emerge un insieme di grande interesse: se G. attinge con grande disinvoltura dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, veramente ampia può dirsi la sua conoscenza delle opere greche tradotte; Aristotele è l'autore più citato (753 volte, da 22 opere), e in questo G. rivela un gusto ancora medievale; meno ovvia la sua conoscenza di tre dialoghi di Platone tradotti: il Timeo di Calcidio, il Menone e il Fedone (da G. ricordato come Fedrone) di Enrico Aristippo. Passando alla letteratura latina, il quadro rivela una selezione molto originale; per quanto riguarda la poesia, è vero che G. non cita né Lucrezio, né Properzio, né le Selve di Stazio, né Tibullo, ma di Terenzio conosce tutte le commedie, che considerava giustamente scritte in versi e non in prosa; dimostra inoltre di conoscere tutto Orazio e Ovidio. La conoscenza di Virgilio, circoscritta alle opere maggiori, è in linea con la tradizione medievale. La vera novità che il Compendium ci offre è rappresentata dalle sette citazioni dal Liber di Catullo.

Come si sa, Catullo era del tutto sconosciuto nel Medioevo, con l'eccezione del vescovo di Verona, Raterio, che lo cita intorno alla metà del X sec., fatto questo che farebbe supporre la presenza del codice del Liber catulliano nella Biblioteca del capitolo; tuttavia, è soltanto nei primissimi anni del XIV secolo che il testo di Catullo riapparve nella Biblioteca capitolare. Ullman ha stabilito con sicurezza che le citazioni catulliane fatte da G. provengono non da un florilegio, come si pensava, bensì da un codice. Questo farebbe supporre contatti di G. con l'ambiente della Capitolare di Verona: del resto egli era legato alla città veronese, oltre che da simpatie politiche, anche dai comuni interessi del gruppo umanistico padovano. I sette passi citati da Catullo (che G. definisce capitula) non sono presenti in tutta la tradizione manoscritta del Compendium; è perciò assai probabile che G. abbia avuto accesso al codice catulliano solo dopo aver portato a termine la prima stesura della sua opera nel 1300.

Per completare, sia pure rapidamente, il quadro delle citazioni della latinità che il Compendium ci offre, vale la pena di sottolineare, oltre alle occorrenze dei prosatori, tra i quali risalta Cicerone, la massiccia presenza di Seneca tragico, nei confronti del quale G. manifesta lo stesso interesse presente nel gruppo dei preumanisti padovani. Consistente è l'interesse dimostrato da G. anche verso i testi patristici e verso gli autori medievali; un rilievo particolare egli assegna ad Andrea Cappellano di cui conosce i due trattati De amore e De dissuasione uxoris. Il quadro delle citazioni viene completato dal ricorso alle fonti orali da cui G. ricavò sia i numerosi proverbi latini, sia "la magnifica collezione di proverbi in volgare padovano, la cui conservazione è dovuta interamente a lui" (Weiss, 1949, p. 47). Per i proverbia metrica G. attinse probabilmente alla fiorente tradizione che prevedeva la circolazione anonima delle sentenze, estrapolate dalle fonti legittime. La conservazione dei proverbi volgari è invece dovuta interamente a Geremia. I 178 proverbi - dei quali esiste una trascrizione meritevole, anche se non del tutto attendibile, del Gloria (sulla quale intervenne Mussafia) e la cui origine è da mettere in relazione in molti casi con i DistichaCatonis - registrano lo stadio più antico della parlata padovana, precedente all'influsso veneziano che si manifestò intorno alla metà del Trecento.

La fortuna del Compendium è attestata dalla sua ricca tradizione manoscritta ed è dovuta al condensarsi di una materia vasta in un unico, maneggevole volume, con cui si faceva fronte all'alto costo dei manoscritti e a problemi di consultazione per mezzo di una pratica indicizzazione. La grande quantità di materiale che il Compendium mise a disposizione di chi lo utilizzava ha portato un grande giovamento agli studi intorno alle opere di numerosi autori della classicità (primo fra tutti Catullo), ma anche del Medioevo.

L'esame della tradizione manoscritta del Compendium ha portato alla luce diverse redazioni del testo che non corrisponderebbero però necessariamente a stesure diverse; la presenza o l'omissione di determinati autori dipenderebbe esclusivamente (con l'eccezione però delle citazioni da Catullo) dal diverso uso che se ne doveva fare.

Circa la datazione del Compendium, abbiamo visto che la prima stesura doveva essere stata ultimata nel 1300, in quanto è priva delle citazioni da Catullo; mentre il termine post quem sarebbe rappresentato dal 1295, poiché tra i testi citati vi sono gli Economica di Aristotele nella versione latina che va sotto il nome di "recensio Durandi" e che fu completata ad Anagni nel 1295. Su questa ipotesi i pareri sono però discordi. La prima edizione del Compendium, fu stampata a Venezia nel 1505 con il titolo di Epytoma sapientie per cura di Pietro Trecio, a spese del tipografo Pietro Liechtenstein di Colonia. Il Compendium costituisce l'opera di maggior impegno di G., dalla quale emerge una conoscenza diretta, vasta e profonda dei testi della letteratura antica, utilizzati però solo come repertori di sentenze morali.

G. è anche autore di una Summa commemorialis utilium iuris (ms. Lat. V.15 della Biblioteca nazionale Marciana di Venezia), uno zibaldone di massime giuridiche le cui fonti principali sono da ricercarsi nel Digesto e nelle Istituzioni giustinianee (ma non mancano riferimenti ai testi giuridici contemporanei). Anche di questo repertorio lo scopo è squisitamente pratico, ossia di mettere a disposizione di chi esercitava l'avvocatura un insieme di citazioni che il compilatore aveva trovato particolarmente utili nella sua professione legale. La Summa, che ci è giunta incompleta, è da assegnarsi all'ultimo periodo della vita di G., e non è improbabile che egli vi stesse lavorando quando fu colto dalla morte.

A G. viene assegnata anche un'altra opera, scritta dopo il 1280, il Compendium de significationevocabulorum medicorum, una sorta di dizionario medico, che è attualmente perduto o irreperibile. Quanto a un De auctoribus scientiarum et libris eorum, segnalatoci dai bibliografi cinquecenteschi, non è altro che una copia incompleta del Compendium, che cominciava con la seconda rubrica del terzo libro della terza parte.

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