Germania

Il Libro dell'Anno 2005

Angelo Bolaffi

Germania

Deutschland,

Deutschland über alles...

wenn es stets zu Schutz

und Trutze brüderlich

zusammenhält

La grande coalizione

di Angelo Bolaffi

10 ottobre

SPD e CDU/CSU trovano l'intesa per la formazione di un governo di unità dopo che nelle elezioni del 18 settembre per il rinnovo del Bundestag nessuna delle due formazioni aveva ottenuto i voti sufficienti a formare con i suoi alleati una coalizione di maggioranza. Nuovo cancelliere sarà Angela Merkel, presidente della CDU, otto ministeri saranno affidati alla SPD, sei alla CDU/CSU.

Politica di compromesso

La novità è destinata a fare storia: i tedeschi, per la prima volta dal 1949, da quando dopo la fine del Terzo Reich la democrazia politica è tornata a reggere le sorti del loro paese, sono andati a letto dopo aver votato senza sapere 'quale' governo ci sarebbe stato nel loro futuro e addirittura 'se' ce ne sarebbe stato uno. Neppure l'elezione suppletiva tenuta a Dresda due settimane dopo le elezioni politiche generali del 18 settembre ha contribuito a fare chiarezza.

Questo clima politico di estrema incertezza e di improvvisa aleatorietà costituisce per una nazione amante della governabilità com'è la Germania un vero e proprio trauma. Non a caso una sorta di sindrome si è diffusa rapidamente nell'opinione pubblica e nei commenti degli analisti: la sindrome di una Italianisierung, di una possibile 'italianizzazione' della vita politica tedesca. Ovviamente le cose non stanno esattamente così. Istituire un paragone tra l'odierna situazione politica tedesca e quella italiana della prima Repubblica (o di quella prossima ventura) appare tutto sommato una strumentale forzatura polemica, buona forse per le campagne di certi media ma sicuramente non utile a dare un quadro realistico dello stato di salute politica del paese demograficamente ed economicamente più forte dell'Unione Europea. È vero, però, che il risultato uscito dalle urne non solo ha smentito clamorosamente tutte le previsioni della vigilia ma ha, ed è quello che conta, prodotto una situazione che, per riprendere un'espressione di un celebre saggio di Jürgen Habermas, potremmo definire la 'nuova opacità politica tedesca'. Nessuna delle due coalizioni in lizza per il governo, infatti, ha vinto: quella rosso-verde, formata da socialdemocratici e Verdi, ha perduto la maggioranza che aveva. Quella giallo-nera, costituita da liberali e democristiani, non l'ha conquistata come sperava.

Angela Merkel, la donna venuta dall'Est alla quale tutti predicevano un sicuro trionfo, per quanto fortemente ridimensionata, è riuscita a difendere il diritto della CDU, quale gruppo parlamentare più forte, di nominarla alla carica di cancelliere. Mentre Gerhard Schröder dovrà accettare di uscire di scena, anche se di fatto è stato 'politicamente' il vero vincitore di queste elezioni e mai come in questo momento le sorti della SPD appaiono totalmente dipendere da lui, l'unico leader di caratura internazionale di cui il partito disponga, il riconosciuto capo carismatico che da solo è stato capace di impedire, come tutti gli analisti avevano previsto, una catastrofe elettorale al suo partito. Per questa ragione la SPD appare oggi letteralmente orfana di Schröder, come mai era accaduto in passato, anche quando a uscire di scena furono personalità di grande rilievo quali Willy Brandt o Helmut Schmidt.

Sarà dunque grosse Koalition: il governo che nessun partito voleva alla vigilia del voto ma anche il ragionevole compromesso al quale i due grandi contendenti, la CDU/CSU e la SPD, sono stati obbligati dal combinato disposto di un costruttivo realismo e del risultato delle elezioni (oltre che, ovviamente, dal gioco dei veti incrociati posti dagli altri partiti). Angela Merkel guiderà nei prossimi anni la politica tedesca. Da questo punto di vista il fatto che una donna vada a occupare nel paese che aveva fatto l'apologia della politica come Machtpolitik il posto che in passato fu di Bismarck, di Adenauer o di Kohl costituisce un avvenimento di rilevantissima portata simbolica. Se poi si considera che la Merkel è figlia del 'socialismo prussiano' della ex Repubblica democratica tedesca di Ulbricht e Honecker, è difficile sottrarsi alla sensazione che davvero un'epoca si sia conclusa e con essa anche quella segnata dal processo di riunificazione delle due Germanie.

Proprio per il suo carattere di traumatica eccezionalità, la nascita in Germania di un governo di 'grande coalizione' conferma che il paese sta affrontando una fase in qualche modo straordinaria della sua vicenda politico-istituzionale e storico-spirituale.

Così è stato, dal 1966 al 1969, con il governo Kissinger-Brandt che non a caso segnò la fine del secondo dopoguerra tedesco, aprendo un'entusiasmante stagione di democratizzazione politica e di modernizzazione culturale della Germania. Il suo esisto positivo fu il compimento di quel processo di 'occidentalizzazione' (Verwestlichung) della cultura e dell'identità tedesche criticamente discusso da filosofi come Habermas o da storici come Heinrich A. Winkler, la cui ultima opera intitolata Storia della Germania (Roma, Donzelli, 2004) porta non a caso come sottotitolo 'il lungo cammino verso Occidente'. Ovviamente è impossibile dimenticare che a pesare negativamente sull'altro piatto della bilancia ci fu la drammatica esperienza degli 'anni di piombo' segnati dal terrorismo 'rosso' della RAF (Rote Armee Fraktion). Per questo è ragionevole ipotizzare che sarà così anche questa volta: nell'anno del quindicesimo anniversario della riunificazione delle due Germanie, la grosse Koalition potrebbe essere il modo per archiviare definitivamente l'epoca del dopo guerra fredda e soprattutto per la Germania quella del dopo caduta del Muro di Berlino.

Per una vittoria di prestigio, quella della nomina alla guida della cancelleria del proprio candidato, la CDU è stata costretta a pagare un prezzo elevato in rapporto sia alla futura composizione sia ai contenuti programmatici del governo: la Merkel sarà, dunque, una sorta di 'cancelliere dimezzato', giacché sotto il cielo della politica di Berlino nascerà una specie di 'governo socialdemocratico a guida democristiana'. Difficile sottrarsi per questo alla sensazione che si tratti di una vera e propria vittoria postuma di Gerhard Schröder giacché è unanime previsione che il prossimo governo di 'grande coalizione' potrà, nel migliore dei casi, mirare tutt'al più a realizzare le riforme dell'economia e della società che proprio Schröder aveva indicato in quella sorta di decalogo programmatico della modernizzazione riformista formulato con la cosiddetta 'Agenda 2010'.

Qualcuno paventa addirittura il rischio che si possa assistere a una retromarcia rispetto a quanto già realizzato dal governo rosso-verde con l'obiettivo di riformare il funzionamento del Sozialstaat: come interpretare altrimenti la decisione, presa nei primissimi giorni di trattativa, di tornare a scorporare il Ministero del Lavoro, alla cui direzione andrà un socialdemocratico, da quello dell'Economia, al quale andrà il 'bavarese' Edmund Stoiber? Proprio una riforma realizzata dal governo Schröder, nonostante la dura opposizione dei sindacati e della sinistra interna ed esterna alla SPD, li aveva unificati in un Ministero federale per l'Economia e il Lavoro allo scopo di enfatizzare il primato dell'economico rispetto al sociale e quindi l'idea, assai poco 'politicamente corretta' rispetto ai valori classici della socialdemocrazia, che il problema sociale della disoccupazione è una variabile dell'economia e non viceversa.

In ogni caso, per uno di quei paradossi di cui la storia si diverte a costellare il suo procedere, coloro che in precedenza erano stati gli avversari di Schröder, tanto di destra quanto di sinistra, saranno obbligati a compiere un'incredibile metamorfosi per attuare il programma che era stato di Schröder. I democristiani dovranno rinunziare a forzare in senso radicalmente neoliberista la riforma dello Stato sociale e quella del mercato del lavoro, come invece aveva lasciato intravedere la stessa Merkel nella fase finale della campagna elettorale, proponendo quale possibile futuro ministro delle Finanze di una coalizione giallo-nera un sostenitore dell'introduzione dell'aliquota unica, la cosiddetta flag tax. La prospettiva, occorre aggiungere, non è affatto sgradita a quei settori della CDU sensibili alla lezione della dottrina sociale cristiana e, in fin dei conti, neppure allo stesso Stoiber, al quale una collaborazione con la SPD tutto sommato appare molto più gradita e 'ragionevole' che non l'alleanza con i liberali, un partito i cui valori 'metropolitani', postmoderni e secolarizzati, sono lontanissimi da quelli cari ai bavaresi. Da parte loro gli oppositori di sinistra nella SPD e forse anche alcuni della stessa Linkspartei-PDS, dopo aver ostacolato in tutti i modi fino a costringerla alla paralisi l'azione di modernizzazione riformista intrapresa da Schröder, oggi dopo la vittoria, sia pure di stretta misura, conseguita dai conservatori sono inopinatamente diventati entusiastici difensori e assertori di quanto fino a ieri avevano avversato.

Evidentemente ogni compromesso è sempre tale, cioè, per principio, instabile e provvisorio. Quindi è più che probabile che la vita del prossimo governo tedesco verrà complicata da una guerriglia quotidiana sulle formule e sui contenuti perché ciascuno dei contendenti cercherà di imporre all'altro i propri obiettivi, oppure proverà a barare cercando di spacciare per vittorie anche le mezze sconfitte o le inevitabili precipitose ritirate. E come in ogni patto che si rispetti, i due contendenti, mentre con una mano saluteranno in pubblico l'accordo raggiunto, con l'altra stringeranno, ben celato in una tasca, il coltello (inteso ovviamente in senso metaforico) che, nel momento in cui lo riterranno opportuno, tireranno fuori per colpire il proprio alleato/avversario.

I democristiani potrebbero essere tentati di usare il Bundesrat, la camera delle Regioni il cui voto è necessario per le leggi più rilevanti, per ricattare la SPD e forzare in senso più decisamente liberista i progetti di legge. Mentre da parte sua la SPD potrebbe essere tentata di usare come arma di pressione sul partner di governo quella 'maggioranza a sinistra del centro' rappresentata da Verdi, SPD e Linkspartei che esiste nel Bundestag, il Parlamento federale. Per evitare il pericolo di una legislatura che proceda politicamente come se viaggiasse sulle montagne russe, sembra che le due parti si siano formalmente impegnate a respingere la tentazione del trasformismo parlamentare.

Ovviamente la durata di questo esperimento di grande coalizione dipenderà in larga misura dalla disponibilità al compromesso e dalla volontà di rispettare gli accordi di cui i due contraenti sapranno dare prova. Tra l'altro la coabitazione imporrà una limitazione di fatto se non di diritto del potere decisionale, la cosiddetta Richtlinienkompetenz, che l'art. 65 del Grundgesetz assegna alla figura del cancelliere federale giacché, come si sono subito affrettati a sottolineare i dirigenti della SPD, in una grosse Koalition la funzione del cancelliere non potrà non essere che quella di un primus inter pares se non addirittura di semplice 'notaio'. In ogni caso, se è difficile credere che possa trattarsi di un governo di legislatura (non lo fu nemmeno il primo esperimento di grosse Koalition, quello risalente alla fine degli anni Sessanta), è però probabile che il governo Merkel duri più a lungo di quanto predicono certe non proprio disinteressate Cassandre. Anche perché nel 2007 toccherà alla Germania la presidenza di turno semestrale dell'Unione Europea e sono in molti a indicare quella data come il momento più opportuno per tentare un rilancio del progetto di Costituzione europea alla quale la Germania per motivi geopolitici e la Merkel per ragioni spirituali, da buona allieva di Helmut Kohl, sono molto interessate.

In ogni caso è ormai evidente che finché la Germania non farà le sue scelte anche l'Europa è destinata a continuare nel suo balbettio politico. E un'Europa eternamente indecisa favorisce la tendenza della Germania a ripiegarsi su sé stessa e a rinviare tutte le riforme, soprattutto quelle dolorose. Anzi è possibile che questa irrisolutezza tedesca si riveli nelle condizioni di crisi di quello che, ammirato e temuto al tempo stesso, è stato il Modell Deutschland, la versione odierna della storica 'questione tedesca' che dal 1870 in poi ha ciclicamente condizionato le vicende storiche e gli equilibri geopolitici del vecchio continente. Insomma è difficile evitare di constatare che la 'nuova opacità politica tedesca' sia causa e al tempo stesso conseguenza della paralisi del processo di costruzione di un'Unione Europea quale soggetto politico capace di agire unitariamente sullo scenario internazionale.

Analisi del voto

I risultati descrivono molto bene questa inattesa situazione di stallo e confermano l'osservazione di un analista secondo il quale "l'elettore ha votato con mano tremante": CDU/CSU 35,2% (nel 2002 38, 5%), SPD 34,5% (38,5%), Verdi 8,1% (8,6%), FDP 9,8% (7,4%), Linkspartei-PDS 8,7% (nel 2002 PDS da sola 4%). La partecipazione al voto è stata del 77,7% (nel 2002 si era registrato il 79,1%).

Come si è detto, per la prima volta dal 1949 nessuno degli schieramenti politici che si sono affrontati ha ottenuto una maggioranza. Questo comportamento ha provocato - come ha puntualmente rilevato Eckhard Jesse, professore di scienza della politica all'università di Chemnitz e massimo studioso dei comportamenti elettorali in Germania - un clamoroso paradosso: Schröder ha fortemente voluto la fine anticipata della legislatura per poter indire nuove elezioni, sperando in tal modo di superare una situazione di stallo politico; al contrario, l'esito delle elezioni ha prodotto una situazione ancora più complicata e più ingovernabile. Dinanzi a questo risultato - per onestà bisogna dire più negli altri paesi europei che nella stessa Germania - qualcuno si è interrogato sull'opportunità di introdurre un sistema maggioritario in sostituzione di quello attuale, proporzionale con clausola di sbarramento al 5%, in modo da garantire in futuro la formazione di solide maggioranze. Ma proprio l'attuale situazione di 'opacità politica', in cui ben tre partiti cosiddetti 'minori' insieme rappresentano un quarto dell'elettorato, rende inattuale un simile suggerimento di razionalizzazione, che verrebbe percepito, e per questo respinto, dall'opinione pubblica come una manipolazione strumentale compiuta dai partiti maggiori per soffocare il libero confronto e 'impadronirsi del potere'.

Queste elezioni, come si è accennato in precedenza, sono state soprattutto caratterizzate dal clamoroso fallimento dei sondaggi, un po' come era avvenuto, sia pure in un contesto molto differente, nel 2004 in occasione delle elezioni spagnole. Le previsioni sono state tutte smentite: basti pensare, per esempio, che nella immediata vigilia del voto, ed esattamente il 16 settembre, il più importante istituto di ricerca demoscopico tedesco, quello di Allensbach, assegnava ancora alla CDU/CSU una percentuale del 41,5. Il Forsa, invece, prevedeva per i democristiani un risultato oscillante tra il 41 e il 43%. Quali le spiegazioni possibili di questo abbaglio clamoroso? Secondo molti le previsioni errate confermerebbero l'idea che i sondaggi sono al massimo in grado di restituire lo stato d'animo dell'elettorato in un momento determinato, mentre l'indebolimento del legame tra elettori e partiti avrebbe ingrossato le file degli indecisi e dei non votanti. Risulta, infatti, che questa volta ben il 29% degli elettori avrebbe deciso come votare nell'ultimo anno, oppure soltanto nella settimana che precedeva le elezioni o, addirittura, nel giorno in cui si sarebbe recato alle urne.

Che all'interno dei due schieramenti siano avvenuti proprio negli 'ultimi metri' drammatici spostamenti è riconducibile a quello che gli studiosi indicano come una scelta tatticamente razionale. In sostanza a destra molti elettori democristiani avrebbero preferito votare liberale per dichiarare 'a futura memoria' la loro contrarietà nei confronti di una grande coalizione. Lo stesso sarebbe avvenuto sull'altro fronte, dove una parte del voto socialdemocratico si sarebbe indirizzato verso il partito di 'sinistra-sinistra' (Linkspartei-PDS) per indicare la preferenza nei confronti di una coalizione 'rosso-rosso-verde' nella consapevolezza che quella uscente rosso-verde non sarebbe riuscita, come in effetti è accaduto, a conquistare la maggioranza dei voti. Ma paradossalmente proprio questo comportamento elettorale ha alla fine obbligato i due maggiori partiti a imboccare la via della grosse Koalition.

Certo da un punto di vista astrattamente aritmetico risulta che gli elettori tedeschi hanno in maggioranza votato a sinistra, ma politicamente questa prospettiva risulta impraticabile per l'insuperabile contrasto che separa oggi (ma domani?) la SPD, come pure la maggior parte dei Verdi, dalla Linkspartei-PDS, il partito di 'sinistra-sinistra' guidato dall'ex leader socialdemocratico Oskar Lafontaine e da Gregor Gysi, il cui successo è stato ottenuto proprio ai danni della SPD, alla quale ha sottratto oltre un milione di voti. Sull'altro versante la principale ragione della sconfitta della CDU/CSU è riconducibile proprio al fortissimo travaso di voti democristiani a favore del partito liberale. Se si esamina l'esito del voto ci si accorge, inoltre, che teoricamente sarebbero possibili altre differenti maggioranze di governo, oltre quella di sinistra-sinistra: per esempio, quella cosiddetta della Ampelkoalition (la coalizione 'semaforo' rosso-verde-gialla, formata da socialdemocratici, Verdi e liberali) o quella soprannominata Jamaica dai colori della bandiera di quel paese, nero, giallo e verde, corrispondenti a una coalizione formata da democristiani, liberali e Verdi. Ma in questo momento tutte le alternative differenti da una grosse Koalition risultano politicamente impraticabili a causa, come si è già detto, dei veti reciproci e dei contrasti programmatici dei diversi partiti.

Osservando quella che potremmo definire la 'geografia del voto' si può dire che anche questa tornata elettorale ha confermato un trend già rilevato in precedenza, e cioè che quando in Germania si vota per eleggere il governo federale determinati Länder, in particolare del Nord e del centro del paese, votano a maggioranza per la sinistra anche se nelle elezioni amministrative compiono scelte opposte. Clamoroso in questo senso il caso del Nord-Reno-Vestfalia, il Land più popoloso della Germania con oltre 12 milioni di elettori, che la CDU nel maggio 2005 era riuscita per la prima volta nel dopoguerra a strappare alla SPD e nel quale, a soli quattro mesi di distanza, ha perduto oltre il 10% dei voti.

I due partiti maggiori hanno perso soprattutto nelle regioni dell'Est, in quella che una volta era stata la Repubblica democratica tedesca: la SPD, pur restando la prima forza politica con il 30,5% dei voti, rispetto al 2002 è calata del 9,4%; la CDU con il 25,3% è risultata soltanto terza, alle spalle della Linkspartei. Questa nei cinque Länder dell'Est ha ottenuto in media il 25,4%, mentre nei restanti Länder in media ha avuto il 4,9%, il che sta a significare che senza il contributo decisivo dell'Est non avrebbe superato la soglia del 5%. Tuttavia gli analisti hanno sottolineato come in molte regioni della vecchia Repubblica federale occidentale (Assia, Renania-Palatinato, Nord-Reno-Vestfalia e nelle città Stato di Amburgo e Brema) la Linkspartei sia andata chiaramente oltre il 5%, qualificandosi come un possibile concorrente permanente per i due grandi partiti, non più spiegabile riduttivamente come un episodio transitorio, espressione del risentimento antioccidentale delle regioni dell'Est.

I Länder del Nord e dell'Est, culturalmente in prevalenza protestanti, hanno votato a maggioranza per i partiti della sinistra, mentre quelli del cosiddetto sun belt tedesco del Centro-sud hanno votato democristiano. Altro dato che sicuramente avrà rilevanti conseguenze nel futuro politico non solo della Baviera ma dell'intero paese è la sconfitta subita dalla CSU, che ha perso la maggioranza assoluta ottenendo 'solo' il 49,3%. Risultato questo che in ogni regione 'normale' sarebbe considerato straordinario ma che, invece, è stato inteso dal partito come una drammatica catastrofe. Immediatamente si è accesa all'interno di questa formazione politica, certamente atipica nel panorama europeo (la CSU è uno strano 'centauro', un po' partito e un po' Stato), un'animata discussione non solo sulle cause immediate della sconfitta ma soprattutto sulle sue prospettive future. L'annotazione critica risuonata con maggior insistenza è quella secondo la quale l'attuale dirigenza (vale a dire Stoiber) avrebbe usato la rendita di posizione elettorale di cui il partito godeva per mettere in atto una politica ispirata da scelte tecnocratiche indifferenti nei confronti delle tradizioni e dei valori 'popolari' propri degli elettori bavaresi.

Riguardo alla SPD, secondo un'analisi del gruppo di 'ricerca elezioni', la sconfitta è riconducibile soprattutto all'alta insoddisfazione nei confronti dell'azione del governo e a un calo di fiducia crescente nella competenza dei socialdemocratici. Solo il 21% degli intervistati si è detto convinto della capacità della SPD di risolvere il problema per eccellenza e cioè quello della disoccupazione, mentre il 41% pensa che la CDU sia in grado di farlo. Nelle questione di politica delle tasse, pensioni, salute e politiche della famiglia la SPD è giudicata pari alla CDU.

Esaminando la composizione demografica del voto si scopre che la CDU è stata chiaramente vincente tra gli elettori più anziani. Tra gli ultrasessantenni ha ottenuto infatti il 43% dei voti, mentre negli altri gruppi d'età è in vantaggio la SPD, che tra i giovani ha ottenuto consensi oltre il 40%. Tra i lavoratori, come pure tra i disoccupati, la perdita di consensi della SPD è di circa il 6% superiore a quella media. Su questi elettori ha costruito il suo successo la Linkspartei, che ha ottenuto il 25% tra i disoccupati, superando la CDU, alla quale è andato solo il 20%. L'unione democristiana ha subito perdite superiori alla media tra gli uomini, la SPD invece tra le donne.

Dall'analisi complessiva del voto risulta dunque che, analogamente a quanto emerso dalle presidenziali americane del 2004, la Germania appare un paese letteralmente spaccato in due campi contrapposti e incomunicabili. Questo solleva inevitabilmente l'interrogativo se non ci si trovi di fronte a un trend politico che nei prossimi anni potrebbe caratterizzare la dinamica delle democrazie dei paesi industriali dell'Occidente.

Prospettive future

Tutto suggerisce che siano da escludere drammatici mutamenti di rotta nelle scelte di politica internazionale della Germania: tutt'al più ci sarà solo un cambiamento dei toni per quello che riguarda l'atteggiamento tedesco nei confronti degli Stati Uniti da un lato e della Russia di Putin dall'altro. È facile capire perché. Angela Merkel e con lei la dirigenza democristiana sanno benissimo che la stragrande maggioranza del paese è sostanzialmente ostile o comunque diffidente nei confronti dell'unilateralismo strategico seguito dalla Casa Bianca e che una scelta di neoatlantismo militante si scontrerebbe inevitabilmente con gli umori profondi dell'opinione pubblica. Sono anche consapevoli, al di là delle polemiche strumentali, che dietro la scelta di buon vicinato tra Russia e Germania - una politica che, occorre ricordarlo, irrita profondamente sia la Polonia sia i paesi baltici - ci sono ragioni strategiche decisive, a cominciare dall'approvvigionamento energetico tedesco da parte della Russia, obiettivo che con molta determinazione il governo Schröder ha perseguito con lo scopo di allentare la dipendenza della Germania dalla fornitura di greggio proveniente da una regione estremamente instabile come il Medio Oriente. È difficile sostenere che questa opzione strategica guidata dal primato della Realpolitik non abbia avuto dei costi d'immagine per la Germania del governo rosso-verde. Infatti, l'aver indicato in Putin un 'sincero democratico', come più volte ha fatto Schröder, nonostante la sanguinosa repressione attuata in Cecenia e l'appoggio all'oligarchia che oggi domina la vita politica russa, è risultato in palese contraddizione con la priorità assegnata alla difesa dei diritti umani, che proprio il ministro degli Esteri Joschka Fischer aveva segnalato come uno degli elementi di innovazione che la coalizione rosso-verde avrebbe introdotto rispetto alla tradizione politica seguita dalla diplomazia tedesca. In base a tale priorità la Germania aveva giustificato politicamente e sostenuto moralmente la decisione di porre fine alla storica politica di neutralità delle forze armate tedesche per consentire il loro intervento prima nei Balcani e successivamente in Afghanistan.

Per quel che riguarda la politica interna sembra invece verosimile che proprio grazie alla grosse Koalition sarà finalmente possibile mettere mano a quella che è indicata come la 'madre di tutte le riforme ', ossia la revisione del funzionamento del sistema federale: nato quando la Germania era divisa in due Stati, c'era ancora la guerra fredda e il termine 'globalizzazione' era sconosciuto al lessico politico europeo, questo oggi rende molto complicato se non addirittura impossibile governare il paese. La conferma più convincente di questa previsione è che le trattative che hanno portato all'accordo di grosse Koalition siano state condotte per la CSU da Stoiber e per la SPD dal presidente Franz Müntefering, già vicepresidenti della commissione per la riforma del sistema federale.

Ma c'è un risultato uscito dalle elezioni che consente, senza esagerare, di parlare di epocale cesura nella storia politica della Germania del secondo dopoguerra. L'entrata in Parlamento di una formazione come quella della Linkspartei-PDS, infatti, non segnala semplicemente un ulteriore affollamento dell'arena politica, che rende un po' più complicata la dialettica parlamentare e conseguentemente un po' più difficile la ricerca di alleanze per formare un governo. In realtà siamo dinanzi a un salto qualitativo nel funzionamento della vita politico-parlamentare in Germania e alla crisi politica di quel modello di relazioni sociali e di economia che è stato chiamato 'capitalismo renano'. Anche il sistema dei partiti e l'equilibrio parlamentare, dunque, non hanno potuto non tener conto dei mutati equilibri geopolitici, storico-spirituali, culturali e demografici sui quali è nata e si regge la Berliner Republik, quella Repubblica di Berlino che assomiglia un po' di più a quella di Weimar e un po' di meno a quella di Bonn.

repertorio

La Germania da Kohl a Schröder

All'indomani dell'unificazione

Alla fine degli anni Ottanta, paradossalmente proprio alla vigilia delle celebrazioni per il 40° anniversario della sua fondazione, si manifestò la crisi che doveva portare al dissolvimento della Repubblica democratica tedesca: nell'estate 1989 la crescita inarrestabile delle fughe verso l'Ovest mise in evidenza le gravi difficoltà del paese, privo ormai di sostegni dall'Est, dal punto di vista sia economico sia politico, nel clima di grande trasformazione avviata in tutti le nazioni oltre cortina dalle riforme di Michail Gorbaciov in URSS. È impossibile dire se un tempestivo mutamento di rotta dei dirigenti del Partito di unità socialista (SED, Sozialistische Einheitspartei Deutschlands) e una rapida realizzazione di riforme avrebbero assicurato la sopravvivenza della Repubblica democratica; certo è che il ritardo con il quale avvenne il tentativo di revisione non giocò a suo favore. Quando nel novembre 1989 la pressione popolare costrinse all'estromissione di Erich Honecker, segretario generale della SED dal 1971 e capo dello Stato dal 1976, ebbe inizio una rapida quanto pacifica dissoluzione del vecchio sistema. Contrariamente alle aspettative del nuovo presidente del Consiglio Hans Modrow, che sperava di negoziare un'unificazione concordata con la Repubblica federale per salvaguardare la specificità della Repub-blica democratica, Bonn, per bocca del cancelliere Helmut Kohl, non lasciò sussistere alcun dubbio che qualsiasi aiuto alla Germania orientale era subordinato alla prospettiva di un suo rapido assorbimento nelle strutture statali della Repubblica federale: non della fusione di due Stati si sarebbe trattato, ma del dissolvimento di uno all'interno dell'altro.

L'apertura del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, e l'avvio della libera circolazione tra le due Germanie diede inizio al processo di unificazione, che formalmente si compì il 3 ottobre 1990. La definizione con le Quattro Potenze (gli alleati della Seconda guerra mondiale: Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Unione Sovietica), e in particolare con l'Unione Sovietica, del nuovo statuto internazionale della Germania, in sostituzione di fatto di un trattato di pace che non era mai stato concluso, fu il presupposto fondamentale dell'unione politica, eseguita tecnicamente, tramite l'art. 23 della Costituzione della Repubblica federale, come accessione dei cinque Länder orientali ripristinati. Il 2 dicembre dello stesso 1990 fu eletto il primo Parlamento della Germania unita. Il voto segnò un duplice plebiscito per l'unità e per il governo di Bonn, guidato da Helmut Kohl, a capo dell'esecutivo tedesco occidentale ininterrottamente dal 1982 e principale fautore del processo di unificazione, nonostante non mancassero riserve nella popolazione di entrambe le parti del paese, generate all'Ovest dal timore di compromettere il benessere raggiunto, all'Est dalla sfiducia in una rapida ripresa dell'economia e dalla paura di rimanere a lungo cittadini di seconda classe.

Di fatto economicamente la Germania occidentale, che grazie a un periodo di boom prolungato aveva raggiunto il record dell'occupazione con circa due milioni di nuovi posti di lavoro, si trovava in condizioni particolarmente favorevoli per affrontare la nuova situazione. Il volume dell'economia tedesco-orientale invece non superava l'ottava parte di quella federale. L'avvio economico dell'unificazione smentì gli allarmisti a Occidente ma si rivelò assai più arduo del previsto a Est. La permanenza di molto personale della vecchia burocrazia, l'inaspettato grado di distruzione dell'ambiente, l'irrisolta questione delle proprietà in vario modo espropriate (per lo più sotto il regime socialista, ma anche precedentemente, sotto il regime nazista e poi sotto l'amministrazione sovietica del 1945-49) e ora da restituire agli ex proprietari oppure da compensare, i livelli stabiliti dai nuovi contratti salariali e, soprattutto, le indiscriminate garanzie d'occupazione ostacolarono considerevolmente nel periodo 1990-92 l'auspicata rapida ripresa dell'economia. Le nuove condizioni interne ed esterne contribuirono a trasformare la vecchia disoccupazione latente (camuffata secondo la prassi delle economie socialiste in una manodopera pletorica, poco produttiva, sottoutilizzata quando non fittiziamente occupata) in disoccupazione palese: malgrado l'impiego di molteplici interventi sul mercato del lavoro - dalla riqualificazione al prepensionamento, al lavoro a orario ridotto - nei nuovi Länder nel 1992 il tasso di disoccupazione salì al 15%. I costi del cambiamento, pur risultando alti, non provocarono il collasso sociale, ma la ricostruzione economica, faticando a sviluppare una dinamica autopropulsiva, continuò a richiedere un gigantesco trasferimento di risorse dall'Ovest, impiegate non solo negli investimenti, bensì per circa la metà negli stessi consumi (in particolare spese sociali, amministrazione pubblica, settore dei trasporti). Le spese di trasferimento ammontarono nel 1991 a 140 miliardi di marchi, per salire a 180 miliardi nel 1992, quando un quarto del bilancio federale fu consacrato ai nuovi Länder.

Non meno gravi dei problemi economici apparivano i problemi sociali e di ancora più difficile soluzione quelli riguardanti il risanamento istituzionale, dall'amministrazione pubblica alla magistratura, all'università. I sospetti sollevati su una cerchia assai larga di persone dai dossier della Stasi (Staatssicherheit), la polizia segreta della ex Repubblica democratica, oltre a costringere numerosi uomini politici risultati compromessi a mettersi da parte, dettero luogo a un lacerante processo di ricerca della verità e di epurazioni. La difficile ridefinizione della propria identità e i rapporti, spesso delicati, fra tedeschi ex occidentali ed ex orientali; i gravi problemi sociali che a Est accompagnarono il passaggio dall'economia comunista a un'economia di mercato; i timori di cospicui settori della società della Germania occidentale, disorientati per le oscillazioni della condotta del governo dopo l'unificazione e preoccupati delle prospettive economiche: tutto ciò creò nei primi anni Novanta, in ambedue le parti del paese, un clima di incertezza e di precarietà. Nell'opinione pubblica il tema degli Asylanten (profughi e immigrati dall'Est europeo e dai paesi afro-asiatici) coagulò ogni sorta di timori e di risentimenti, economici, sociali, culturali, politici, dando luogo a esplosioni di xenofobia. Numerose manifestazioni, con violenze contro gli immigrati e distruzione delle residenze loro concesse dai poteri pubblici, si ebbero soprattutto in alcune città orientali, dove si verificarono duri scontri fra neonazisti e forze dell'ordine.

Le difficoltà del processo di unificazione portarono il governo guidato da Kohl a privilegiare i problemi di ordine interno, limitando l'azione della Germania sulla scena internazionale, tanto più che una disposizione costituzionale sembrava impedire l'intervento delle forze armate federali in paesi non appartenenti alla NATO. Tuttavia già nel 1991 la guerra del Golfo e successivamente, e con maggiore urgenza, le crisi nell'ex Iugoslavia e in Somalia posero il problema di un rinnovato ruolo del paese nel consesso mondiale. Al termine di un acceso dibattito politico, il Bundestag autorizzò la partecipazione al blocco navale contro Serbia e Montenegro (luglio 1992), l'invio di aerei in Bosnia (marzo 1993) e l'adesione alla missione dell'ONU in Somalia (aprile 1993). Nel luglio 1994, infine, la Corte costituzionale dichiarò compatibile con il Grundgesetz (la Legge fondamentale della Repubblica federale, poi divenuta, con poche variazioni, Carta costituzionale della Germania unita) l'impegno militare al di fuori della NATO, purché di volta in volta sottoposto all'approvazione del Bundestag. Nello stesso tempo, la linea essenziale della politica estera della nuova Germania veniva contrassegnata dall'impegno europeistico, ancora rafforzato, se possibile, rispetto al passato: dal sostegno all'unificazione politica - a cominciare dalla rivendicazione di maggiori competenze per il Parlamento europeo - all'adesione, nonostante le molte opposizioni e perplessità anche dagli ambienti della Banca federale, al Trattato di Maastricht (febbraio 1992) e al progetto dell'Unione economica e monetaria (UEM), con la creazione di una Banca centrale europea.

Tra il 1992 e il 1993 alla recessione che colpì duramente l'economia del paese si rispose con tagli alle spese, a partire da quelle sul personale, adottate dalle imprese più importanti in accordo con i sindacati, e con una rigorosa politica economica governativa che, a prezzo di pesanti sacrifici, sembrò assicurare al paese le condizioni richieste per aderire all'UEM. Sul piano politico, la pressione dell'opinione pubblica impose, d'altro canto, l'adozione di una serie di misure per contenere le tensioni sociali che l'unificazione aveva acuito: nel novembre-dicembre 1992 furono bandite numerose organizzazioni neonaziste, nel maggio 1993 vennero posti limiti alla concessione del diritto d'asilo e l'anno successivo furono inasprite le pene contro gli atti di violenza razzista.

Nonostante le evidenti difficoltà, la CDU (Christlich-Demokratische Union) e il suo leader Kohl sembravano godere di una solida base di consenso. Negli appuntamenti elettorali amministrativi del 1994 il partito democristiano registrò un lieve calo di suffragi, mantenendo comunque la maggioranza dei voti, i Verdi (Bündnis 90/Die Grünen) e la PDS (Partei des Demokratischen Sozialismus, erede del Partito comunista della Repubblica democratica tedesca) si rafforzarono, mentre la SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands) conseguì un significativo successo a livello di Land (per es. in Bassa Sassonia sfiorò la maggioranza assoluta) a fronte di una grave contrazione dell'elettorato liberale della FDP (Freie Demokratische Partei). Una conferma per Kohl giunse dalle elezioni europee del 12 giugno 1994, quando la coalizione CDU/CSU (Christlich-Soziale Union, l'equivalente bavarese della CDU) si affermò come la prima forza del paese; oltre a essa, solo la SPD e i Verdi riuscirono a varcare la soglia del 5% necessaria per entrare nel Parlamento europeo. Il peso politico della CDU fu d'altronde ribadito anche dall'elezione del nuovo presidente della Repubblica: nel luglio 1994 a Richard von Weizsäcker (CDU), presidente federale dal 1984, successe l'ex presidente della Corte costituzionale Roman Herzog, anch'egli della CDU. L'8 settembre di quell'anno gli ultimi contingenti militari inglesi, francesi e statunitensi lasciarono Berlino, destinata a diventare la capitale della nuova Germania.

Il tramonto dell'era Kohl

Il 16 ottobre 1994 si tennero per la seconda volta dall'unificazione le elezioni legislative, che riaffermarono il primato della coalizione formata dalla CDU/CSU e dall'FDP nei confronti dell'alleanza di SPD e Verdi, evidenziando tuttavia un calo dei partiti di governo, soprattutto dei liberali, a fronte di una sostanziale ripresa del fronte avversario. La PDS, facendo leva sul malcontento verso una politica economico-sociale che sembrava dimenticare le ragioni dei Länder orientali, riuscì a entrare nel Bundestag grazie all'oltre 17% delle preferenze ottenuto all'Est. Nel novembre Kohl fu rieletto cancelliere, ma il margine della sua maggioranza si limitava a soli dieci voti.

Il nuovo governo Kohl si trovò a dover fronteggiare una situazione socioeconomica fondamentalmente critica. Nel 1995 i problemi economici apparentemente risolti dal risanamento finanziario del 1994 si riproposero, con un forte calo dell'occupazione e della produzione industriale. Nel febbraio, dopo aver accettato le restrizioni del 1994, i sindacati dei lavoratori metallurgici proclamarono il primo sciopero dopo undici anni, ottenendo un aumento dei salari e una diminuzione dell'orario di lavoro. Incoraggiato dai positivi risultati delle consultazioni regionali in Baden-Württenberg, Renania-Palatinato e Schleswig-Holstein (marzo 1996) e vedendo ancora lontane le elezioni politiche del 1998, Kohl annunciò un programma di austerità per il 1997, mirato a portare il deficit al di sotto del 3% in modo da adeguarsi ai canoni richiesti per l'ingresso nell'Unione monetaria. Denunciando una situazione d'emergenza, il piano introduceva una serie di misure che, riducendo il costo del lavoro, avrebbero dovuto favorire la ripresa: finanziamenti per le attività a rischio e le innovazioni, drastico contenimento della spesa pubblica, semplificazione e riduzione della fiscalità, dure restrizioni in materia previdenziale e della sanità pubblica.

Accusato dall'opposizione e dai sindacati per il suo carattere antisociale e approvato in un clima di forte tensione (con scioperi e proteste, culminate in un'imponente manifestazione a Bonn, nel giugno 1996), il piano governativo non dette i risultati sperati. In questo contesto, la prospettiva dell'Unione economica e monetaria europea diventava sempre meno popolare. La SPD, e in particolare l'ala guidata dal leader della Bassa Sassonia, Gerhard Schröder, si dimostrava scettica nei confronti di una trasformazione che rischiava di avere come prezzo lo smantellamento dello Stato sociale. Su un diverso versante, la Bundesbank e il suo governatore Hans Tietmeyer assunsero una posizione ancora più pericolosa per il governo, indicando nell'ingresso nella UEM una minaccia alla stabilità del paese e auspicandone la posticipazione. Kohl reagì violentemente, condannando l'ingerenza della Banca federale nelle azioni del governo, e respinse qualunque ipotesi di rinvio, ritenendo imprescindibile un varo puntuale dell'euro.

Mentre il cancelliere annunciava la sua intenzione di ricandidarsi nelle politiche del 1998, la SPD scelse Schröder come candidato alla cancelleria al posto del più ortodosso e meno carismatico presidente Oskar Lafontaine. Schröder assunse una posizione innovativa rispetto alla tradizione del partito d'origine. Con una campagna condotta su toni moderati e tranquillizzanti, si rivolse a un elettorato stanco delle difficoltà dell'ultimo decennio, ma cauto nel suo bisogno di cambiamento: un elettorato certamente formato dalle fasce sociali economicamente più colpite, ma costituito anche da larghe parti della classe media, ancora immuni dalle conseguenze della crisi e tuttavia impaurite dall'eventualità di subirle. Schröder, per via delle sue passate resistenze prima a un processo di unificazione del paese troppo rapido e poi all'ingresso nella UEM, rappresentava un referente per la maggioranza benestante, ormai critica verso Kohl in nome della stabilità del marco contro i pericoli dell'euro e decisa a difendere la propria condizione sociale contro i costi sempre più elevati dell'unificazione.

La coalizione rosso-verde

Nonostante il programma socialdemocratico affrontasse con una sostanziale vaghezza temi fondamentali come quello della partecipazione o della protezione sociale e nonostante in caso di vittoria fossero prevedibili le difficoltà di un'alleanza governativa tra Verdi e SPD (gli ecologisti chiedevano, su una linea molto più dura dei socialdemocratici, un rapido abbandono del nucleare, una forte tassa ecologica sui carburanti, facilitazioni all'accesso alla cittadinanza per i cittadini stranieri), il partito di Schröder vinse le elezioni (settembre 1998). La SPD conquistò il 40,9% dei voti, la CDU/CSU il 35,2%, i Verdi il 6,7%, il PDS il 5,1%.

Il governo di coalizione tra socialdemocratici e Verdi, formato da Schröder nell'ottobre 1998, incontrò nel primo anno grandi difficoltà non solo per i contrasti tra i due partiti, soprattutto in materia di politica ambientale e nucleare, ma anche per la non facile convivenza, all'interno di SPD e Verdi, di correnti tra loro contrapposte. Dopo la sconfitta di entrambi i partiti nelle elezioni regionali in Assia, forti tensioni tra le forze politiche scoppiarono in occasione dell'intervento militare in Iugoslavia (marzo-giugno 1999). Nel marzo 1999 Lafontaine si dimise dalla carica di ministro delle Finanze, di presidente della SPD (al suo posto venne eletto il mese successivo Schröder) e di deputato, accusando Schröder di eccessiva moderazione nella politica sociale ed economica. Nel maggio il Parlamento approvò, contro l'opposizione della CDU, una legge in materia di immigrazione che attribuiva, a partire dal 1° gennaio 2000, la cittadinanza tedesca a tutti i nati da genitori immigrati residenti nel paese da almeno otto anni e in possesso di un permesso di soggiorno illimitato.

La presenza della SPD sulla scena politica del paese fu rafforzata nel maggio 1999 dall'elezione del socialdemocratico Johannes Rau alla presidenza della Repubblica e, nel settembre dello stesso anno, dalla nomina di Ernst Welteke, anch'egli esponente del maggior partito di governo, alla direzione della Bundesbank, in sostituzione del democristiano Tietmeyer. Con il 2000, la posizione di Schröder sembrò rafforzarsi. I contrasti tra SPD e Verdi sul nucleare trovarono una prima soluzione nell'accordo tra governo e industrie che, raggiunto dopo un lunghissimo iter negoziale nel giugno 2000, limitava a 32 anni la vita di ciascuna delle diciannove centrali atomiche tedesche (la chiusura dell'ultima era perciò prevista per 2021). Il governo raggiunse altri importanti successi sul piano della politica sociale. Nel gennaio 2000 imprenditori e sindacati sottoscrissero un Patto per il lavoro che introduceva il criterio della produttività come misura dei livelli retributivi assieme al principio della flessibilità nelle rivendicazioni sindacali, consentiva l'intervento dell'esecutivo sulle richieste sindacali e poneva fine all'inderogabilità della soglia dei 60 anni per l'età pensionabile. Nel luglio dello stesso anno il Parlamento approvò la riforma che riduceva il carico fiscale di famiglie e imprese e aboliva le imposte sui capital gains derivati dalla vendita di quote di capitale di società tedesche. Nel dicembre, infine, Schröder ottenne l'assenso dei sindacati al suo progetto di riforma del sistema pensionistico, progetto peraltro fortemente attaccato dall'opposizione e dall'ala sinistra della stessa SPD.

Sul finire del 1999 la CDU, per parte sua, fu investita da un grave scandalo che coinvolse in prima persona Kohl, accusato di aver violato la legge sul finanziamento dei partiti. L'ex premier ammise l'esistenza di fondi neri, rifiutandosi però di rendere noti i nomi dei donatori. Chiamato in causa, nel febbraio 2000 si dimise anche il presidente del partito Wolfgang Schäuble e al suo posto fu eletta Angela Merkel (aprile 2000).

Nel maggio 2001 il Parlamento approvò la riforma pensionistica. Nell'ottobre dello stesso anno la SPD ottenne nelle elezioni regionali di Berlino la maggioranza relativa dei voti e diede vita a una nuova coalizione con la PDS. Sul piano nazionale, il malcontento suscitato nel corso del 2002 dalla grave crisi economica che aveva investito la Germania, spostando verso l'alto il tasso di disoccupazione, sembrava destinato a pesare negativamente sulla coalizione rosso-verde. Alla vigilia delle elezioni politiche del settembre 2002, molti davano per favorita la coalizione avversaria, guidata da Edmund Stoiber, presidente della Baviera e leader della CSU. I risultati delle urne assegnarono la stessa percentuale, il 38,5%, a SPD e a CDU/CSU, mentre la netta affermazione dei Verdi, che guadagnavano quasi due punti percentuali attestandosi all'8,6%, e superando così il 7,4% raggiunto dalla FDP, garantiva a Schröder la conferma nel ruolo di cancelliere.

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