CAMPORA, Giacomo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 17 (1974)

CAMPORA (Canfora), Giacomo

Roberto Zapperi

Nacque a Genova in data imprecisata, probabilmente agli inizi del sec. XV. Entrato nell'Ordine domenicano, studiò a Oxford e conseguì il grado di magister theologiae. Di ritorno a Genova fu accolto nei conventi domenicani di S. Domenico e di S. Maria di Castello e presto si segnalò per buona preparazione teologica, attitudine alla predicazione, energia del carattere e vasta esperienza delle cose del mondo. Non gli dovette riuscire difficile richiamare su di sé l'attenzione delle autorità genovesi che solevano affidarsi ai domenicani della città per il governo della diocesi di Caffa, la colonia taurica di vitale importanza per i traffici genovesi in quella regione.

Il 9 genn. 1440 la sua nomina fu sollecitata dal doge Tommaso Campofregoso al papa Eugenio IV con una calda raccomandazione che vantava i meriti del candidato e ne sottolineava la buona conoscenza delle lingue parlate nella lontana diocesi del Mar Nero. Questa circostanza, che venne ricordata anche nelle altre lettere ufficiali indirizzate nello stesso torno di tempo al Sacro Collegio e alle autorità di Caffa, lascia supporre che il C. avesse avuto in precedenza contatti di qualche rilievo con l'Oriente. Non basta però a conferire attendibilità all'identificazione proposta dall'Eubel con uno Iacobus, anch'egli domenicano, nominato vescovo di Cambalien in Cina il 2 ott. 1426 e "dictus Italianus de Capha". È difficile infatti spiegare il silenzio dei documenti genovesi su un requisito, quello di vescovo di Cambalien, che avrebbe rafforzato più di ogni altro la candidatura proposta. Certo è solo che la designazione alla cattedra vescovile di Caffa richiedeva il possesso di comprovate attitudini pastorali, seria capacità di governo e sicura esperienza dei delicati rapporti con le chiese greca e armena. La richiesta genovese fu comunque esaudita e il 23 genn. 1441 il C. fu nominato vescovo di Caffa.

Non è noto quando prese possesso della diocesi. Allorché vi giunse, s'impegnò nell'opera di attuazione dei decreti del concilio di Firenze che il pontefice gli aveva raccomandato, non senza incontrare difficoltà. Allo stato attuale della documentazione non è possibile precisare la natura di esse. Doveva trattarsi però dei rapporti con il patriarcato degli Armeni, come lascia desumere una lettera indirizzatagli da Eugenio IV nel 1445. Il C. replicò annunciando il proposito di venire personalmente a Roma per dare spiegazioni verbali alla Curia. Si mise così in viaggio, passando per la città di Costantinopoli, dove ricevette le dimissioni di frate Domenico, rettore della chiesa di S. Michele di Pera. Dopo una seconda tappa nell'isola di Lesbo, si diresse a Genova e vi si trattenne tanto da costringere il papa a inviargli in data del 13 dic. 1446 una nuova lettera per ricordargli i suoi doveri pastorali e le ragioni addotte per giustificare il viaggio in Europa. Di questo ammonimento pontificio il C. non dovette darsi per inteso, se nel luglio del 1447 era ancora a Genova, impegnato in un processo inquisitoriale contro certe donne arrestate e detenute sotto l'accusa di veneficio, incantesimi ed eresia, che condusse in porto con molto buon senso. Successivamente dovette rientrare nella sua diocesi, nella quale però non sembra che amasse troppo risiedere, se nel 1449 è attestata di nuovo la sua presenza a Genova, mentre una bolla pontificia, del 9 giugno 1450 lo suppone invece in Oriente.

Vi era sicuramente nel 1451, quando il doge Pietro Campofregoso si rivolse al papa con una lettera del 22 ottobre per lamentare l'inosservanza dei doveri pastorali, l'effetto controproducente della politica ecclesiastica adottata nei confironti delle altre confessioni cristiane e chiedere risolutamente la sua sostituzione nel vescovato di Caffa con altro ecclesiastico genovese "qui gentem eam regere et melioribus moribus imbuere sciat". L'accenno ai buoni costumi non era casuale e rimandava sicuramente agli intrighi orditi dal C. e ai suoi conflitti con le autorità caffensi largamente documentati per gli anni successivi. Non è da escludere tuttavia il riferimento a un'attività del C., certamente poco lodevole e del tutto incompatibile con la sua dignità episcopale, attestata da un documento del 13 maggio 1451 che ricorda il caso di una schiava "appodixata et sive arembata reverendo domino episcopo Caffe in partibus orientalibus" e consegnata a un tal genovese. I rapporti del C. con la Curia romana dovevano essere però notevolmente migliorati in questi anni, visto che la richiesta genovese restò senza seguito. Né maggiori risultati conseguì l'invio a Roma nell'ottobre del 1452 del diplomatico Gottardo Stella, che non riuscì a ottenere la sua sostituzione. Il C. seppe mantenere la sua cattedra episcopale con il favore della Curia, per conto della quale eseguì nel 1453 una missione presso il patriarca armeno di Sis, Gerabied.

Nel 1454 il passaggio della colonia di Caffa dal dominio diretto della Repubblica sotto l'amministrazione del Banco di S. Giorgio sembrò offrire al C. l'occasione migliore per sgominare i suoi avversari locali. Ormai in aperta polemica con le autorità genovesi, il 7 ag. 1454 egli indirizzò ai protettori del Banco una lettera per felicitarli dell'avvenimento e attaccare contemporaneamente i notabili genovesi di Caffa che accusò di inettitudine e malversazioni. Il principale bersaglio era il console della città Demetrio Vivaldi che avrebbe seguito una inetta politica rinunciataria nei confronti dei Tartari, soggiacendo con estrema viltà ai loro continui ricatti con il versamento di tributi tanto ingenti quanto inutili. Di lui il C. chiedeva l'immediata destituzione. A Genova però non esisteva alcuna seria propensione a dare credito alle sue accuse, tanto che al C. toccò ribadirle ancora l'anno successivo in una nuova lettera dell'8 giugno 1455 ai protettori, nella quale sconfessava anche le accuse infamanti, ma non meglio precisate, mossegli contro dai mercanti di Caffa e annunciava il proposito di presentarsi personalmente per discolparsi. Non tralasciò infine di accennare all'interesse della Curia per le vicende del vescovato di Caffa e alla minaccia di un intervento romano in suo favore. Aveva già lasciato la diocesi da alcuni mesi, sicuramente prima del 25 marzo 1455, quando il governo della diocesi risulta affidato alle cure del vescovo di Cembalo, Bartolomeo Capone, nominato dal C. suo luogotenente. Da questo nuovo viaggio egli non doveva più ritornare a Caffa.

Il 6 sett. 1455 il console e i massari della colonia taurica scrissero intanto ai protettori per controattaccare il C., accusandolo a loro volta di molestare i mercanti armeni utilissimi al commercio di Caffa, con la pretesa di imporre l'osservanza di taluni precetti cattolici estranei alla loro confessione. Concludevano con la richiesta di sostituirlo al più presto con un ecclesiastico meno zelante e più adatto al governo di una diocesi tanto difficile. La stessa richiesta presentarono i quattro borghesi di Caffa con una lettera di ugual data. I protettori risposero al C. il 10 ottobre per assicurarlo di non dare ascolto alle accuse dei suoi avversari, ma anche per invitarlo formalmente a lasciare in pace Greci e Armeni, moderando l'inopportuno zelo pastorale. Ma alla data di questa lettera il C. era già in Italia: passando per Mitilene si era diretto infatti a Roma per conferire con il papa Callisto III, dal quale ottenne con tutta probabilità assicurazioni di appoggio nel conflitto con le autorità civili di Caffa. Il papa gli dovette conferire anche l'incarico di una missione presso la corte imperiale in relazione ai gravi avvenimenti maturati in Oriente in conseguenza dell'inarrestabile espansione turca. Prima di eseguirla il C. fece una puntata a Genova, dove sicuramente gli riuscì di scongiurare il pericolo della sostituzione nel vescovato di Caffa con relativa facilità.

Nel febbraio del 1456 risulta a Graz, dove pronunziò alla presenza dell'imperatore Federico III un'orazione latina che si conserva nel codice Latino 4322 della Österreichische Nationalbibliothek di Vienna (Oratio sive collatio predicta facta est coram invictissimo Cesare Romanorum imperatore Friderico tercio in Graetz die prima februarii anno Domini 1456 per dominum Iacobum Campora in sacra theologia professorem ac Dei et Apostolica sedis gratiam episcopum Caffensem). A nome dei vescovi dell'Oriente, egli implorò una sollecita conclusione della pace con il re Ladislao di Ungheria per muovere insieme contro il Turco già da tre anni padrone di Costantinopoli. La missione ebbe l'insuccesso di prammatica riservato agli inviati pontifici ogni qual volta chiedevano ai principi cristiani di lasciar tacere i loro particolari interessi per collegarsi nell'eterna crociata contro il Turco.

Il C. ritornò a Genova, dove la sua presenza è attestata nel settembre del 1457 e vi restò fino alla morte sopraggiunta qualche anno dopo, probabilmente prima del 21 maggio 1459, data della nomina del nuovo vescovo di Caffa nella persona del domenicano genovese Gerolamo Panissaro. Un documento del 21 luglio 1459 accenna al C., qualificandolo ancora come vescovo di Caffa, ma senza precisare se era già morto, come è lecito supporre.

In gioventù il C. aveva scritto un trattatello in volgare sull'immortalità dell'anima che ebbe larga diffusione in manoscritti e stampe per tutta la seconda metà del Quattrocento. La prima edizione a stampa fu dovuta alle cure di Giovanni Filippo de Lignamine (Dell'immortalità dell'anima, Roma 1472) e fu seguita da varie altre a Milano nel 1475, a Vicenza nel 1477, a Cosenza nel 1478, a Venezia nel 1494, ancora a Milano nel 1497 e di nuovo a Venezia nel 1498, a Brescia nello stesso 1498. Nel 1472, l'amo stesso della prima edizione, il conte padovano Naimero de Conti ne offrì un esemplare manoscritto al duca di Ferrara Ercole d'Este, presentandola come "cosa catolica et autentica et al mio picolo giudicio assai speculativa". Autenticamente cattolico il trattatello lo era di certo, "assai speculativo" certamente no. Si tratta infatti di un'opera di modesto impegno dottrinale, concepita con intenti scopertamente divulgativi e di mera edificazione. Con essa è stata identificata di recente l'opera intitolata De immortalità d'anima che figura in un elenco di libri posseduti da Leonardo. Ovvio che in essa, se mai la lesse, difficilmente poteva trovare qualcosa di interessante.

Fonti e Bibl..: Codice diplomatico delle colonie Tauro-liguri durante la signoria dell'ufficio di San Giorgio (MCCCCLIII-MCCCCLXXV), a cura di A. Vigna, in Atti della Società ligure di storia patria, VI (1868), pp. 62, 65 s., 87 ss., 203 ss., 311 ss., 364 ss., 368 ss.; Acta Camerae Apostolicae et civitatum Venetiarum, Ferrariae, Florentiae, Ianuae de Concilio Florentino, III, a cura di G. Hofmann, Roma 1950, pp. 101 s.; A. Vigna, I vescovi domenicani liguri ovvero in Liguria, Genova 1887, pp. 141-53; R. Loenertz, La société des frères péregrinants. Ètude sur l'Orient dominicain, Roma 1937, pp. 114 ss.; C. Dionisotti, Leonardo uomo di lettere, in Italia medioevale e umanistica, V (1962), pp. 195-188; G. G. Musso, Politica e cultura in Genova alla metà del Quattrocento, in Miscellanea di storia ligure in onore di Giorgio Falco, Milano 1962, p. 323; Id., Iltramonto di Caffa genovese, in Misc. di st. ligure, V (1966), pp. 331-38; C. Eubel, Hierarchia catholica, I, Monasterii 1913, p. 160; II, ibid. 1914, p. 117; Gesamtkatalog der Wiegendrucke, VI, coll. 84-88.

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