Leopardi, Giacomo

Enciclopedia Dantesca (1970)

Leopardi, Giacomo

Domenico Consoli

Nel giudizio fondamentalmente negativo che il compilatore della Crestomazia poetica ancora manteneva tra il 1827 e il 1828 intorno alla letteratura italiana dei secoli precedenti il decimoquinto, ricchi di rime ma privi di poesie, si isolano come uniche eccezioni D. e Petrarca, e se del secondo è reperibile a prima vista la continua e attiva presenza nei Canti, l'importanza del primo non è forse minore per quanto attiene alla formazione della coscienza etica e alla meditazione storica del L., con non trascurabili riflessi in campo linguistico e stilistico.

È noto che in un primo momento il giovanissimo L., attratto dalle " massime moderne " dei Francesi, ebbe in dispregio Omero, D. e tutti i classici (cfr. la lettera al Giordani del 30 aprile 1817). Ma in una postilla all'Appressamento della morte (1816) egli già c'informa che quel componimento segue a una lettura di D., e del piacere intenso provato sui testi di Omero, Virgilio e D. fa cenno nella lettera al Giordani sopra citata. Al 1817 appartiene una prima conquista critica, per la verità non originale, poiché l'accostamento di D. a Omero, a cui si allude, era motivo comune nella saggistica del secondo Settecento. Pertanto più che dal Preambolo alla volgarizzazione della Titanomachia di Esiodo, dove il parallelo è per la prima volta istituito, la nostra attenzione sarà richiamata dal Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818), che il parallelo ripete, ma che meglio caratterizza l'arte dantesca a specchio del gusto ovidiano: analitico e freddo descrittore, Ovidio; tutto il contrario D. " in quanto con due pennellate vi fa una figura spiccatissima, così franco e bellamente trascurato che appena pare che si serva delle parole ad altro che a raccontare o a simili usi ordinari, mentreché dipinge superbamente, e il suo poema è pieno d'immagini vivacissime " (v. la più tarda pagina dello Zibaldone, 2523, 29 giugno 1822, che riprende e approfondisce il giudizio). Osservazioni nemmeno queste del tutto nuove, ma che vanno disponendosi in direzione di un personale sentire e sembrano ispirate dall'ideale di una poesia di tipo primitivo, prevalentemente affidata alla forza dell'immaginazione (cfr. Zibaldone p. 152, 5 luglio 1820), tutta fervore e slancio di affetti, non aduggiata da eccessiva cura d'arte, né da eccessiva dottrina. Per il L. di questa stagione D. e Omero - ma ai due si aggiunge talora anche Ariosto (cfr. Zib. p. 4), sapientissimi certo fra gli antichi e superiori anche alla massima parte dei moderni - ebbero tuttavia cognizioni piuttosto ‛ materiali ' e ‛ fisiche ' che ‛ filosofiche ' e ‛ matematiche ', videro gli effetti invece che le cause dei fenomeni, cosa che non nocque alla " fecondità e varietà dell'immaginativa, alla proprietà evidenza ed efficacia della imitazione " (Zibaldone p. 231, 5 settembre 1820; v. anche p. 57). Il successivo progresso dei ‛ lumi esatti ', della regolarità della lingua, e forse il passaggio dalla forma repubblicana dei comuni ai regimi monarchici, compromisero l'originalità e la facoltà creatrice della letteratura italiana, " originalità finita con Dante e Petrarca, cioè subito dopo la nascita di essa letteratura " (p. 392, 8 dicembre 1820). In tal modo il L. interpreta l'arte dantesca alla luce delle proprie idee e della propria poetica, immettendola nella dialettica natura-ragione: D., sollevato al livello perfetto di poeta ‛ naturale ', ‛ incorrotto ' dalla civiltà scientifico-razionale, diviene nella visione leopardiana un ‛ mito ', un exemplum; la sua personalità storica soggiace alle esigenze del ‛ sistema ', si conforma alle imperiose ragioni di un pensiero che ancora crede, pur con qualche sospetto, al potere benefico della natura.

In fondo anche il protagonista della canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze (1818) è un ‛ mito ' chiamato a simboleggiare l'altra idea cardine del mondo leopardiano, quella della decadenza dei costumi moderni rispetto agli antichi. Nella canzone D. incarna la misura più alta del genio italiano, rappresenta il prototipo di quella " schiera infinita d'immortali " ai quali per il corrompersi della storia è succeduta una prava genia di " figli sonnacchiosi ed egri ". L'autore della Commedia è di conseguenza celebrato ed evocato a scuotere la miseria dei tempi perversi, sia come poeta, sia come patriota: " O glorioso spirto, / Dimmi: d'Italia tua morto è l'amore? / Di': quella fiamma che t'accese, è spenta? ". Anzi la seconda qualifica prevale sulla prima, e la gloria poetica di D. è essa stessa richiamata nel più vasto ambito delle virtù etico-politiche, quale coefficiente di civiltà: " colui per lo cui verso / Il meonio cantor non è più solo " è anche " quello per la cui virtude " Firenze continua a godere l'onore del mondo, il modello illustre di umanità, al quale è sperabile che qualcuno possa ancora assomigliare " in qualsivoglia parte ". Del fiero poeta il L. fa sostegno al suo agonismo pratico, tuttora fiducioso di sconfiggere il fato e incidere sugli eventi: " Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio ".

Ma nella canzone Ad Angelo Mai (1822), parallelamente all'incupirsi della propria concezione delle cose, pur proiettando D. in tempi ancora lontani dalla rovina d'Italia e sdegnosi di ozio turpe, e presentandolo con gli energici connotati morali di " non domito nemico / Della fortuna, al cui sdegno e dolore / Fu più l'averno che la terra amico ", ne attrae la memoria e l'opera in un'interna e dolorosa meditazione: " L'averno: e qual non è parte migliore / Di questa nostra? ", dov'è chiaramente visibile quel metro di scoramento, di pessimismo assoluto con il quale il poeta giudica ormai la realtà e la storia.

Al di fuori di questa mitologia poetica il L. torna più volte a D. nei suoi appunti zibaldoneschi, mettendone soprattutto in rilievo le conquiste linguistiche: al grande Fiorentino spetta il merito di avere introdotto " nel quasi creare la lingua nostra " coraggiosi composti, come ‛ indiare ', ‛ intuare ', ‛ inmiare ', ‛ disguardare ', " massime con preposizioni, avverbi e particelle " (p. 762, 8-12 marzo 1821); diversamente da Petrarca e Boccaccio che scrissero " per passatempo ", solo D. fra gli autori trecenteschi " ebbe intenzione, scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura " e ciò rese manifesto nei programmi teorici e nell'impegno pratico con cui affrontò la grande impresa del poema sacro " dov'egli trattò le materie più gravi della filosofia e teologia ", e l'altra non meno ardua del Convivio, " opera tutta filosofica, teologica, e insomma dottrinale e gravissima " (pp. 1525-1526, 19 agosto 1821); per attuare i suoi intenti osò prendere la " linguaccia greggia e informe dalle bocche plebee " e innalzarla alle materie più sublimi, anche " in onta delle convenienze e buon gusto poetico " (p. 1995, 26 ottobre 1821); attinse parimente dalla letteratura provenzale e fece largo uso di barbarismi, riuscendo, attraverso tali " pellegrini ", elegante (pp. 2506-2507, 29 giugno 1822); accortosi insomma quanto convenisse il volgare all'avanzare dei costumi, lettere e filosofia dopo il risorgimento degli studi, sollevò la parlata popolare alla dignità di lingua illustre, sostituendola alla latina in un'opera classica " appartenente a ogni genere di letteratura ", e con ciò dette l'esempio, additò lo scopo, infuse coraggio agl'Italiani (pp. 3338-3340, 2 settembre 1823).

Altre notazioni si riaccostano alla linea di una sensibilità soggettiva, come quella che, svolgendo precedenti spunti, riconosce in D. un'immaginativa profonda, fervida e tempestosa, " funestissima dote, e principio di sollecitudini e angosce gravissime e perpetue " (Elogio degli uccelli, 1823), o quella che registra le diverse reazioni del poeta di fronte alle tombe di D. e Tasso, dove si precisa con accenti fermissimi il tema tipicamente leopardiano di un titanismo ormai tutto spostato dal campo dell'azione alla dimensione intima dell'intrepidezza contro il cieco destino: " noi veggiamo in Dante un uomo d'animo forte, d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità, col fato. Tanto più ammirabile certo, ma meno amabile e commiserabile " (Zibaldone, p. 4255, 14 marzo 1827). Chi guardi bene, scorgerà nell'appunto, complementare al tema del titanismo, il tema della pietà: proprio due fra gli atteggiamenti spirituali che copiosamente ispirano la poesia dei Canti: e non sembra un caso che l'appunto stesso coincida con l'aprirsi del più felice tempo lirico del L., come non sono certamente proposizioni vaganti e disperse, ma riflessi di attiva poetica, il ripudio del commento rossettiano alla Commedia, gravitante su una continua interpretazione allegorica che " distrugge tutto l'interesse del poema " (p. 4365, 2 settembre 1828) e la definizione della medesima Commedia quale lunga lirica " dov'è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti " (p. 4417, 3 novembre 1828; si ponga questa nota a riscontro con l'altra del 29 settembre 1823 dove il poema è detto misto di narrativo, dottrinale e morale).

Egualmente del 1828 è il riassunto del foscoliano Discorso sul testo della Commedia (pp. 4378-4388); ma sarebbero ancora da ricordare, in una ricerca di rapporti, tutte le suggestioni figurative e stilistiche esercitate dall'antico autore sul moderno: rimandando per la documentazione ai migliori commenti leopardiani, basti qui dire che la presenza dantesca nei versi del L. copre tutto l'arco dei Canti, sebbene sia più avvertibile nelle composizioni del periodo giovanile e in quelle di argomento civile.

Bibl. - G. Leopardi, Tutte le opere, a c. di F. Flora, Milano 1937-1949. Nella biblioteca Leopardi figuravano i seguenti testi danteschi: La D.C. col commento [supposto] di Benvenuto, Venezia 1477; Opere del Divino Poeta, ibid. 1520; L'amoroso Convivio, ibid. 1529; La Comedia... con la nova esposizione di A. Vellutello, ibid. 1544; Dante; con l'espositione di C. Landino et di A. Vellutello... ridotto alla sua vera Lettura, per F. Sansovino, ibid. 1564; Opere con la dichiarazione del senso della Commedia di autore anonimo, con le vite di D. e Petrarca di L. Aretino e con altre aggiunte, ibid. 1741; La D.C., con brevi note di P. Costa, Bologna 1826.

Sui rapporti fra L. e D.: E. Rota, D. nella mente del L., in Alessandro Manzoni, Scanzano-Castellammare di Stabia IX 2 (1901) 17-18; G. Natali, Viaggio col L. nell'Italia letteraria, Milano 1943; U. Bosco, Titanismo e pietà in G.L., Firenze 1957, 36; A. Vallone, La critica dantesca nell'Ottocento, ibid. 1958, 67-69; G.I. Lo Priore, G.L. storico della letteratura italiana, Lucca 1958; J.H. Whitfield, D. and L., in The Barlow Lectures on D., 1959 (suppl. a " Italian Studies " XV [1960] 32-48; trad. ital. in Atti del I Congresso Nazionale di studi danteschi, Firenze 1962, 106-116); P. Reffienna, D. vu par L., in " Bull. Société d'Etudes Dant. du C. U. M. " IX-X (1961) 77-97; I. Waki, D. e il L., in " Studi Italici " XIII (1964) 33-38; A. Frattini, L. e D., in " Scuola e cultura nel mondo " XLI (1965) 1-19; E. di Poppa Vòlture, in Il padre e i figli, Napoli 1970, 217-218; B. Lucrezi, D. nella poesia e nel pensiero di L., in D. e la cultura sveva, Firenze 1970, 357-375.

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