Leopardi, Giacomo

Dizionario di filosofia (2009)

Leopardi, Giacomo


Poeta e pensatore (Recanati 1798 - Napoli 1837).

La formazione

I primi studi letterari e filosofici di L., primogenito del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici, non tardarono a dimostrarne l’eccezionale precocità. Seguito inizialmente da precettori privati, s’immerse presto nella lettura dei classici, oltre che degli autori italiani, approfondendo la sua conoscenza del latino; apprese da solo il greco e l’ebraico; si dedicò a ricerche erudite e filologiche; compose versi e tradusse dalle lingue classiche (Orazio, Virgilio, Omero tra gli altri). L. si affermava intanto come filologo ed erudito. Nel 1817 strinse amicizia con P. Giordani, che conobbe dapprima solo per lettera e dal quale ricevette incoraggiamento a seguire la sua vocazione letteraria. Nel frattempo, innamoratosi di una cugina, scriveva l’elegia Il primo amore e compilava un diario in prosa sulla sua passione di adolescente. Da una passione civile e morale nascono invece le canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante, con le quali il giovane poeta prende apertamente posizione rispetto alle idee reazionarie del padre. Contro il progetto di Monaldo e dello zio materno, C. Antici, che lo destinava alla carriera ecclesiastica, andava maturando intanto la sua decisione di abbandonare Recanati e la famiglia. Nel 1819 un tentativo di fuga, facilmente scoperto, si risolse in un nulla di fatto e L. dovette desistere. Solo a ventiquattro anni gli fu dato di allontanarsi dal paese natale, ospite dello zio a Roma.

I Canti e le Operette morali. Al ritorno da Roma, dopo un’esperienza che lo lasciò del tutto insoddisfatto, L. accettò nel 1825 l’invito a Milano dell’editore Stella, il quale gli affidò l’incarico di curare per lui una collana di classici latini e italiani. Si trasferì quindi a Bologna, poi a Firenze, dove conobbe letterati e patrioti come l’editore G. P. Vieusseux e G. Capponi, e infine a Pisa, dove trascorse il periodo forse più sereno della sua vita. Aveva già scritto le canzoni, fra le quali erano Bruto minore, Alla Primavera e l’Ultimo canto di Saffo: tutte ispirate, nei temi e nel linguaggio, a quel classicismo di cui, in polemica con i romantici, il poeta si dichiarava erede; e aveva scritto gli Idilli, compreso il maggiore, L’infinito, con cui s’inaugurava la fase più originale della sua poesia. La composizione della canzone Alla sua donna (1823) segnò l’inizio di un lungo periodo di silenzio poetico. L. si dedicò alle Operette morali, la cui stesura per la maggior parte risale al 1824 (ne scrisse poi un’altra nel ’25, due nel ’27 e due nel ’32). Alla luce di una concezione rigorosamente antispiritualistica e materialistica dell’esistenza, il discorso leopardiano tocca qui i temi della vita e della morte, del piacere e del dolore, della felicità e della noia di vivere. Li tratta in forma ora mitica (Storia del genere umano) ora ironica e satirica, con l’occhio all’incorreggibile vizio degli uomini di credersi al centro dell’universo (Dialogo di Ercole e di Atlante, Dialogo di un folletto e di uno gnomo); ora con riguardo all’esclusiva esigenza di un’esistenza liberata dall’inerzia e dalla noia (Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez). Fra le punte più alte del libro saranno da annoverare il Dialogo della Natura e di un’anima e il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie; mentre in posizione di particolare spicco si colloca il Dialogo della Natura e di un islandese, energica affermazione del più maturo pessimismo leopardiano.

Gli ultimi canti

Tornato alla poesia nel 1828, L. compose tra Pisa e Recanati i suoi canti forse più intensi: Il risorgimento, A Silvia, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Accogliendo l’offerta di un sussidio per un anno da parte di alcuni amici toscani, rimasti anonimi, il poeta poté tornare a Firenze, lasciando definitivamente Recanati; in compagnia dell’esule A. Ranieri si recò quindi a Napoli nel 1833, dove trascorse gli ultimi infelicissimi anni di vita. L’amore per la fiorentina F. Targioni Tozzetti gli ispirò i canti del cosiddetto ciclo di Aspasia (Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A sé stesso, Aspasia); l’emarginazione sofferta nell’ambiente napoletano si rispecchiò nell’immagine autobiografica del Passero solitario e nella satira politica dei Paralipomeni alla Batracomiomachia. Ma fu con La ginestra (1836), insieme a Il tramonto della luna, che L. raggiunse il culmine della sua poesia di questo periodo. La coscienza dell’infelicità umana resta la base di una protesta che, diretta contro la malvagità della natura, sollecita la solidarietà degli uomini contro il comune nemico. Il poeta, ribadendo la sua ferma avversione allo spiritualismo, rifugge da ogni forma di consolazione religiosa, nonché da ogni facile ottimismo nel progresso tecnico e scientifico. Sulla scia del Dialogo di Tristano e di un amico, un’ultima operetta morale risalente al 1832, il poeta torna così a insistere sul modello di un eroismo tragico, consapevole del vero e tuttavia non rassegnato al destino che ci è riservato.

Poesia e pensiero. Centrale risulta essere, nell’opera poetica leopardiana così come nelle riflessioni affidate allo Zibaldone dei pensieri (composto dal 1817 al 1832), il tema dell’infelicità costitutiva dell’essere umano. L’inizio della sua riflessione filosofica è collocato da L. stesso nel 1819, quando attraversò un periodo di grave crisi: impeditagli dalle condizioni fisiche anche la lettura, non gli rimaneva che meditare, approdando a quella che poi chiamerà «conversione filosofica». Se le prime ‘canzoni civili’ (All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai) sono animate da duri spunti polemici contro l’età presente, inerte e corrotta, nel Bruto minore e nell’Ultimo canto di Saffo L. procede ancora oltre: Bruto scopre la vanità degli ideali della virtù e della patria e, non rassegnandosi, si uccide; ma la poetessa greca si uccide senza intenzioni di rivalsa; si riconosce vinta e, anziché maledire la vita, se ne distacca sconsolata di lasciarla senza averla goduta. Dal 1823 al ’28 L. porta alle ultime conseguenze il suo pessimismo. L’infelicità umana non è frutto di contingenze particolari a questo o a quell’uomo; e neppure nasce, come aveva creduto in un primo tempo per influsso dei pensatori settecenteschi, da situazioni storiche, dal prevalere della ragione sulla fantasia per effetto dell’avanzare della civiltà, del costituirsi degli uomini in società, che necessariamente tarpa le ali alla libertà e alla spontaneità individuale; ma è una legge di natura, alla quale nessun uomo in nessun tempo, anzi nessun essere può sottrarsi. È quello che gli studiosi chiamano il «pessimismo cosmico» leopardiano. L’uomo non cerca altro che la sua felicità, l’amor sui è l’unica molla della vita; e tuttavia la natura non si propone la felicità degli individui, ma tende soltanto alla propria conservazione, per la quale come sono necessarie le nascite così sono necessarie le morti. La vita non è che un più o meno lento morire e dunque non è che un’«inutile miseria». Intorno a tali temi, impostano una interrogazione radicale le Operette morali; la conclusione logica di questa concezione della vita non può essere che una: la necessità del suicidio. E tuttavia, se Porfirio, nel dialogo che s’intitola a lui e a Plotino, energicamente afferma quella necessità, Plotino lo dissuade: non ci è lecito, è da barbari, privarci della consolazione che ci viene dall’affettuosa presenza delle persone che ci vogliono bene, togliendo a queste la consolazione della nostra presenza. È la felice contraddizione da cui nasce la poesia leopardiana. Le Operette sono per lo più dialoghi, in cui spesso L. fa sibilare lo staffile del suo sarcasmo contro gli uomini illusi e vili che si rifiutano di fissare gli occhi sull’orrido vero. Con i ‘grandi idilli’ il pessimismo cosmico assume il suo vero volto poetico: la pietà cosmica. Con il pianto, cioè con la pietà per gli altri e per sé stesso, non sono compatibili né lo sdegno e il disprezzo per i codardi, né l’esaltazione del proprio coraggio. A partire dal 1831 il pessimismo leopardiano si riveste di una poesia nuda, severa, aspra, cui fa riscontro l’altrettanto aspra critica di L. nei confronti di tutte le illusorie ideologie del periodo (progressismo scientifico, spiritualismo, cattolicesimo liberale). L. rivendica con forza, sulla base delle sue convinzioni materialistiche e illuministiche, il ruolo demistificante della ragione, unico organo che consente di raggiungere la lucida consapevolezza della reale condizione umana. Nella Ginestra, quasi un compendio poetico di tutta la meditazione leopardiana, tale consapevolezza apre a un messaggio di solidarietà: la coscienza del comune dolore dovrebbe spingere gli uomini a unirsi fraternamente.

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