MARTINI, Giambattista

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 71 (2008)

MARTINI, Giambattista (Giovanni Battista). – Nacque a Bologna il 24 apr. 1706 da Antonio Maria e Domenica Maria Felici, «sub parochia Sanctae Christinae Petraelatae» (Busi, p. 3)

Elisabetta Pasquini

La famiglia vantava origini lombarde: il nonno Carlo Giovanni (1654-1738) era nato a Tondello, piccola frazione di Perledo oggi in provincia di Lecco, soggetta alla diocesi di Milano; in giovane età si era stabilito a Bologna, ove conduceva una bottega di ferrarecce. Il di lui figlio Antonio Maria (1676-1758), musicista, dopo Giuseppe (1703-79) e il M., generò quattro figlie: Rosa Maria Marta, Costanza Francesca, Felicita e Francesca.

Per la formazione, il M. venne affidato alle cure di Giambattista Croci, da cui fu avviato all’aritmetica e alla grammatica; l’istruzione religiosa spettò invece alla Congregazione dell’Oratorio di S. Filippo Neri, con sede in S. Maria di Galliera. Dal padre apprese «l’arte del violino e del violoncello» (ibid., p. 9), come del resto il fratello maggiore Giuseppe, che si distinse come abile violoncellista, in servizio nella cappella musicale di S. Petronio dal 1727 al 1778. Il M. si perfezionò in canto sotto la guida di F.A. Pistocchi; studiò infine contrappunto con tre insigni maestri, ricordati con affetto nelle pagine del suo Esemplare: A. Predieri, G.A. Riccieri e G.A. Perti.

Il 20 genn. 1721 il M. chiese di essere ammesso nel convento bolognese di S. Francesco; l’8 settembre dello stesso anno vestì l’abito religioso e venne inviato a Lugo per il noviziato: qui rimase fino all’11 sett. 1722, quando professò i voti e rientrò a Bologna. Il 19 dicembre successivo gli vennero assegnati 4 paoli al mese «attesa la bontà e il merito» del servizio prestato, «essendosi ripigliata la musica per la maggior gloria di Dio nella nostra chiesa» (ibid., p. 16); l’incarico di maestro di cappella gli fu però affidato nel 1725, dopo la scomparsa del predecessore pro tempore F. Gridi (il decreto di nomina reca tuttavia la data del 3 dic. 1727). Presi gli ordini minori e ottenuta la dispensa super defectu aetatis, il 24 febbr. 1729 fu ordinato sacerdote.

La vita del M. si svolse pressoché in toto a Bologna; se ne allontanò infatti in poche circostanze, in cui venne chiamato a dirigere musiche di sua composizione.

Nel 1747 si recò a Roma per il capitolo generale dell’Ordine conventuale in cui fu eletto ministro francescano il concittadino C. Calvi. Vi tornò sei anni più tardi per celebrare nella basilica dei Ss. Apostoli le solenni funzioni in occasione della festa dei Ss. Filippo e Giacomo (1° maggio) e del triduo in onore di Giuseppe da Copertino (6-8 maggio); pare che in quello stesso anno papa Benedetto XIV intendesse designarlo quale successore di N. Jommelli nella Cappella di S. Pietro: per rifiutare l’invito, il M. addusse motivi di salute che, a suo dire, lo legavano a Bologna. Nel maggio 1754 si recò a Osimo per celebrare nuovamente il beato Giuseppe, sepolto nella basilica francescana; cinque anni più tardi fu infine a Firenze, Pisa e Siena.

A breve distanza di tempo, nel dicembre 1758 venne aggregato all’Accademia dell’Istituto delle scienze nonché all’Accademia Filarmonica di Bologna – nonostante la prassi non vi avesse mai ammesso i religiosi regolari –, divenendone tre anni più tardi anche «definitore perpetuo» (ossia arbitro di questioni musicali); il sodalizio ebbe però termine nel 1781, quando il M. rassegnò le dimissioni. Nel 1776 fu accolto in Arcadia, ove assunse il nome di Aristosseno Anfioneo. Dal 1780, infine, figurò anche negli almanacchi della corte di Modena tra gli accademici filarmonici ducali.

La vita appartata e il carattere schivo e riservato, che ispirava «non solo rispetto ma anche simpatia» per semplicità di maniere e innate «gaiezza, dolcezza e filantropia», non impedirono al M. di divenire un’auctoritas indiscussa, ammirata per «la sua cultura e le sue conoscenze» (Burney: trad. it. in Pasquini, 2007, p. 33): la sua dottrina, acquisita nell’attività di storiografo, didatta e compositore, fu di esempio per moltissimi che in diversi Paesi d’Europa a lui si rivolsero per dirimere controversie, perfezionare la tecnica musicale e confrontare il sapere. Numerosi furono coloro che fecero tappa a Bologna per conoscerlo o per ascoltarne le composizioni: tra gli altri lo storico inglese Ch. Burney che, nei primi anni Settanta, soggiornò nella città emiliana in occasione di uno dei suoi «viaggi musicali» sul continente.

Numerose furono le circostanze in cui venne sollecitata la sua opinione. Il caso senz’altro più noto riguarda la querelle che, sul finire degli anni Settanta, ancora infiammava gli intellettuali e i musicisti parigini: i sostenitori di Chr.W. Gluck e quelli di N. Piccinni videro nel M. un giudice super partes, e da entrambi fu chiamato in causa nonostante le ritrosie che più volte ebbe a manifestare.

Il M. partecipò in prima persona ad alcune contese musicali, a partire da quando nel settembre 1732 risolse – in contraddittorio con il maestro della Cappella della S. Casa di Loreto, T. Redi – il canone Sancta Maria, ora pro nobis, tradizionalmente attribuito a Giovanni Animuccia (ma di Orlando di Lasso; cfr. Gentile, 2007) raffigurato in un dipinto della cappella lauretana (ora nel Museo della S. Casa); una delle ultime in ordine di tempo lo vide opporsi al teorico A. Eximeno. Venne inoltre chiamato a valutare le prove d’esame per posti di maestro di cappella in chiese e istituzioni musicali italiane: nel 1745 assistette Perti nel concorso per la Real Cappella di Napoli; nel 1747 venne interpellato per il duomo di Milano; nel 1760 per S. Petronio a Bologna; nel 1762 per la chiesa milanese di S. Maria della Scala; nel 1779 di nuovo per il duomo lombardo.

Il sapere e le doti umane del M. si coniugavano in maniera esemplare nell’attività didattica, che egli svolse per quasi dieci lustri nel convento bolognese. Accanto a Jommelli, J.Chr. Bach e W.A. Mozart, furono allievi del M. numerosi altri musicisti provenienti da molti Paesi d’Europa.

Per alcuni, che soggiornavano a Bologna per qualche settimana, il M. era anzitutto la chiave di volta per ottenere la patente filarmonica – un riconoscimento ufficiale, da esibire nel curriculum, rilasciato dalla illustre istituzione che da circa un secolo regolava la vita musicale della città –, mentre altri si trattenevano per anni e sotto la sua guida imparavano tutti i segreti del mestiere.

Per tale attività il M. non percepiva compensi; di qui la gratitudine degli allievi, che sovente mantenevano i contatti con il maestro anche dopo aver concluso il loro periodo di studi.

Il M. morì a Bologna il 3 ag. 1784.

Le esequie vennero celebrate nella basilica del suo convento, ove il M. fu tumulato nella tomba dei padri maestri; secondo le cronache del tempo, la commemorazione fu un vero e proprio evento mondano. Grazie all’allievo L.A. Sabbatini, il 24 novembre il M. fu inoltre ricordato con solenni cerimonie pubbliche nella basilica romana dei Ss. Apostoli, mentre il 2 dicembre l’Accademia Filarmonica di Bologna ne celebrò il suffragio nella chiesa di S. Giovanni in Monte.

Il catalogo degli scritti del M. comprende numerose opere d’interesse storico e teorico. Il testo cui da sempre è legata la sua fama di erudito è la Storia della musica (I, Bologna 1757 [ma 1759], con dedica a Maria Barbara di Braganza, moglie di Ferdinando VI re di Spagna: a partire da quest’opera il M. siglò un contratto di stampa in esclusiva con l’editore Dalla Volpe; II, ibid. 1770, dedica a Carlo Teodoro di Baviera; III, ibid. 1781, dedica a Ferdinando I di Borbone duca di Parma). Secondo il progetto iniziale, la trattazione doveva ripartirsi in cinque tomi, dalla musica ebraica alla musica figurata; il disegno non vide però una compiuta realizzazione: la pubblicazione si interruppe con la scomparsa del M.: del tomo IV restano soltanto gli abbozzi, dedicati alla musica etrusca e romana, alla musica liturgica e alla nascita e allo sviluppo del contrappunto sino agli inizi del XV secolo.

Nei tre tomi dati alle stampe, che trattano della musica ebraica e greca – da Iubal, «padre di quei che cantavano colla cetra e coll’organo» (I, p. 15) ai miti del «tempo oscuro e incerto» (su tutti Orfeo, che per «erudizione, melodia ed arte poetica si rese a memoria d’uomini superiore»: II, p. 44), fino al «tempo istorico» (di Pitagora, che per primo stabilì «le proporzioni de’ principali intervalli»: III, p. 199) e alla decadenza della musica, in un terreno sempre più demistificante e storicamente fondato –, il M. adotta il modello di una storia concepita come connubio tra ricerca scientifica e rigore espositivo, e non il modello del saggio, caro ai Francesi, che prediligeva invece un taglio più discorsivo. Alla musica spetta pari dignità rispetto alle altre discipline artistiche e scientifiche: conscio dell’elemento di novità insito nell’impresa stessa – sebbene non completa, l’opera è la prima in tal senso concepita in Italia e in lingua italiana –, il M. perseguì un’acribia critica pari a quella illustrata nei migliori prodotti intellettuali realizzati in quegli anni in diversi ambiti del sapere. L’accuratezza e la precisione documentaria fanno da corollario a un attentissimo lavoro di ricerca ed esame critico delle fonti, imposto al M. stesso dalla sua vocazione di storico e filologo. Per osservare più da vicino il suo metodo di lavoro si consultino le «miscellanee», una serie di circa 70 volumi dal carattere eterogeneo (oggi conservati nel Museo internazionale e Biblioteca della musica di Bologna, già Civico Museo bibliografico musicale di Bologna): in esse è raccolta una sterminata congerie di appunti della più disparata provenienza, quali spogli di repertori e cronache, elenchi di opere e copie di documenti.

Nella sua Storia, il M. oppone a un ideale moderno della musica intesa come solo piacere sensibile la ferma convinzione (di platonica e aristotelica memoria, nelle sue finalità morali e religiose) che la musica sia potente strumento di educazione dello spirito e di terapia dell’anima, e nel suo agire sulle passioni induca l’uomo alla virtù e all’amore di Dio. Il sopravvento dell’invenzione (ossia della creatività soggettiva) sull’armonia (fondata su leggi immutabili e pitagoricamente intesa come conforme alla struttura dell’anima) ha snaturato l’essenza stessa della musica e l’ha privata dei suoi effetti pedagogici e terapeutici, facendone un’arte che ha come suo unico fine il diletto. Per il M., la riflessione storica che essa sottende non deve dunque riguardare l’hic et nunc, ma esige che se ne ritrovino le radici nel passato, dai teorici e compositori dei secoli precedenti sino all’antichità; e non va disgiunta dalla razionalità matematica, che offre un autorevole elemento unificante capace di superare la diversità degli stili e dei principî musicali. In tal senso si leggano la Dissertatio de usu progressionis geometricae in musica (Bologna 1766), redatta per l’aggregazione all’Istituto delle scienze, e il Compendio della teoria de’ numeri per uso del musico (ibid. 1769), in cui il M. tratta della musica come scienza esatta. L’indice delle materie e il lessico dei vocaboli tecnici greci più ricorrenti realizzati per l’edizione 1763 della Lyra Barberina di G.B. Doni mostrano nondimeno come l’interesse per il sistema musicale classico non si limitasse al solo studio delle proporzioni numeriche.

Di natura più strettamente documentaria è invece la Serie cronologica de’ principi dell’Accademia de’ filarmonici di Bologna, apparsa anonima nel Diario bolognese di P. Dalla Volpe (Bologna 1776) ma con ogni probabilità attribuibile al Martini.

L’attività di teorico svolta dal M. appare in termini assai plastici dall’Esemplare, o sia Saggio fondamentale pratico di contrappunto, in due tomi rispettivamente dedicati al contrappunto su canto fermo e fugato (Bologna 1774 e 1775-76), concepiti allo scopo d’illustrare le competenze necessarie per essere accolti nell’Accademia Filarmonica, dopo che l’entrata in vigore delle nuove leggi nel 1773, promosse dal M. stesso, aveva reso la prova d’esame più complessa e selettiva. La peculiarità dell’Esemplare rispetto ad altri testi coevi sul contrappunto è evidente sin dal titolo: siamo di fronte a un manuale che argomenta tramite esempi, preferendoli a un’arida esposizione di precetti e formule; i due tomi presentano infatti un’antologia ragionata di composizioni, tratte perlopiù dalle opere dei maestri della polifonia rinascimentale (tra cui C. Porta e G. Pierluigi da Palestrina). La scelta di tale iter didattico non si traduce in un tentativo antiquato di restaurare una pratica musicale ormai in disuso e trasmettere un sapere che apparteneva a pochi eruditi; in chiave storica esso corrisponde al desiderio di riallacciare i fili con una tradizione illustre di cui a metà Settecento si andava logorando l’ordito, e in chiave musicale alla volontà di dotare gli allievi d’un insostituibile bagaglio tecnico che consentisse loro di affrontare in scioltezza tutte le insidie dell’arte in qualsivoglia stile, anche quello melodiosissimo destinato alla camera o al teatro.

Sui requisiti necessari al buon compositore il M. si era già pronunciato nel suo primo testo teorico a stampa, gli Attestati in difesa del signor d. Jacopo Antonio Arrighi (ibid. 1746), un breve scritto apologetico in favore del maestro di cappella della cattedrale di Cremona. A quegli stessi anni risale presumibilmente anche la Regola agli organisti per accompagnare il canto fermo (ibid.), un foglio volante di grandi dimensioni, inciso su rame, contenente le formule per versetti da alternarsi alle strofe delle preghiere liturgiche intonate, e destinato a essere collocato sul leggio degli organi come sussidio agli esecutori meno esperti. Deve inoltre essere attribuito al M. l’anonimo Giudicio di Apollo (Napoli s.d. [ma Venezia 1763]): qui Palestrina interviene insieme con G.M. Nanino e F. Soriano e altri teorici e compositori in difesa dell’Adoramus te, Christe di Perti e della Storia della musica martiniana, contro le censure cui li aveva sottoposti l’abate A. Menini nel Trattato in genere teorico di canto fermo, concepito per auspicare la propria aggregazione all’Accademia Filarmonica di Bologna.

L’imponente catalogo delle musiche del M., perlopiù composte per la basilica di S. Francesco e in gran parte rimaste manoscritte, è stato stimato in oltre 700 pezzi sacri (tra messe, parti di messa, pezzi per l’ufficio e mottetti concertati o a cappella), oltre a un migliaio di canoni, solfeggi a voce sola e a più voci (con e senza strumenti), 32 cantate, 22 arie e numerosi duetti e terzetti, 5 intermezzi (Il maestro di musica; Azione teatrale, 1726; Dirindina, libretto di G. Gigli, 1737; L’impresario delle Canarie, libretto di P. Metastasio, 1744; Don Chisciotte, 1746) e altre musiche di scena, 5 oratori (L’assunzione di Salomone al trono d’Israelle, libretto di G. Melani, Bologna, Oratorio di S. Filippo Neri, 1734; due distinte redazioni del S. Pietro, libretto di N. Coluzzi, 1738 e 1739; nonché gli abbozzi del Sacrificio di Abramo, e La deposizione dalla croce, di cui non abbiamo le musiche), oltre a un centinaio di sonate per strumenti da tasto, 24 sinfonie, una dozzina di concerti, e moltissima altra musica strumentale. Conservata a Bologna (Museo internazionale e Biblioteca della musica; Convento di S. Francesco), Assisi, Bergamo, Berlino, Loreto, Monaco di Baviera, Münster, Padova, Ratisbona, Roma, Venezia e Vienna, tale produzione attende a tutt’oggi di essere sottoposta a un esame critico approfondito.

La gran parte delle opere a stampa vide la luce a Bologna, per i tipi dell’editore Dalla Volpe. La prima raccolta vocale è del 1734: in ricordo delle lodi alla Madonna, che venivano cantate «suavi modulatione» e con gran concorso di cittadini, e delle amorevoli cure prestate all’autore prima dei voti francescani, il M. dedica le Litaniae atque antiphonae ai padri filippini. I Duetti da camera (Bologna 1763) sono rivolti a Maria Antonia Walpurgis di Baviera, musicista, pittrice e poetessa dilettante (in Arcadia Ermelinda Talea), moglie di Federico Cristiano elettore di Sassonia, in risposta al dono del Trionfo della fedeltà che questa aveva dato alle stampe nel 1756; intorno ai Duetti si sviluppò una feroce quanto pretestuosa polemica che coinvolse il violinista L. Somis e il compositore G. Carretti, anch’egli «definitore» nell’Accademia Filarmonica. Dopo la scomparsa del M., vennero inoltre stampati i Cinquantadue canoni a due, tre, e quattro voci (Venezia, post 1784); a dispetto del titolo, i pezzi inclusi nel florilegio sono 61: esclusi dalla numerazione i 9 canoni iniziali, tutti a due voci. La pubblicazione, avviata quando il M. era in vita, venne realizzata a cura dell’ex allievo F. Bertoni, organista in S. Marco.

Nel volgere d’un solo lustro il M. diede alle stampe le sue due uniche raccolte strumentali: le 12 Sonate d’intavolatura per l’organo, e ’l cembalo (Amsterdam 1742, dedica al conte C. Pepoli) e le 6 Sonate per l’organo e il cembalo (Bologna 1747, dedica a monsignor G. Molinari), proposte in un primo tempo in numero pari alla precedente raccolta. Per ottenere maggiore riscontro di pubblico, nella seconda raccolta il M. privilegiò la brevità e si attenne a uno stile a suo dire più moderno e più facile, rinunciando alla scrittura assai densa delle prime 12 sonate, in cui si coniugano eleganza e tradizione contrappuntistica.

Una fonte inesauribile di notizie relative al M. è costituita dal carteggio, oggi conservato nel Museo della musica di Bologna insieme con la quasi totalità dei documenti martiniani. Esso comprende oltre 6000 lettere inviate da quasi 1000 corrispondenti (colleghi e allievi, tra cui J.Fr. Agricola, M. Gerbert, P. Locatelli, Fr.W. Marpurg, J.J. Quantz, J.-Ph. Rameau, A. Soler, G. Tartini, o eminenti personalità politiche e culturali del tempo, tra cui Anna Amalia di Brunswick-Wolfenbüttel moglie di Ernesto Augusto di Sassonia-Weimar-Eisenach, Carlo Teodoro di Baviera, Federico II di Prussia, Ferdinando I di Borbone, Maria Antonia Walpurgis, Metastasio, L.A. Muratori e G. Tiraboschi; circa 600 sono le minute di risposta) e copre un arco temporale che va dal 1730 al 1784.

Ma il suo più ragguardevole lascito, il cui valore va ben oltre il mero interesse documentario, è rappresentato dalla ricchissima collezione libraria, che già nel secolo XVIII suscitava l’ammirazione di molti. Se ne legga l’entusiastica descrizione fornita da Burney, secondo cui i manoscritti del M. «occupano da soli tutta una stanza; altre due stanze ospitano i libri a stampa, di cui egli possiede tutte le edizioni disponibili; una quarta è dedicata ai libri di musica pratica, di cui conserva una simil prodigiosa quantità di manoscritti. Si può calcolare che la sua collezione raggiunga i 17.000 volumi, e la sta tuttora incrementando con nuovi arrivi da tutte le parti del mondo» (Burney; trad. it., cit., p. 61).

Degna di nota è l’eccezionale completezza di talune sezioni: anzitutto quella dedicata alla teoria musicale, di cui in certi ambiti il M. possedeva la quasi totalità delle opere a stampa, insieme con numerosissimi manoscritti; nella sezione dedicata alla musica pratica erano poi ben rappresentati tutte le epoche e gli stili, nonostante la predilezione per il genere sacro. Tra i cimeli spiccano un’importante silloge di polifonia quattrocentesca (che oggi reca la segnatura Q.15); l’Harmonice musices Odhecaton A, la prima edizione interamente musicale stampata in caratteri mobili (realizzata da O. Petrucci nel 1501, e di cui l’unico esemplare superstite è conservato proprio nella biblioteca che fu del M.); e il Melopeo y maestro di D.P. Cerone, impresso a Napoli in lingua castigliana (1613), che, almeno secondo leggenda, divenne subito rarissimo dopo che quasi tutta la tiratura era colata a picco con il galeone che la trasportava in Spagna.

La biblioteca martiniana non era però solo una collezione di rarità, quanto piuttosto un contenitore dotato degli indispensabili strumenti di ricerca e di approfondimento necessari a un dotto storiografo, compositore e didatta, in un’epoca in cui le collezioni pubbliche erano assai poche e i repertori bibliografici pressoché inesistenti; in più di un’occasione, il M. si dichiarò infatti obbligato ad arricchirla in funzione del suo stesso lavoro. Per approvvigionare la raccolta di nuovi volumi egli con ogni evidenza contò non solo sul suo onorario di maestro di cappella: a lui era infatti consentito visitare biblioteche allora quasi inaccessibili (come la Vaticana) o commissionare copie di libri di pregio; in più di una circostanza egli coinvolse nelle sue ricerche alcuni illustri conoscenti (su tutti G. Chiti, che aveva libero accesso alle biblioteche ecclesiastiche romane e lo rifornì delle opere di molti autori della cosiddetta «scuola romana»). Non vanno poi dimenticati gli scambi dei suoi stessi lavori a stampa intercorsi con librai ed editori, amici e colleghi; la notorietà e la stima di cui godeva gli assicurarono infine numerosissimi doni librari.

La determinazione del M. nel ricercare e conservare le testimonianze del passato non fu fine a sé stessa. Nel 1750 ottenne da Benedetto XIV che alla sua scomparsa la raccolta libraria fosse preservata nella sua integrità; nel 1784 venne affidata così alle cure di Stanislao Mattei, che riuscì a salvaguardarla, durante gli avvenimenti rivoluzionari e la dominazione napoleonica, dalla confisca dei beni successiva alla soppressione delle corporazioni religiose, prima che nel 1827 andasse a costituire il primo nucleo della Biblioteca del Liceo filarmonico.

Non meno significativa rispetto alla biblioteca, e anzi a essa del tutto complementare, era la galleria di ritratti di musicisti. Nel 1773 la raccolta comprendeva più di 80 dipinti; solo 11 anni più tardi, alla scomparsa del M., Mattei poté affermare con orgoglio che la collezione aveva raggiunto il considerevole traguardo di circa 300 tele. Il M. intendeva utilizzare questa raccolta per l’ultimo tomo della sua Storia della musica, mai dato alle stampe, che avrebbe dovuto contenere le biografie dei più insigni musicisti. L’iconoteca presentava dunque pari valore documentario rispetto alla biblioteca: come i manoscritti e le stampe raffigurati nei Due sportelli di libreria con scaffali di libri di musica di G.M. Crespi (1720-30, con ogni probabilità non eseguiti per il M.), così i dipinti erano gli indispensabili strumenti nell’officina del musicografo. Nella raccolta figurano numerosi ritratti di colleghi e allievi, richiesti personalmente dal M.; ma anche di musicisti scomparsi prima del Settecento, di cui a volte fu egli stesso a commissionare la tela traendo spunto dalle incisioni presenti nei frontespizi delle opere a stampa da lui possedute. L’interesse del collezionista non era rivolto alla qualità artistica dell’esecuzione, ma piuttosto alla verosimiglianza e all’attendibilità dell’aspetto fisionomico; ciò giustifica la discontinuità nel pregio dei dipinti e l’elevato numero di copie presenti. La collezione è comunque illustrata da opere di notevole qualità: la tela forse più nota ritrae il blasonato allievo Bach (opera di Th. Gainsborough, 1776), approdato a Londra nel 1762 come musicista di camera di Carlotta Sofia di Meclemburgo-Strelitz, sposa del re d’Inghilterra Giorgio III, dopo che in Italia aveva acquisito una robusta esperienza compositiva grazie anche alle lezioni di contrappunto impartitegli dal M.; di ottima fattura è l’olio su tela in cui è ritratto Burney, copia da J. Reynolds, con ogni probabilità realizzata dal nipote E.Fr. Burney (1781). Di non trascurabile valore per interesse documentario è l’ignoto ritratto di Gluck, copia veneziana di una tela eseguita a Roma nel 1756 (l’originale non è stato ritrovato), uno dei due soli dipinti a noi conosciuti che effigiano il musicista; di ignoto pittore austriaco (1777) e, a detta del padre Leopold, assai somigliante, è il ritratto in cui Mozart in abito da gentiluomo esibisce la croce dello Speron d’oro conferitagli da Clemente XIV.

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