Giambattista Tiepolo

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Francesca Zago
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Nel 1960 il poeta Diego Valeri definì Giambattista Tiepolo il “pittore dell’autunno veneziano”, o meglio di quella fine estate che annuncia l’autunno, quando nuvole rosate e spumeggianti trascorrono solenni il vasto cielo della Laguna; il pittore “innamorato degli azzurri vertiginosi”, che recano il sentimento dell’infinito e con esso la malinconia che a tale sentimento sempre si accompagna. Tiepoletto – così lo chiamavano affettuosamente i contemporanei – è dunque, insieme a Canaletto – garbato soprannome di Antonio Canal – l’artista per antonomasia del Settecento veneziano, dell’ultimo afflato della millenaria Repubblica e, più in generale, un campione assoluto dell’immaginario pittorico del XVIII secolo.

Giambattista Tiepolo e la Venezia del Settecento

Dal 1718, con la pace di Passarowitz, Venezia si era oramai chiusa in una imperturbabile neutralità. L’inesorabile declino politico di una ex potenza europea rendeva più che mai necessaria la trasfigurazione del quotidiano attraverso la lente del mito secolare che la voleva perfetta città-Stato. Le sue virtù dovevano riverberarsi nello splendore dei monumenti e nella singolarità della forma urbana. Nel corso del Settecento si innesca un processo di rinnovamento edilizio che investe soprattutto gli interni dei palazzi e delle chiese, ma anche delle ville di terraferma. Tiepolo, insuperabile nell’affresco, con le sue “detonazioni di colore che bucano i soffitti” (R. Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, 1946) dissolverà il limite fissato dall’architettura, anche grazie alla collaborazione di geniali quadraturisti, Gerolamo Mengozzi Colonna in primis. Così facendo dilaterà illusionisticamente lo spazio del vivere in un teatro dell’immaginazione sul cui palcoscenico i protagonisti dell’Olimpo pagano e del Paradiso cristiano, gli eroi della storia antica e della mitologia, gli attori di idealizzate vicende famigliari e di favole arcadiche si rendono presenti e tangibili.

Giambattista è un genio infaticabile, nel senso letterale del termine. Velocissimo nell’ideazione e ancor più nell’esecuzione, lascerà un vastissimo catalogo di opere: dall’olio all’affresco, dal disegno all’incisione. Raccoglierà a piene mani, per condurle a suprema sintesi, l’eredità e le sperimentazioni delle generazioni che lo avevano preceduto, riscuotendo il plauso generale di un pubblico che vedeva in lui il rinnovatore delle “sopite, felici, leggiadrissime idee” di Paolo Veronese, secondo la formula coniata da Anton Maria Zanetti il Giovane nel 1771 (Della pittura veneziana e delle opere pubbliche de’ veneziani maestri…). Tracciando idealmente una linea diretta con un vagheggiato Cinquecento, secolo d’oro della pittura veneziana, egli interpreta al meglio il “gusto moderno”. Rispetto al “tenebroso” Seicento, modulerà nel tempo un registro più lieve e seducente, frutto dalla nuova estetica rococò che si andava affermando nell’accezione veneziana di barocchetto. La sapienza compositiva e l’esatta distribuzione delle ombre sono virtù che aveva appreso nella bottega del pittore classicista Gregorio Lazzarini, artista stimato da Carlo Maratta, a cavallo fra Sei e Settecento nume tutelare della prestigiosa Accademia di San Luca a Roma. Agli insegnamenti di Lazzarini aggiungerà una cultura visiva affinata nello studio degli antichi maestri (Jacopo Bassano, Tintoretto e Veronese soprattutto) e dei colleghi più anziani (Louis Dorigny e Sebastiano Ricci in particolare).

Tiepolo rivela subito una rara capacità di “invenzione” dei soggetti, una “lucidissima vaghezza”, ovvero una bellezza delicata, tutta personale, svincolata dal canone classico, e uno “spirito vivacissimo”, tradotto in un colore lussureggiante che fa risplendere le sue opere di un “sole che forse non ha esempio” (A.M. Zanetti, Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia…, 1733). Pur rimanendo saldamente ancorato alla realtà veneziana, sarà un artista internazionale. A lui si rivolgeranno il patriziato e il clero della Repubblica e della penisola italiana, la nobiltà e le teste coronate d’Europa; persino dalla lontana Svezia giungerà a Venezia un emissario, il conte Tessin, per invitarlo, invano, a Stoccolma a dipingere il salone del Palazzo Reale.

Ma l’esempio più alto di “intelligenza figurativa”, il creatore di un mondo parallelo e meraviglioso non avrà seguito. Johann Joachim Winckelmann scriveva nel 1763, a margine dell’esperienza madrilena che chiudeva la vita dell’artista veneziano: “Il molto e il buono sono raramente congiunti […]. Il Tiepolo fa più in un giorno che il Mengs in una settimana, ma quegli appena veduto è dimenticato, mentre questi rimane immortale”. Le successive generazioni artistiche, figlie del neoclassicismo, ignoreranno la lezione di Giambattista, indissolubilmente legata all’ancien régime, il cui humus storico e culturale verrà definitivamente spazzato via con la caduta della Repubblica nel 1797. Dunque, per usare una felice metafora di Adriano Mariuz, l’arte di Tiepolo “è come l’arcata di un ponte che rimane sospesa al suo culmine, priva di un pilone d’appoggio sull’altra sponda” (Tiepolo, a cura di G. Pavanello, 2008).

L’origine “tenebrosa” 

Nel 1716, all’età di vent’anni, Giambattista entrava ufficialmente nel mondo affollato dell’arte lagunare, esponendo, “in concorrenza d’altri pittori”, la tela raffigurante la Sommersione del Faraone. Ciò avveniva nella tradizionale mostra di quadri en plein air allestita in campo San Rocco a Venezia il 16 agosto, in occasione dell’omonima ricorrenza festiva. Il pubblico poté così appagare l’occhio cogliendo l’abilità nel disporre le masse in un paesaggio tumultuoso colpito da tocchi di luce di vibrante drammaticità: un’energia espressiva così intensa da far pensare a Tintoretto, forse un omaggio all’artista che aveva lasciato il suo opus magnum nella vicina Scuola Grande di San Rocco. L’episodio biblico fissato sulla tela da Tiepolo ben si prestava al clima di attesa per le sorti della città di Corfù, in quel momento sotto assedio da parte delle armate turche. L’esercito del faraone inghiottito dalle acque del Mar Rosso poteva infatti essere visto come l’auspicio per una vittoria della Serenissima con l’aiuto divino, vittoria che in effetti la Repubblica avrebbe conseguito contro il turco una settimana dopo, il 24 agosto dello stesso anno.

Sebbene i contemporanei abbiano scorto in Tiepolo un Paolo Veronese redivivo, il Martirio di san Bartolomeo, realizzato nel 1722 per la chiesa parrocchiale di San Stae (Sant’Eustachio), rappresenta forse il punto più elevato della sua passione giovanile per la corrente patetico-chiaroscurale capeggiata da Giambattista Piazzetta. È una maniera che affonda le sue radici nel Seicento, nella pittura caravaggesca appena mitigata dal dipingere di macchia di Domenico Fetti, dallo spumeggiare del colore di Johann Liss e dalle iridescenze di Bernardo Strozzi.

Tiepolo fu amico personale di Francesco Algarotti, che nel 1737 pubblicava il Newtonianismo per le dame: ovvero dialoghi sopra la luce e i colori. La divulgazione della teoria newtoniana sulla scomposizione del raggio luminoso consentì all’artista di effettuare esperimenti quasi scientifici con i pennelli, schiarendo la tavolozza e affrancandosi, a partire dalla metà degli anni Venti, dagli effetti drammatici degli esordi neotenebrosi. Sarà lo storiografo Giannantonio Moschini, alle soglie dell’Ottocento, a marcare il passaggio del giovane Tiepolo dalla “massa forte delle ombre” alla “vaghezza” ottenuta con lo studio degli esempi di Sebastiano Ricci “e spezialmente di Paolo Veronese”: così “fu finalmente pittore universale” e nell’affresco “non v’ebbe chi l’eguagliasse”. Osservazioni già espresse da Luigi Lanzi nella Storia pittorica della Italia del 1796, che definiva Tiepolo “l’ultimo dei veneti che gran nome si facesse in Europa”, dotato della capacità di “osservare gli accidenti dell’ombre e della luce e il contrapposto de’ colori il più adatto a far colpo”, nonché di intridere i suoi affreschi di “un sole che forse non ha esempio”.

Il trionfo della ragione

Il nuovo corso stilistico di Giambattista, già preannunciato nel ciclo di affreschi con il Mito di Fetonte e il Trionfo di Aurora per il salone di villa Baglioni a Massanzago del 1719-1720, si inaugura a Venezia con il soffitto per una sala di palazzo Sandi realizzato intorno al 1724. Il soggetto è stato riconosciuto come Il trionfo dell’Eloquenza e si articola in quattro episodi mitologici a questa connessi: Anfione costruisce le mura di Tebe con il suono della lira, Orfeo trae Euridice fuori dall’Ade, Ercole libera i Cercopi perché indotto al riso dai loro discorsi e Bellerofonte che uccide la chimera, mentre un fregio a monocromo su tela corre tutto intorno al di sotto dell’affresco, ove si dipana un’intrecciata congerie di mostruose figure attribuita a un pittore più anziano, Nicolò Bambini.

Il soffitto sembra scoperchiato da una tromba d’aria con i personaggi disposti sui lati, violentemente scorciati, come in bilico sul vuoto. Il moto centrifugo è assecondato da accesi accordi cromatici che si stemperano nel fondo azzurro del cielo percorso da nembi multicolori. Le figure attorte e sode denunciano un’intonazione drammatica, ancora barocca, l’ultimo temporale prima che il vento della critica corrosiva dell’Illuminismo schiarisca il limpido cielo della ragione. Quella di palazzo Sandi è una ragione consapevole che in ogni momento potrebbe precipitare nella condizione ferina e preumana. Tutti i protagonisti, da Anfione a Orfeo, dimostrano che solo l’eloquenza e la legge – come facce della stessa medaglia della civiltà – consentono agli uomini di sollevarsi dall’orrido caos della barbarie. Il programma iconografico intende sottolineare il valore dell’eloquenza sulla falsariga del pensiero del filosofo napoletano Giambattista Vico che aveva un grande seguito nella Venezia dell’epoca, in particolare attraverso il Diritto universale edito tra il 1720 e il 1722. La composizione è animata da una vis pedagogica che crede nel progresso dell’umanità attraverso i corsi e i ricorsi della storia, che non sono lineari, ma spiraliformi come il cielo di Tiepolo. Perciò è necessario tenere soggiogati i mostri dell’irrazionalità, anche quelli interiori. Persino Orfeo, inventore della civiltà, ne è rimasto preda nel momento in cui ha ceduto alla passione dei sensi, perdendo così per sempre l’amata Euridice. Spettatrici di questa esemplare “caduta” sono le raccapriccianti figure infernali che si affacciano dalla bocca dell’Ade in un brano che sarebbe piaciuto a Goya. Nel fregio sottostante si snoda un groviglio informe, senza soluzione di continuità, di corpi parte umani e parte bestiali, a significare che la ragione e quindi la civiltà hanno le loro radici nel disordine. La bellezza della cultura e l’equilibrio del comportamento etico scaturiscono e sono legati a doppio filo con il “brutto” e con quanto di più profondo e indicibile proviene dall’irrazionalità dell’inconscio.

Il trionfo della luce 

Il 21 dicembre 1739 il capitolo della Scuola Grande dei Carmini incaricava Giambattista Tiepolo di rinnovare le pitture del soffitto della sala superiore. Ma l’artista, assorbito dall’impresa di palazzo Clerici a Milano, si farà attendere fino al gennaio del 1743 per i comparti laterali, e addirittura fino al 1749 per la tela centrale, dove egli scatena la sovrannaturale apparizione della Vergine quale portentosa macchina teatrale, che irrompe sulla scena per destare lo stupore del pubblico, infiammare gli animi e accendere sentimenti di devozione. Con un coup de théâtre Maria “sfonda” la quinta come la polena di una nave o – in anticipo sui tempi – come creatura extraterrestre portata sul ponte di un’immaginaria astronave. La luce della Grazia si irradia dal Bambino, che la madre regge sotto il braccio come fosse un bambolotto, investendo, con effetti di inattingibili cangiantismi, i mantelli aranciati degli angeli e la veste della Vergine dai toni di madreperla e i riflessi di un bianco squillante purissimo. L’ombra invece si addensa – in un volontario ritorno al tenebrismo della prima maniera – nel registro inferiore, quello della dimensione terrena, ove si trovano la figura ripiegata di san Simone Stock e gli scorci inquietanti delle tombe scoperchiate, dei teschi che affiorano e delle tormentate anime del Purgatorio.

La luce è parte della regia, vera protagonista, anche nella cappella Cornaro ai Santi Apostoli con la Comunione di santa Lucia (1745-1746), che sembra emanare, nel raccolto e ombroso vano rinascimentale, una diafana aura interiore, tutta spirituale, consona alla santa alla quale i carnefici hanno appena strappato gli occhi, adagiati come gelatine su un piatto in una raccapricciante natura morta.

Al contrario nella chiesa dei Gesuati (1738-1739) tutto è giocato su diversi toni di bianco. Dalle sculture e dai rilievi marmorei di Giovanni Maria Morlaiter, risalendo le superfici murarie, si giunge – passando per i cammei delle grisailles con i quindici misteri del rosario – ai tre riquadri del soffitto con la Gloria di san Domenico, l’Istituzione del rosario e La Vergine appare a san Domenico che, insieme al pavimento nel quale si specchiano le magnifiche pale degli altari, sono le uniche, squillanti note cromatiche dell’intero invaso. Tiepolo ha montato “una grande ‘macchina’ scenografica di effetto ancora barocco” (R. Pallucchini, La pittura nel Veneto. Il Settecento, a cura di M. Lucco, I, 1995) benché qui oramai il bel composto di matrice berniniana si sia stemperato in una nuova poetica. Per trovare una similitudine rococò, l’apparato decorativo dei Gesuati potrebbe essere paragonato al fuoco d’artificio di un piccolo bengala: dal fulcro dei riquadri policromi sembrano scaturire, come in una crepitante pioggia discendente, tutti gli altri decori.

Il trionfo di Apollo 

In un clima influenzato dai Lumi si dispiegano programmi iconografici che celebrano l’ottimistico instaurarsi di una nuova era della luce, fino all’apoteosi di Apollo che, nel 1750-1753, si manifesta in tutto il proprio fulgore sulle volte della residenza del principe vescovo di Würzburg in Baviera per mano di Giambattista Tiepolo e dei figli Giandomenico e Lorenzo. Sul vasto soffitto della Kaisersaal e su quello dello scalone della Residenz si impalca un’apologia della società feudale, appena rischiarata da un dispotismo illuminato che si appaga nel contemplare una profusione di magnifiche allegorie, personaggi dai tratti esotici, animali singolari, mercanzie d’ogni specie e, soprattutto, decine e decine di metri quadrati di cielo azzurro solcato di nubi, di stesure di colore puro, vorremmo dire “informale”.

Pur in una coreografia monumentale, smaltata e brillante, affiora tuttavia una sommessa nota malinconica, una vibrazione che segna una coloritura patetica. È una tonalità “minore” che trasmette l’ansia del domani, il timore della perdita delle cose più care.

Il sentimento struggente dell’effimero

A partire dagli anni Cinquanta nella produzione profana di Tiepolo s’insinua un “sentimento struggente dell’effimero” (A. Mariuz, Tiepolo, a cura di G. Pavanello, 2008), che ritroviamo con un’intonazione elegiaca nel ciclo ad affresco di villa Valmarana ai Nani a Vicenza.

Questa percezione intride anche la tela con la Morte di Giacinto (Madrid, Collezione Thyssen Bornemisza), ove Febo si agita scarmigliato e inconsolabile, eppur sempre radioso e pieno di vita, sul corpo oramai livido dell’amato, la cui testa ferita riposa per l’ultima volta sulla coscia dell’amante. L’amore è una fiammata che brucia, come il “disco” solare che ha colpito per errore il capo dello sfortunato ragazzo. Il dramma è credibile, ma Giacinto qui è un sofisticato giovane del Settecento. Il gioco che lo ha condotto alla morte non è altro che un divertimento alla moda come la pallacorda, e la racchetta abbandonata a terra con tanto di palline ne è la prova. Una varia umanità assiste attonita a una tragedia che mette in scena la bellezza transeunte dei sensi, con i corpi seminudi dei due efebi avvolti in lussureggianti vesti.

Dopo la morte di Giambattista, avvenuta a Madrid il 27 marzo 1770, il figlio Giandomenico si accorgerà che il mondo descritto per decenni e con tanto entusiasmo dal padre stava giungendo al termine. A fine secolo gli spettacoli fantasmagorici non si manifestavano più nei cieli abitati da divinità, santi ed eroi. Il cielo si è oramai “laicizzato”, avendo perso ogni valenza metafisica. Solo ai Pulcinelli di Giandomenico Tiepolo sarà concesso nel 1797 – l’anno fatale della Repubblica – l’ultimo “riscatto di un’ascensione momentanea” nel soffitto di una stanza della villa di Zianigo, in cui la famiglia del pittore aveva fissato nel 1757 la propria dimora di campagna. Come una creatura celeste Pulcinella è ripreso di sottoinsù, ma rimane uno scherzo: è solo il gioco dell’altalena. E altrettanto irriverente era stato Giandomenico con il “calco” di un Pulcinella ebbro, accanto a una caraffa di vino, sulla Morte di Giacinto ideata dal padre qualche decennio prima.

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