Vico, Giambattista

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Vico, Giambattista

Cecilia Castellani

Filosofo, nato a Napoli nel 1668 e morto ivi nel 1744. Nella Vita scritta da se medesimo, composta intorno al 1723, pubblicata una prima volta nel 1728, integrata da un’aggiunta nel 1731, il nome di M. non compare. Il maggiore biografo di V., Fausto Nicolini, annotava nella Bibliografia vichiana, ricorrendo alla testimonianza di Pietro Giannone, che, nella seconda metà del Seicento, a Napoli, i Discorsi sopra la prima deca Tito Livio erano studiatissimi (Nicolini, in Croce 1947-1948, p. 862). E nel saggio sulla Giovinezza di Giambattista Vico suggeriva che V. aveva certamente dovuto nutrirsi, negli anni del soggiorno a Vatolla, delle diatribe antimachiavelliane e delle correlative apologie dei trattatisti del Cinque e Seicento, e leggere Della ragion di Stato di Giovanni Botero e il De republica di Jean Bodin (Nicolini 1932, pp. 106-08), al quale la Scienza nuova del 1744 dedica un capitolo di Confutazione de’ principi della dottrina politica fatta sopra il sistema di Giovanni Bodino. Vi è, nell’autobiografia, un apprezzamento manifesto per due esponenti della storiografia umanistica, Paolo Giovio e Andrea Navagero, autori di storie d’Italia contemporanei di Machiavelli. E vi sono stilemi che da M. scendono nella prosa vichiana e, con minore intensità drammatica, ne ripetono il motivo della mutevolezza della fortuna, che arride ai giovani e poi volta le spalle, trovando nelle mode di tempi più nuovi il riscontro che sancisce la sconfitta degli studi ormai vecchi, una volta giovani e in auge (Vita, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, t. 1, 1990, pp. 25-26, 28 e note pp. 1231-42). Segni certamente che il retroterra culturale di un erudito delle antichità, maestro di retorica e studioso di diritto, non poteva ignorare il nome e l’opera di Machiavelli. Nella Vita, è piuttosto Tacito che «discende a tutti i consigli delle utilità» e «tra gl’infiniti irregolari eventi della malizia e della fortuna» (pp. 2930), nei quali emerge il quadro realistico dei moventi e delle passioni che deve orientare la sapienza del legislatore, vichianamente dell’«uom sapiente di pratica». Sulla traccia di Cicerone, la Scienza nuova tratteggia il carattere elitario della filosofia che «non può fruttare ch’a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo» (Principi di Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, 1744, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, t. 1, p. 496, § 131) mostrandone una sterilità di effetti in ordine all’incivilimento dei popoli. È quel che V. ascrive a Tacito: la capacità di sondare l’universo del senso, della forza e degli istinti, la dura effettualità che essi originano; uno sguardo che mostra come su queste vie deplorate la storia ha edificato.

Non ve ne è il nome, e tuttavia di M. c’è la materia, anche nella Vita. Benedetto Croce, che al tema del confronto di M. con V., svolto nei termini di una ideale complementarità dei due autori, per primo dedicò pagine importanti (Croce 1925; Sasso 1953), suggeriva che «nel suo peculiarissimo Tacito», V. condensava la lezione machiavelliana, rasserenando il dramma etico individuale che nel Principe si incarnava come contrasto incomponibile tra fine buono dell’azione e impiego di mezzi a esso contrari. Perché il concetto della Provvidenza consentiva a V. di frenare, senza neutralizzarne l’efficacia materiale, il potere dissolvente della libido e della forza, nelle quali pure gli uomini avevano sostato in un pieno disordine di dispersione more ferarum e senza lume di bene, alla luce della considerazione che occorreva con argomenti consapevoli giustificare che pure di lì, e pur nel segno di crisi ripetute, si dipanava un filo di continuità nel quale il genere umano non annichiliva.

Non espressamente citato nella Vita, M. appare nel Diritto universale in una uniformità unilaterale di giudizio che lo introduce tra gli autori reprobati. M. è il punto di congiunzione, tra mondo classico e moderno, di una tradizione che ha in Epicuro l’iniziatore, che include, tra i suoi successori, Hobbes, Spinoza, Bayle, e ha fatto centro sul motivo dell’utile, del timore, della necessità per giustificare l’origine degli organismi sociali, la nascita del diritto, delle leggi, delle istituzioni. Autori empi, ateisti, negatori della Provvidenza e del ruolo costitutivo della religione come momento di apertura degli assetti societari. In questa linea di contestazione V. critica il salto di ragione che si instaura tra prima esigenza conservativa, tutta chiusa in un cieco utilitarismo individualistico e minaccioso, ed esigenza del giusto, confermata dall’esistenza del diritto positivo. Ma una seconda linea di contestazione emerge all’interno del Diritto universale, anch’essa ridotta nella non lungimiranza dell’arminiano Grozio «giureconsulto del genere umano» (De universi iuris uno principio et fine uno, 1720, in Id., Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, 1974, p. 30), che, per aver trascurato il ruolo della Provvidenza nella storia, ha insistito sul tema di un diritto naturale originario, collocando in un astorico presupposto di razionalità, la legge di natura, il fondamento dell’aggregazione umana.

Che V. non sia esente dal problema classico della fondazione razionale è evidente nei titoli delle sue opere che tutte si richiamano al principio – De universi iuris uno principio et fine uno, e ai principi – Principi di Scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni. Andare al principio e dire la «natura di cose» inclina nella ricostruzione del «nascimento di esse in certi tempi e con certe guise» (Scienza nuova, 1744, in Id., Opere, cit., p. 500, § 147), in un percorso che arretra verso le origini per portare in luce, attraverso una faticosa opera di demitizzazione e di decostruzione della «boria» dei dotti e delle nazioni, la fierezza generosa che avvia il corso delle civiltà. Tutte le Degnità, nelle quali sono condensati i principi del corso comune delle nazioni, non sono ancora fissate nel De uno. Qui vi è, però, l’istanza di delineare il sistema di tutta l’erudizione umana e divina, e ne emerge, nella giurisprudenza, una sommessa consapevolezza che la domanda sull’origine della società contiene già in sé un presupposto di socialità, fosse pure quella di una insocievole socievolezza, dal momento che egli

dimostra tra gli uomini essere per loro natura una società di vero giusto che è l’aequum bonum, l’utile uguale, in che consiste il ius naturale immutabile, nella quale società tutti e sempre convengono (Sinopsi del diritto universale, in Id., Opere giuridiche, cit., p. 6).

In questa consapevolezza che debilita l’indagine sulla causa, o sul fondamento, perché non vi è mai uscita dal (né entrata nel) fatto sociale, si apre, nella contestazione, una più proficua valutazione del tema utilitario, piegato nella linea delle occasioni:

Epicuro, Macchiavello, Obbes, Spinosa, Bayle ed altri dissero esser l’uomo socievole per utilità, la quale col bisogno o col timore vi gli portò, perché non avvertirono che altro sono le cagioni, altro le occasioni delle cose; le utilità cangiarsi ma l’uguaglianza di quelle essere eterna; [...] l’utilità è occasione per la quale si desti nella mente dell’uomo l’idea dell’ugualità, che è la cagione eterna del giusto (Sinopsi del diritto universale, cit., p. 6).

Le «utilità» introducono la dimensione contingente e storica nella quale si forma, cresce, si raffina e si particolarizza il diritto; di per sé inconfrontabili, né giuste né ingiuste, rappresentano il luogo in cui menti incapaci del vero e del bene nell’utile non si disperdono, si tengono al certo in luogo del vero; in cui gli uomini sperimentano la natura della relazione sociale, avvertono la maggiore o minore eguaglianza, conoscono la disuguaglianza e si formano un’idea di giustizia uguale. Nella esistenzialità delle utilità si rivela già fondata l’esigenza del giusto: nell’orizzonte temibile degli utilitaristi V. sosta e fa della natura parte della storia. Solo dentro le occasioni utilitarie, in continuità e non in contrasto con la natura degli uomini, si fa largo la legislazione, della quale V. debilita il carattere di anticipazione razionale, di costituzione volontaria di ordine sulla materia disordinata delle volizioni singolari, e introduce il concetto della Provvidenza per contestare l’orizzonte utilitaristico dell’utile.

La Provvidenza mostra nel segno delle occasioni, delle opportunità, degli accidenti che vi è limite e disparità di razionalità tra i desideri e i risultati che in essi si conseguono, che un complesso intreccio di consapevolezza e inconsapevolezza realizza il diritto (e la storia). Se si resta fuori della comprensione di quelle zone oscure, che eccedono i desideri e le intenzioni consapevoli, nelle quali opera la Provvidenza, inevitabile è lo scetticismo che da Carneade inficia la presenza del giusto nelle faccende umane e contamina le «ragioni addotte da Epicuro e anche quelle del Principe di Niccolò Machiavelli», accompagnato da Thomas Hobbes nel De cive, da Baruch Spinoza nel Tractatus theologico-politicus, fino a Pierre Bayle il quale propone

nel suo gran Dizionario Storico che la giustizia ai tempi ed ai luoghi variamente adattandosi abbia a valutarsi in ragione della privata utilità; che soltanto dai deboli è invocata l’equità, ma per chi sta in Signoria, siccome dice Tacito, “ciò è più equo ch’è più efficace” (De universi iuris uno principio et fine uno, cit., p. 30).

M. è in quella compagnia che ha travisato l’utile, il timore, il bisogno, la necessità e ne ha fatto causainvece che occasione. È seguace di quel caposcuola Epicuro, importuno e dannoso alla giurisprudenza cristiana, definito da V. «corpulento» e «ageometra», che nega qualsiasi senso di giustizia naturale, fa dell’utile una materia liquida e del giusto il mutevole contenitore che varia al variare di quella. In tale ossequio ai sensi si realizza la convergenza dei pensatori ateisti. Ma nell’utile occorre guardare se l’irrazionale, anziché signore esterno ed estraneo, deus ex machina nel caso e nel fato, accompagna come un’ombra l’agire umano. Nell’utile e senza volontà specifica di bene gli uomini «sociali e compagnevoli per propria lor natura, ma pel peccato originale divisi, deboli e bisognosi, vennero a costituirsi in società ed a soddisfare ai lor compagnevoli e naturali impulsi» (De uno, in Id., Opere giuridiche, cit., p. 60). La conferma di stabilità e socievolezza è un risultato più ampio del bisogno stretto che ne segna la nascita, e che conferma l’esistenza della Provvidenza. Il cattolicesimo di V. retroagisce là dove si costituisce la premessa della obiezione al destino di permanente insecuritas delineato dall’utile degli ateisti.

V. dichiara il pudore primo principio, non causa, dell’umanità e fonte di tutto il diritto naturale. Nel fraseggio teologico del De constantia il pudore è «la coscienza dell’errore e del male compiuto», e «la coscienza non è altro che il pudore del vero ignorato» (De constantia philologiae, in Id., Opere giuridiche, cit., p. 404), un barlume di coscienza, o senso della colpa, che resta come memoria della trasgressione accaduta. Nella Scienza nuova la tesi antropologica sulla natura lapsa, caduta, ma non integralmente corrotta, appena sostenuta da un incertissimo libero arbitrio, si completa dell’efficacia di un sostegno opaco del senso comune, nel quale, senza specifica volontà e riflessione, gli uomini convengono in un sentimento coesivo in cui si plasmano i primi istituti delle are, dei matrimoni, delle sepolture: in questi la prima buona educazione dei popoli, le consuetudini che governano come re, laddove le leggi, se non intrattengono continuità e riscontro con la materia dei desideri, mostrano il loro volto di tiranni. Lì la precedenza dei popoli e dei corpi sociali sull’individuo, che non è mai attore di storia. Dio consente che gli uomini si facciano dèi pagani, addomesticando nel sacro la minaccia, e nel pudore e nella pietas sé stessi, «bestioni sensuosissimi». In questo grumo di temi nasce l’invettiva contro gli empi e la «Invicta divinae Providentiae demostratio»:

Neghino ora gli empi – se ci riescono – quest’ordine semplicissimo coerente sempre con se stesso e comune a tutte le genti, che proprio per mezzo di ciò che avrebbe portato alla rovina il genere umano, lo arricchì invece di tutte le utilità e pregi della vita sociale di cui ora usufruiamo; provino dunque a negarlo gli empi, se ci riescono, e avranno tolto di mezzo la divina Provvidenza (De constantia philologiae, cit., p. 408).

Se tanti beni non si raccolsero da un principio senza ragione, non fu caso,

e se non cieco caso non fu neppure una necessità, sì invece una Provvidenza eterna che dispensa e divide le private cure degli uomini in modo che – talvolta contro il loro stesso disegno – tornino complessivamente, alla fine, ad esprimere la sua infinita bontà (De constantia philologiae, cit., p. 410).

La materia politica di M., che suppone «gli uomini rei e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione» (Discorsi I iii 2) e vi ferma il quadro realistico nel quale il legislatore dispensa nelle leggi la forza che garantisce il tutto e tutti, è in V. la stessa materia della ferocia, dell’avarizia, dell’ambizione, dei vizi dell’uomo «quale è», sui quali la legislazione, cioè la politica, interviene. Ma M., consapevole come V. che «i popoli benché ignoranti sono capaci della verità» e incline in un giudizio netto di «magnanimità» della plebe, perché lì i desideri «nascono o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi» (Discorsi I iv 9) e sono dunque meno pericolosi per la stabilità della repubblica rispetto all’ambizione potenzialmente sfrenata dei nobili, guarda alla razionalità o virtù politica che non si lascia cogliere impreparata dalle occasioni storiche. V. guarda nelle occasioni storiche e utilitarie l’esito politico, o il modello di civiltà, realizzato dai popoli e operato dalla lungimiranza della Provvidenza.

Due punti principali di contestazione a M., studiatissimo per il Principe e per i Discorsi, che nega la Provvidenza e tutto fonda sull’utile, sul timore, sulla necessità, e una riserva sul giudizio relativo alla «magnanimità della plebe» e agli «sparsi istituti romani» nei quali Roma incontra stabilità e potenza, sono confermati nella Scienza nuova, fin nella sua edizione postuma. Tuttavia, in queste linee di contestazione emerge anche una particolarissima assimilazione, piena di echi e di contromisure, che V. realizza delle opere di Machiavelli. Su qualche linea non marginale si arretra fino a constatare in M. un orizzonte di problemi proprio anche a V.: così Enrico De Negri profilava nel Segretario fiorentino un antesignano del filosofo napoletano, riconoscendo nel primo il rilievo delle strutture semplici e severe nelle quali vive l’energia dei popoli sani, che nel secondo vigoreggiano nella natura dei primitivi (De Negri 1938). Nicolini suggeriva che una lettura ben pesata e accorta della Scienza nuova occorresse a rilevare solidi elementi di un M. precursore di V. (Croce 1947-1948, p. 862). Già Francesco De Sanctis aveva tratteggiato un parallelo tra due solitari, per quanto immersi nelle relazioni del proprio tempo, che si sollevano sulle epoche alle quali appartengono – rispettivamente degli umanisti e degli arcadi – per aver posto la realtà effettuale, la vita pulsante di interi corpi sociali, al centro della scienza, della politica e della storia (De Sanctis 1870, p. 828). I punti di una convergenza parziale, eppure significativa, incontrano la scelta della storia di Roma, come storia esemplare; il giudizio sulla plebe e la conflittualità tra gli ordini come criterio positivo di interpretazione della storia; il tema della Provvidenza, delle occasioni storiche, e delle vie traverse, nelle quali la razionalità scientifica, per la politica o per la storia, incontra il consapevole limite del suo esercizio.

Nei Discorsi, come nella Scienza nuova, la storia di Roma rappresenta il modello positivo di ogni storia, guadagnato da M. in un’assidua meditazione dei libri di Livio, per la conoscenza di Polibio, e forte di una lunga pratica delle cose del mondo. M. pensa la storia di Roma e ha di fronte Firenze considerata nella sua decadenza e crisi. La virtù politica dei Romani è esemplare perché nella sua costituzione repubblicana ha saputo sfidare il tempo, dare forma ed espressione al conflitto dei due «umori», formare un istituto, il tribunato della plebe, nel quale si medial’istanza del popolo con il senato. È storia che ha durato, dove le contese dei Gracchi hanno atteso trecento anni prima di infettare l’intero organismo, spezzando in due la storia dei Romani (il giudizio di M. sull’impero è negativo). Altra esemplarità è nella storia di Roma vichiana. V. trattiene il senso della sua durata nel tempo, depositata nel carattere politico delle parole della sua giurisprudenza. La storia dei Romani è esemplare perché ha camminato con «giusti passi»; il suo giovane eroismo non ha affrettato la corsa, come è accaduto di Atene che ha consumato presto l’età divina della cruda barbarie nella estrema «dilicatezza» della filosofia; è storia della quale è possibile tracciare intero il ciclo, dalle origini ristrette fino al principato di Augusto, in una linea evolutiva di sviluppo che è anche ricostruzione epigenetica di ordini e di istituti. M. stringe la positività delle fonti nel giudizio storico folgorante che non si attarda nelle retrovie di cronologie complesse. V. tutto concede alla durata di strutture temporali dense di contenuto sociale, giuridico, simbolico, e tende a retrodatare e rifiutare gli aspetti sussultori che contraddicono, della storia, lo sviluppo lineare cumulativo. V. dichiara, per la prima volta in forma estesa nel De constantia iurisprudentis, che M. ha racchiuso in «disparati istituti, sia pagani sia militari», il senso della grandezza di Roma, ma non ha compreso «l’essenza della repubblica, da cui tali istituti provengono» (De constantia philologiae, cit., p. 704). Il giudizio conferma l’incomprensione «nelle lezioni liviane» del diritto romano antico, ribadendo un punto critico più generale, già formulato nel De nostri temporis studiorum ratione, nel quale V. rileva che nessun autore ha fin qui compreso il diritto romano con il raffrontarlo alle condizioni politiche di Roma. V. guadagna il diritto eroico e i primi regni di severissime aristocrazie dei padri; mostra nel feudo e nella religio le ragioni della egemonia dei padri sui primi clientes; svela in quella nobiltà l’esibizione di una disuguaglianza di natura che nel possesso degli auspicia religiosi detiene anche gli arcana imperii; legge nelle prime contese delle plebi una tensione a parificare nel diritto privato la diseguaglianza di natura. Mentre tutta la ragione politica, il bene dello Stato e della patria sono custoditi nel senato dei padri regnanti, qui è la «guardia del diritto civile» e qui si esprime il senso della «ragion di Stato». V. attenua il più forte assunto di M., che interpreta il tribunato della plebe come «guardia della libertà» e ne circostanzia il giudizio sulla «magnanimità della plebe».

In dettaglio, V., più aderente alla fonte liviana, obietta che i tribuni nascono con l’ufficio di tutelare di fronte al senato la libertà naturale dei plebei. Che la libertà instaurata da Giunio Bruto alla cacciata dei Tarquini, non è «libertà popolare», conquista di libertà per le plebi dai signori, ma libertà signorile, dei signori dai tiranni. Una contestazione che con M. investe anche Polibio, e poi Bodin, perché nel maggiore sforzo di comprendere le parole «popolo, regno, libertà» V. fa saltare il ciclo o la successione classica delle forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) a vantaggio di un ordine che procede dalle aristocrazie, nella democrazia, per chiudere nella monarchia. Tuttavia, sempre con una estraneità per il ragionamento tecnico-politico sulle forme costituzionali e un interesse a mostrare nella lenta formazione della legislazione il significato repubblicano della storia di Roma: una storia che impegna i Romani dal decemvirato legislativo fino alle leggi Publilia e Petelia. V. entra nella ragione machiavelliana che elegge in Roma l’esempio di una storia aperta al tempo, dove il caso fece quel che non fece un lator legis, e la libertà deve qualcosa all’elemento irrazionale, i conflitti, nei quali si forma il legislatore collettivo. Ma in V. la Repubblica romana non si lascia stringere nel lungimirante espediente della struttura mista della sua costituzione, che conferisce legalità al conflitto originario degli ordini. In V. i conflitti spiegano la storia, ma la storia non è interamente risolta nei conflitti.

Bibliografia: Opere giuridiche. Il diritto universale, a cura di P. Cristofolini, con introduzione di N. Badaloni, testi latini con versione italiana a fronte, Firenze 1974 (contiene: Sinopsi del diritto universale, 1720; De universi iuris uno principio et fine uno, 1720; De constantia iurisprudentis [De constantia philologiae e De constantia philosophiae], 1720; Notae, 1722); Opere, a cura di A. Battistini, 2 voll., Milano 1990 (contiene: De nostri temporis studiorum ratione, 1709; Principi di una Scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, 1725; Vita scritta da se medesimo, 1728-1731; Principi di Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, 1744).

Per gli studi critici si vedano: F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana (1870), a cura di N. Gallo, Torino 1958; B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari 1911 (poi in Edizione nazionale delle Opere, 10° vol., a cura di F. Audisio, Napoli 1997); B. Croce, Machiavelli e Vico: la politica e l’etica, in Elementi di politica, Bari 1925 (poi in Id., Etica e politica, Bari 1931, Roma-Bari 19813, pp. 204-09); F. Nicolini, La giovinezza di Giambattista Vico, Bari 1932; E. De Negri, Principi e popoli in Machiavelli e Vico, «Romanische Forschungen», 1938, 52, pp. 177-204 (poi in Id., Tra filosofia e letteratura, Napoli 1983); B. Croce, Bibliografia vichiana, accresciuta e rielaborata da F. Nicolini, 2 voll., Napoli 1947-1948; F. Nicolini, Commento storico alla seconda Scienza nuova, 2 voll., Roma 1949-1950; G. Sasso, Benedetto Croce interprete di Machiavelli, in Benedetto Croce, a cura di F. Flora, Milano 1953, pp. 303-22; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, Napoli 1958, Bologna 19932; G. Costa, Le antichità germaniche nella cultura italiana da Machiavelli a Vico, Napoli 1977; R. Esposito, La politica e la storia. Machiavelli e Vico, Napoli 1980; G.M. Barbuto, Vico e Machiavelli. Il “Centauro” e il “tuono”, «Storia del pensiero politico», 2013, 2, pp. 233-58.

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