CHIAVARI, Gian Luca

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 24 (1980)

CHIAVARI, Gian Luca

Maristella Cavanna Ciappina

Nacque a Genova nel 1573 o nel 1574 dal nobile Gerolamo del fu Luca.

Controversa, tra le fonti manoscritte, l'identità della madre, Angentina Muraglia o Speranza Durazzo del fu Antonio, morta comunque quando il C. e il fratello Tomaso erano ancora in tenera età. Il padre del C. passò a seconde nozze con Innocenza Pasqua fu Guglielmo, dalla quale ebbe Giovan Stefano, Giovan Battista, Mario e Violante. La famiglia del C., seatieri a Genova nei sec. XIV e XV, era stata ascritta alla nobiltà nel 1528; il nonno Luca già nel 1521 era stato nominato cavaliere della S. Sindone dai duchi di Savoia. Il padre Gerolamo fu eletto doge nel 1582.

Non ancora ventenne il C. pubblicò un carme in latino in onore di Uberto Foglietta, premesso alla edizione della sua Historia Genuensis del 1597. Contemporaneamente, approfondendo anche lo studio del diritto e dell'arte militare, si preparava a una brillante carriera politica. Eletto nel 1598 sindacatore della Riviera di Ponente, con funzioni giuridico-amministrative, nel decennio successivo fu nominato nei magistrati dei Cambi, in quello degli Straordinari (ancora con funzioni giuridico-amministrative, ma da esercitare nell'ambito del capoluogo), in quelli di Terraferma, di Corsica, dei Pacificatori; nel 1611 fu tra i padri del Comune e nel 1613 tra gli ufficiali dell'Annona. Nel 1614 era eletto tra i sindacatori supremi, altissima carica cui era sottoposto l'operato del doge stesso e dei membri dei due collegi. L'anno dopo venne estratto senatore e aggregato al Collegio degli otto governatori della Repubblica. In tale carica, oltre alle mansioni di governo inerenti a tale ufficio, si occupò di un regolamento per il prezzo dell'olio e di alcune pratiche in materia di confini. Nel 1617 fece parte del magistrato di Corsica e nel 1618 ebbe luogo una sua memorabile ambasceria al re di Francia.

Il viaggio diplomatico del C. (la cui dettagliata relazione fu riportata nel Diario di Alessandro Giustiniani), al di là dei risultati, a causa della sua motivazione specifica, assunse il significato di una nobile rivendicazione di indipendenza e di sovranità della Repubblica nei confronti della Spagna. Il governo di Genova aveva spiccato mandato di cattura contro Claudio de Marini, cittadino genovese già esiliato, che, dopo una serie di agitate vicende, divenuto ambasciatore del re di Francia presso Carlo Emanuele I di Savoia, era stato accusato dal rappresentante spagnolo a Genova di aver tramato contro la Spagna. Rifugiatosi il Marini in Francia, era insorto il malcontento tanto della Spagna, che voleva da Genova più severi provvedimenti, quanto della Francia, indignata del procedimento contro un protetto del suo re. In seno al Senato di Genova, sottoposto alle opposte pressioni, il C. si era espresso con tanta chiarezza su questa pratica da essere scelto come ambasciatore a Luigi XIII per puntualizzare i termini reali della questione. Ma il viaggio del C. non fu facile. Mentre infatti la Spagna, contraria a rapporti diplomatici diretti tra Genova e la Francia, disapprovava il gesto di autonomia del Senato genovese, la corte francese riteneva che l'invio dell'ambasciatore fosse stato consigliato dagli Spagnoli. Perciò il C., che era partito da Genova il 29 marzo sopra due galee della Repubblica, furicevuto cortesemente dai consoli della città di Marsiglia, ma contemporaneamente, con lettera inviata da Lione dal duca di Guisa, fusconsigliato dal proseguire il viaggio finché non fosse stato revocato l'ordine di arresto del Marini. Il C. proseguì invece fino a Lione, dove, nonostante i rapporti formalmente cortesi col governatore, venne praticamente costretto al domicilio coatto. La situazione si sbloccò, dopo i falliti tentativi di mediazione del nunzio a Parigi, Guido Bentivoglio, e del papa stesso, quando da Genova giunse al C. l'ordine di partire per Parigi per rendere ossequio al re mentre il Senato, diplomaticamente, dichiarava di prendere in esame la possibilità di revoca dell'arresto del Marini. Il C., giunto nella capitale francese il 14 agosto, fu accolto splendidamente dal re, che lo ricevette in udienza il giorno dopo e che, durante le due settimane di permanenza, lo circondò di attenzioni e lo gratificò di inviti e ricchi doni. Il C. ebbe modo di chiarire con i ministri francesi i particolari della questione del Marini sui quali essi risultavano male informati. Ripartito il 4 settembre per Genova, vi giunse il 4 ottobre e, nella pubblica udienza dell'8 successivo, fece la relazione dell'ambasciata tra la soddisfazione e le felicitazioni dei magnifici: grazie all'azione diplomatica del C., Genova, risolvendo il momento di tensione con la Francia e riaffermando di fronte alla Spagna il proprio diritto a relazioni dirette con la corte di Parigi, non solo era riuscita ad evitare che la questione del Marini generasse un casus belli, ma aveva anche recuperato quella posizione di equilibrio tra le due potenze cui costantemente aspirava.

Nei due anni successivi il C. fu nel magistrato dei Cambi, dell'Annona, della Milizia, e sindacatore del Capitanato del Bisagno e del Polcevera. Nel 1620-21venne scelto per ricoprire la carica di generale supremo di tutta la flotta genovese.

In questo ufficio ebbe nuovamente occasione di dimostrare fermezza e senso diplomatico nel difendere il prestigio di Genova di fronte alla Spagna. Nel 1620 infatti, davanti al porto di Messina, si erano presentate le galee genovesi per effettuare l'abituale carico di sete, con la scorta delle galee armate al comando del Chiavari. Ma il viceré Francesco de Castro, richiamandosi a convenzioni del 1611, mai accettate dalla Repubblica, non intendeva riconoscere allo stendardo genovese la precedenza su quello di Malta per l'ingresso nel porto. Con decisione pronta e diplomaticamente efficace, il C. fece immediatamente invertire la rotta e tornò a Genova. In tal modo non solo evitò di esasperare il contrasto, ma sopratutto confermò l'inaccettabilità per Genova delle convenzioni marittime che la Spagna cercava di imporre e offrì un precedente per i futuri casi analoghi. Infatti, nel corso degli anni successivi, in circostanze simili, il governo genovese, nelle istruzioni ai suoi ambasciatori e ai suoi capitani, indicherà costantemente l'esempio del C. come "prova storica".

Nel 1622 e nel 1623 il C. disimpegnò l'ufficio di conservatore della Pace e, ancora una volta, dei Cambi; quindi, nel 1624, essendo Genova coinvolta nella guerra dei Trent'anni dalle mire espansionistiche del duca di Savoia alleato alla Francia, il C. fu eletto per la seconda volta sindacatore supremo. Sotto la sua ispezione venne anche costruito un forte a difesa del golfo di Rapallo, davanti al quale navi anglo-olandesi e francesi incrociavano per tagliare le comunicazioni con la Spagna. Mentre le vicende assumevano un ritmo drammatico (le truppe alleate, guidate dallo stesso Carlo Emanuele, occupate Acqui e Novi, stavano avanzando su Genova) il 17 marzo 1625 il C. venne eletto ambasciatore ad Urbano VIII.

Forte della sua neutralità fra la Francia alleata al Piemonte da una parte e la Spagna dall'altra, il pontefice proponeva una lega fra Genova, Roma e Firenze a comune riparo. La missione del C. era di persuadere il papa che Genova non poteva aderire alla lega, perché ciò l'avrebbe inimicata con la Spagna, sulla cui potenza in quel momento era riposta l'unica salvezza. Anzi la Repubblica avrebbe voluto che la S. Sede le restituisse il reggimento di mille soldati corsi che le aveva concesso in tempo di pace; al rifiuto del papa, la Repubblica si alleò apertamente con la Spagna. Mentre la guerra proseguiva, il C. fu obbligato dal suo governo a continuare a dimorare a Roma per difendere gli interessi di Genova, nonostante il papa continuasse a dimostrarsi irremovibile dal progetto di alleanza che aveva concepito. D'altronde, la inconciliabilità delle posizioni politiche non impedì al C., sul piano personale, di entrare nelle simpatie di Urbano, che ne apprezzò l'intelligenza, il tatto e la signorilità. Il C. poté ripartire da Roma solo ai primi del giugno 1627, quando ormai da oltre un anno la tregua tra Francia e Spagna aveva posto provvisoriamente termine anche alle ostilità liguri-piemontesi.

Il 28 giugno, pochi giorni dopo il rientro a Genova, il C. venne eletto doge con larghissima maggioranza (267 voti su 300 circa). L'incoronazione avvenne il 27 nov. 1627 in S. Lorenzo per mano di monsignor Ottaviano Rivarolo vescovo d'Ajaccio, che si trovava a Genova di passaggio. A palazzo ducale l'orazione ufficiale, poi data alle stampe, fu tenuta da Giambattista Giustiniani; quella in duomo dal padre cappuccino Francesco Squarciafico. Durante il dogato, il C. dovette affrontare momenti e problemi difficili. La seconda guerra di successione del Monferrato, rinnovando il contrasto franco-spagnolo, costringeva Genova a difendersi dietro lo schermo di una insostenibile neutralità, mentre riproponeva le mire espansionistiche di Carlo Emanuele di Savoia che, alleato questa volta della Spagna, operava contro la Repubblica in modo più subdolo.

La sera del 31 marzo 1628 venne infatti scoperta una delle congiure più pericolose per Genova. Giulio Cesare Vachero e gli altri congiurati si proponevano il rovesciamento dell'ordine costituito, l'uccisione del doge C. e degli altri capi del governo e lo sterminio dei nobili; ma, più che sul malcontento interno, confidavano sull'aiuto esterno del duca di Savoia. Secondo gli accordi, infatti, il principe Vittorio Amedeo era pronto ad accorrere da Acqui, non appena avvenuta la rivolta in città. Essa fu sventata, alla vigilia, dalle rivelazioni del capitano Rodino, che, recatosi a palazzo ducale, confessò le trame della congiura al fratello del C., Tomaso. Il C., riunito immediatamente il Senato, deliberò la cattura dei congiurati, che vennero poi decapitati.

Nonostante la rapida soluzione, la congiura sollevò nuovi problemi: tensione con Carlo Emanuele, che minacciava gravi ritorsioni; doppio gioco della Spagna dietro l'atteggiamento ufficiale di mediazione; riproporsi della questione dell'ordine interno. Su quest'ultimo punto il C. e il Senato presero pesanti provvedimenti che, istituzionalizzati, diventarono uno strumento di controllo politico nelle mani dei patrizi genovesi.

Con legge del 10 nov. 1628 venne infatti istituito il magistrato degli Inquisitori, con il compito precipuo di vigilare sulla sicurezza dello Stato. La legge, giustificata dalla gravità del momento, aveva carattere di temporaneità; ma, alla scadenza dell'anno, veniva prorogata di altri sei anni e quindi, dal 1635, resa praticamente perpetua nella sua funzione di polizia politica.

Si ignora se a causa dell'impopolarità della legge (che peraltro il C. aveva fatto votare come disposizione temporanea) o per vendetta del duca di Savoia, smascherato dai congiurati e sconfitto nel successivo gioco diplomatico con la Spagna, il C. subì un secondo attentato alla sua vita.

Di questo episodio, di cui le cronache tacciono il nome del protagonista, definito genericamente un bandito di Voltri, si conosce in dettagli la dinamica. La domenica in Albis del 1629, durante la messa solenne in S. Lorenzo, fu trovato sotto il seggio del doge un rudimentale ordigno ad esplosione; l'attentato sarebbe stato sventato grazie alle rivelazioni di un barnabita. L'autore fu arrestato e condannato alla galea.

Il C. concluse il suo movimentato dogato il 28 giugno 1629, non senza aver prima condotto utili trattative con la Francia, in grado di assicurare una certa tranquillità alla Repubblica. Dichiarato procuratore perpetuo, il C. servì ancora lo Stato una trentina d'anni con incarichi di responsabilità o di rappresentanza. Nel 1630, dal 19 giugno al 19 luglio, fece parte, col senatore Marc'Antonio Doria e l'altro procuratore Filippo Centurione, di una deputazione incaricata delle accoglienze per l'infanta di Spagna, Maria regina d'Ungheria, di passaggio a Genova e diretta a Napoli. Dal 1630 al 1633 fu preside del magistrato di Guerra, poi di quello di Corsica nel 1633, '38 e '44; nel '34 e nel '39 preside degli Inquisitori. Nel 1638 il C. venne anche deputato dai Collegi a preparare, con Bartolomeo da Passano, il nuovo cerimoniale della Repubblica: approvata la loro relazione, il 25 genn. 1639 il Minor Consiglio varò la nuova legge. Nel decennio tra il 1645 e il '55, il C., probabilmente a causa dell'età avanzata, rivestì cariche di minore responsabilità: fece parte del magistrato delle Monache, dei delegati alla Fabbrica di S. Lorenzo, dei Confini ed anche di una deputazione per il controllo della corresponsione della giusta mercede agli operai. Dopo il 1655, il C., rimanendo sempre in funzione di procuratore perpetuo, non attese più a nessun ufficio governativo particolare. Ma, durante la terribile peste del 1656-57, nonostante l'età, fu uno degli undici senatori rimasti a Genova per provvedere alla salute pubblica.

Morì in un giorno imprecisabile del 1657, vittima dell'epidemia.

Fu sepolto nella cappella di famiglia di S. Francesco d'Assisi nella chiesa dell'Annunziata. Davanti alla chiesa abitava da quando, in epoca anteriore alla sua elezione ducale, era pervenuto al possesso del palazzo De Ferrari (poi passato ai Negrotto-Cambiaso) che egli aveva fatto decorare da Lazzaro Tavarone con pregevoli affreschi, raffiguranti, tra l'altro, l'impresa di Colombo. Il C. non lasciò discendenza maschile. Dal matrimonio con Chiaretta De Franchi Sacco fu Pietro aveva avuto tre figlie: Maria, poi sposa di Gerolamo Durazzo, e Tomasina, entrambe premorte al padre, e Clara, moglie di Stefano Salvago. Benché le fonti genealogiche non ne facciano cenno, anche la moglie Chiaretta premorì al C., che contrasse un nuovo matrimonio con Livia Maria de Fornari fu Giacomo. Livia è infatti nominata come moglie nel testamento del C., stilato in data 3 giugno 1638; testamento in cui il C., con Livia, lascia eredi dei suoi cospicui beni la figlia Chiara, il fratello Tomaso e il genero Durazzo, erede di Maria.

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