CORREGGIO, Giberto da

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 29 (1983)

CORREGGIO (de Corigia, da Corezo), Giberto da

Giorgio Montecchi

Figlio di Guido e di Mabilia di Giberto da Gente, nacque a Parma probabilmente tra il 1270 e il 1280. Il padre morì il 15 genn. 1299 al colmo della propria fortuna; quando, cacciati il vescovo e i principali esponenti della fazione avversaria, controllava di fatto tutte le leve del potere in Parma. La madre era figlia di quel Giberto da Gente che alcuni decenni prima aveva ricoperto più volte la carica di podestà e dal 1254 al 1259 aveva esercitato una vera e propria signoria sulla città.

Il C. è ricordato per la prima volta in occasione della tregua di Viadana tra le armate parmigiane e quelle del marchese Azzo d'Este del 18 giugno 1297, da lui sottoscritta a nome di suo padre e del fratello Matteo. Ma fu soprattutto dopo la morte del padre che il C. si mise in luce per le sue doti personali di scaltrezza e di lungimiranza. Nel 1302 si riunirono a Colomba presso Piacenza, chiamati da Alberto Scotti, i rappresentanti delle principali città dell'area padana per formare una lega e indurre Azzo VII d'Este ad abbandonare la signoria su Reggio e Modena. I Parmigiani, invitati ad aderire e a riprendere in città i fuorusciti della fazione del vescovo, cacciati da Guido da Correggio, rifiutarono, si allearono con l'Este e fortificarono Borgo San Donnino. Non tutti, però, erano di questo parere; in molti cominciarono a pensare che forse era meglio evitare in ogni modo la guerra contro la lega, scendere a un compromesso e acconsentire almeno alla richiesta di far rientrare in città i fuorusciti.

Con costoro si schierò anche il C. il quale, non contento che fossero statipoi richiamati solo i confinati e fossero stati esclusi quelli colpiti da bando, sollevò a rumore la città. Si evitò lo spargimento di sangue grazie all'intervento di alcuni cremonesi, tra i quali ebbe un ruolo decisivo Sopramonte Amati, cognato del C.; essi sedarono i tumulti e fecero riunire il Consiglio che proclamò il rientro di tutti i fuorusciti della cosiddetta pars episcopi senza distinzioni. Il loro ingresso avvenne il giorno seguente, il 25 luglio 1303; nel pomeriggio gli amici del C. e gli uomini appena rientrati - obbedendo probabilmente a un copione preparato in precedenza - al grido di "vivat dominus Ghibertus" occuparono il palazzo vecchio del Comune, convocarono il Consiglio e fecero proclamare il C. "signore, difensore e protettore della città, del Comune e del popolo di Parma, e conservatore della pace". Come già in passato a suo padre, gli fu consegnato il gonfalone di S. Maria e del Carroccio. Il giorno seguente il C. consolidò il proprio potere e ottenne dai membri del Consiglio un giuramento col quale si impegnavano a conservare e a difendere la sua signoria.

La potente famiglia dei Rossi, già alleata di Guido da Correggio dai tempi della cacciata dei fautori del vescovo ed ora contraria al loro rientro, non potendosi opporre validamente allo strapotere del C., preferì abbandonare la città e raggiungere i propri castelli del contado. Il C., infatti, godeva dell'appoggio delle altre principali famiglie parmigiane, e il suo potere rimase saldo anche quando, il 26 dicembre, sfuggì a un attentato nel quale rimase ucciso suo cugino Ugardo da Correggio. Subito vennero banditi da Parma gli attentatori e i loro complici, appartenenti soprattutto alle famiglie degli Enzola e dei Senaza. D'altra parte col passar del tempo i motivi di malcontento nei confronti del C. aumentavano: la sua ambiziosa politica di prestigio diventava sempre più onerosa, e l'accavallarsi, a volte ingiustificato e contro gli usi, delle imposizioni fiscali gli creò nuovi nemici; alcuni fecero ricorso ai giudici del Capitano del Popolo e si videro riconfermati i loro privilegi e le loro esenzioni.

Intanto il C. seguiva con attenzione quanto succedeva nella vicina Piacenza dove Alberto Scotti, passato dalla parte dei Visconti, si era inimicato non solo i Torriani ed i Milanesi, ma anche tutte le altre città ad essi collegate. I fuorusciti piacentini trovarono così numerosi alleati pronti a dar loro man forte per cacciare Alberto e rientrare in Piacenza. I primi tentativi furono sventati grazie all'intervento delle milizie parmigiane guidate da Matteo da Correggio, fratello del C., e da Niccolò Fogliani; ma in seguito gli estrinseci di Piacenza con l'aiuto di Milano, di Cremona, di Visconte Pelavicino e dei loro alleati minacciarono seriamente la città tanto che il C. in persona, il 21 nov. 1304, si recò a Piacenza in suo soccorso. Qui però si accorse che lo Scotti non godeva neppure del favore cittadino, per cui lo fece rifugiare col figlio in Parma e, dopo la sua deposizione, tentò di farsi proclamare signore anche di Piacenza. Ma non vi riuscì; quando, infatti, alcuni fiorentini e quelli del suo seguito lo acclamarono signore di Piacenza per cinque anni, il popolo insorse ed egli dovette tornare a Parma ed abbandonare la città, nella quale, allora, rientrarono i fuorusciti.

Intanto il C. doveva difendersi anche in casa propria. Il 6 ag. 1305, in seguito all'uccisione di un suo servo, si riaccese la lotta fra le varie fazioni cittadine. Alla fine furono sconfitte e bandite alcune delle principali famiglie aderenti alla pars Ecclestae: i Rossi, i Lupi e i loro amici si dovettero fortificare nei loro castelli. Il C., pur di rimanere al potere, si appoggiava agli uomini della pars episcopi e a quelli della pars Imperii, i primi rientrati in città grazie alla sua "pacificazione" del 1303, i secondi fatti tornare appositamente in quei giorni. Poco dopo con l'aiuto di Azzo d'Este assalì e distrusse i castelli e le terre dei Rossi, a Collecchio, a Segalara e a Neviano. La posizione del C. in Parma si fece sempre più critica; riuscì a sventare una congiura ordita contro di lui per deporlo ed accusò, non si sa su quale fondamento, Azzo d'Este di avere segretamente appoggiato i congiurati. Per questo si alleò coi tradizionali nemici dell'Este e, assieme con Bologna, Mantova e gli estrinseci di Reggio e di Modena, iniziò una lunga guerra contro di lui. Probabilmente desiderava trovare a Reggio e Modena quell'allargamento della sua signoria che gli era stato impedito a Piacenza.

Il primo tentativo di togliere ad Azzo Modena e Reggio, nonostante la sorpresa, fallì. In ottobre il C. provò di nuovo ad occupare militarmente Reggio, si accampò nelle sue vicinanze con l'intenzione di non allontanarsi senza averla prima conquistata, ma il sopraggiungere del cattivo tempo lo costrinse a tornare a Parma dopo solo quindici giorni. Nel frattempo i Rossi e i Lupi cercavano di rientrare in Parma; come primo passo occuparono e fortificarono Soragna, ben presto ripresa dal C., poi si allearono con Azzo d'Este per la lotta al comune nemico. Infine, all'inizio del 1306, il C. tentò per la terza volta di liberare Reggio e Modena dal dominio di Azzo. Cominciò con l'impadronirsi di numerose terre e castelli del territorio estense, favorendo in tal modo la rivolta dei Modenesi e dei Reggiani, i quali, di lì a poco, riuscirono a uccidere o a cacciare i soldati e i rappresentanti del marchese d'Este. Il C. poté, così, entrare pacificamente a Reggio con le truppe parmigiane; dopo alcuni giorni, però, in seguito all'opposizione di alcune famiglie, si vide costretto ad occupare militarmente la città, a mandare in esilio i Canossa, e a far riconoscere come podestà il proprio fratello Matteo. Solo allora restituì al Comune di Reggio i castelli da lui occupati nella lotta contro l'Este. Consolidò, poi, la propria posizione di prestigio all'interno della lega antiestense facendo sposare alla figlia Beatrice Alboino della Scala, signore di Verona, e alla figlia Vannina Francesco Bonaccolsi, figlio del signore di Mantova. Poco più tardi suo figlio Simone sposò Canzeleira, figlia di Matteo Maggi di Brescia.

Mentre il C., anche dopo l'abbandono della lega antiestense da parte di Bologna, continuava la lotta a fianco dei Veronesi e dei Mantovani ed accresceva nella regione il proprio prestigio, a Parma nel 1307 il suo potere cominciò a vacillare; e furono proprio gli aiuti di Brescia, Mantova e Verona che gli consentirono di aver ragione di una congiura nel momento in cui i suoi avversari, i Rossi e i Lupi diventavano sempre più forti ed inespugnabili nei loro castelli del contado. Questi ultimi accrebbero le loro possibilità di successo quando Alberto Scotti riuscì, il 25 luglio 1307, a tornare padrone di Piacenza, dove da questo momento poterono trovare un valido sostegno al loro disegno di rientrare in Parma. Per il momento, però, sembrava quasi impossibile cacciare il C., il quale coglieva sempre maggiori successi e il suo dominio sul medio corso del Po si rafforzava con l'occupazione di Guastalla e il controllo sul traffico fluviale, anche ai danni del commercio veneziano e del rifornimento di sale alle città padane.

Con l'inizio del 1308 quella coalizione di singoli e di gruppi familiari d'orientamento politico, in verità, assai eterogeneo che lo aveva appoggiato nella scalata al potere, si era ormai sfaldata. Le famiglie che già prima della conquista della signoria avevano costituito la base della sua fortuna e prima ancora di quella di suo padre, si erano da tempo suddivise in due fazioni contrapposte: da una parte il C. e i suoi - designati nelle cronache del tempo come "pars nova Ecclesiae" - e dall'altra i Rossi e i Lupi coi loro uomini, che costituivano la "pars antiqua Ecclesiae". Molti della pars episcopi, che lo avevano seguito dopo la pacificazione del 1303, ora facevano fronte comune coi Rossi e si allietavano del fatto che il C. non fosse riuscito a sbarrare la strada ad Alberto Scotti rientrato in Piacenza con la forza. Il C. poteva contare solo sull'aiuto della pars Imperii, la quale, rientrata in una città guelfa da più di due generazioni, non poteva garantire al suo potere una base sufficientemente ampia di consensi e di seguaci; assicurava però l'appoggio militare di Verona e di Mantova, che, come abbiamo visto, non venne meno nei momenti di pericolo. Ma un simile aiuto non fu sempre sufficiente.

Il 23 marzo 1308, dopo che il C. era riuscito a sedare a stento una rissa scoppiata nel palazzo vescovile, dove aveva da tempo stabilito la propria residenza, si riaccesero gli antichi odi di parte. Il giorno seguente i tumulti ripresero con più vigore e ne approfittarono i Rossi e i Lupi che, da Cremona, con Giacomo Cavalcabò e altri cavalieri, raggiunsero subito Parma. Lo stesso C., visto il loro piccolo numero, fece aprire la porta di S. Croce per poterli più facilmente catturare; ma quando questi entrarono in città, si unirono ad essi molti parmigiani armati che si impadronirono della piazza. Il C. ed il fratello Matteo dovettero abbandonare la città e rifugiarsi nei loro castelli.

Le discordie fra i nuovi padroni non mancarono; gli Enzola, usciti da Parma, fortificarono i loro castelli di Enzola e di Poviglio, poi si unirono ai Correggio. Nel giugno del 1308 i Parmigiani prepararono un esercito per andare a recuperare Enzola; ma il 19 di quello stesso mese furono sconfitti dagli armati messi insieme dal C., il quale, nonostante la vittoria, non osò marciare contro la città, difesa da Goffredino della Torre; vi entrò solo dopo la pace giurata dai suoi rappresentanti e dal Comune. Meno di quaranta giorni più tardi, il 3 agosto, appena Goffredino della Torre ebbe lasciato Parma e la duplice carica di podestà e di capitano del Popolo, il C. assalì con i suoi le abitazioni dei Lupi, dei Rossi e degli Enzola e tornò ad essere il solo padrone della città. I fuorusciti occuparono e fortificarono Borgo San Donnino, Ghiaruola e Torrechiara, ma queste due ultime località furono presto rioccupate dai Parmigiani.

All'inizio del 1309 il C. volle assicurarsi un maggior controllo sia sui ceti popolari, facendosi eleggere capitano dei mercanti per cinque anni, sia sugli uomini più in vista, facendo condannare o mandare al confino molti di essi sotto l'accusa di complicità coi Rossi. La situazione rimase pressoché immutata fino all'inizio del 1311, quando Enrico VII di Lussemburgo invitò il C. alla sua incoronazione in S. Ambrogio per il 6 gennaio e lo nominò cavaliere. La contropartita fu per il C. forse più dura del previsto e dopo un po' di esitazione dovette sottomettersi alla pace imposta dall'imperatore e richiamare in Parma i Rossi, i Lupi e i loro alleati. Vi rimasero, però, per poco tempo; il 25 febbraio furono di nuovo cacciati con le armi. Inoltre il C., che non era riuscito ad avere dall'imperatore la nomina a vicario di Parma, ottenne che vi fosse inviato con tale carica Francesco Malaspina, suo cognato e fedele alleato. Solo a questo punto si schierò decisamente dalla parte dell'imperatore: cavalcò con lui contro Brescia, gli restituì in segno di omaggio la corona imperiale che suo nonno Gherardo da Correggio aveva conquistato nella battaglia di Vittoria del 1248, e ne ottenne in cambio il rafforzamento del proprio potere su Parma e su Guastalla, appena riconquistata dai suoi seguaci, e il titolo di vicario di Reggio.

Dopo alcuni mesi i rapporti fra il C. e l'imperatore si guastarono; a Francesco Malaspina fu tolto il vicariato di Parma e il C. fu convocato a Pavia, ma, giunto a Tortona, seppe (o finse) di essere caduto in disgrazia e, per evitare la prigione, tornò subito a Parma. Da allora si unì allo schieramento antimperiale che, già forte altrove (re Roberto, Firenze, Siena e Lucca), estendeva ora con maggiore incisività la sua influenza al Nord, dove anche Filippone di Langosco sottrasse Pavia all'influenza imperiale e diede la figlia Elena in sposa al Correggio. Nonostante i successi incontrati dal C. nella lotta all'imperatore e il prestigio che acquistava presso i suoi nuovi alleati (dal 17 marzo 1312 era anche signore di Cremona) all'interno della città di Parma l'opposizione cresceva e i Rossi, con l'aiuto di Matteo Visconti e degli Imperiali, si impadronirono dei castelli di Medesano, di Paderno, di Torrechiara e di Borgo San Donnino. Visto il pericolo, il C. fortificò la città dove giunsero aiuti dai Cremonesi, dai Fiorentini e da re Roberto che, in cambio della signoria su Cremona, aveva nominato il C. capitano generale di Parma e della parte guelfa in Lombardia. La guerra continuò con il solito ed inutile susseguirsi di colpi di mano quando si sparse la notizia della morte di Enrico VII (24 ag. 1313); il C. allora prese l'iniziativa e riuscì a snidare diversi suoi avversari dai loro castelli del contado. Ormai ai Rossi, dopo che avevano dovuto abbandonare Borgo San Donnino e fortificarsi in Soragna, conveniva, se non volevano rimanere travolti, cercare un accordo con il C. ed affidarsi ad un compromesso di pace nelle mani di Ugo del Balzo, vicario di re Roberto in Lombardia. L'accordo fu suggellato dal matrimonio di Giberto, rimasto vedovo per la terza volta, con Maddalena, figlia di Guglielmino Rossi, celebrato il 1° sett. 1314.

Altre famiglie intanto, come quella di Giovannino Sanvitale e figli, tolti i bandi del Comune, tornarono in città riconciliate con il Correggio. Questo rientro delle famiglie avversarie in città, più che una conferma della sua autorità, fu un segno dei patteggiamenti cui venne costretto dai suoi alleati esterni; tanto più che ben presto dovette piegarsi anche alla volontà di Cangrande della Scala e di Passerino Bonaccolsi, che gli fecero far pace con Borgo San Donnino e gli imposero di accogliere in città lo stesso Manfredino Pelavicino. Ormai il C., ancora al vertice della vita politica parmigiana, incontrava sempre maggiori ostacoli al sogno di unire sotto il proprio dominio le città dell'area medio padana. Infatti la morte di Enrico VII non aveva lasciato, come lui e i suoi alleati speravano, un vuoto di potere nello schieramento imperiale, ma i Visconti, gli Scaligeri e i Bonaccolsi contrastarono con energia l'espansionismo guelfo e consolidarono le loro signorie su Milano, Verona e Mantova. Imponendogli la pace coi suoi avversari, aiutandoli apertamente contro di lui, o, infine, occupando le città a lui soggette, rendevano sempre meno incisiva la presenza del C. sulla scena politica padana e gli toglievano, col prestigio esterno, il più valido sostegno del suo dominio in Parma.

Il C., approfittando delle discordie tra Giacomo Cavalcabò e Ponzino Ponzoni, riuscì a farsi proclamare di nuovo signore di Cremona. Sembrava pronto a rilanciare le proprie ambizioni, ma dovette affrontare le forze concentriche di Milano Verona e Mantova. Resse all'urto e conservò la città, ma gli fu sottratto il centro di Casalmaggiore. Lasciati a Cremona i suoi uomini rientrò a Parma, dove la sua posizione era ormai compromessa. Il 25 luglio 1316 la città si sollevò e il popolo e i magnati la percorsero al grido di "viva il popolo e muoia Giberto Correggio". La congiura era stata preparata da mesi con un accordo tra il Visconti, Cangrande, Bonaccolsi e gli esponenti delle più potenti famiglie parmigiane: Gianquirico Sanvitale, genero del C., Rolando Rossi, suo cognato, Obizzo da Enzola, marito di una sua cugina, Paolo Aldighieri e Bonaccorso Ruggeri, pure suoi cognati, ed altri. La politica matrimoniale non era stata sufficiente a garantirgli il loro appoggio nel momento in cui, scontratosi, all'esterno con signorie ben più solide della sua, nessuno intendeva seguirlo in una avventura - la salvaguardia degli interessi medio padani di Parma - troppo pericolosa e troppo arrischiata.

Al C. non restò che prendere per l'ultima volta la via dell'esilio. Dai suoi castelli di Guardasone, Castelnuovo, Campegine e Bazzano e dalla città di Guastalla cercò di rientrare in Parma, ma, venutogli meno anche l'appoggio di Cremona, non gli restò che raccomandarsi a Roberto d'Angiò e ai suoi alleati. All'inizio del 1317 compì un lungo viaggio a Bologna, a Padova, in Romagna, in Toscana e presso il re Roberto per mettere insieme l'esercito col quale marciare contro Parma. Da parte loro i Parmigiani ottennero consistenti aiuti dai Milanesi, dai Veronesi e dai Mantovani ed occuparono alcuni centri fedeli al C., tra cui Coenzio, Enzola, Poviglio e Campegine, senza però compiervi gravi distruzioni; del resto il loro comandante Spinetta Malaspina non spinse la guerra a fondo per poter giungere più facilmente a un accordo che fu sottoscritto dai rappresentanti dei C. e dei Comune di Parma il 14 ag. 1317.Dopo essere stato al servizio di Roberto d'Angiò nella difesa di Genova tra il 1318 e il 1319, il C. poté finalmente portare la guerra sul Po come capitano generale delle forze guelfe di Toscana, di Romagna e di Lombardia. Con gli uomini della lega guelfa sconfisse i Modenesi, poi passò il Po vicino a Guastalla su un ponte di barche a andò alla difesa di Brescia per la quale riconquistò molti castelli sparsi nel contado; si volse poi contro la città di Cremona nella quale entrò, assieme ai Cavalcabò, il 23 nov. 1319. I Parmigiani, intanto, assistevano con crescente timore alle fortune militari del C., e, fortificata la città, chiesero aiuti ai loro alleati. L'unico a farsi avanti fu Galeazzo Visconti, il quale fece presidiare il fiume Po per impedire al C. e ai Cavalcabò di riattraversarlo e giunse a distruggere quasi completamente Guastalla, senza riuscire, però, a occuparne il castello.

Nel 1321 il C. aveva finalmente riunito nelle sue terre un forte esercito. Anche questa volta la fortuna non lo assistette: i della Torre lo abbandonarono per raggiungere Brescia; Spinetta Malaspina, ora suo alleato, dovette rientrare in Lunigiana per difenderla dai Lucchesi. Lo stesso C. alcuni mesi più tardi si ammalò gravemente, lasciò al suo avversario politico Rinaldo Bonaccolsi di Mantova il compito di provvedere ai suoi figli, e morì il 25 luglio 1321 a Castelnuovo Sotto senza essere riuscito a rimettere piede in Parma. Fu sepolto nelle sue terre di Castelnuovo Sotto e nel Quattrocento i suoi resti furono trasportati nella chiesa di S. Francesco di Correggio. Il C. ebbe quattro mogli: la prima, di cui si ignora il nome, era sorella di Francesco Malaspina e dal matrimonio nacquero Simone e Antonia; della seconda moglie, sposata nel 1301, si sa che apparteneva alla famiglia dei da Camino: da lei il C. ebbe Guido, Azzo, Giovanni, Beatrice e Vannina; nessun figlio ebbe dal breve matrimonio (1312) con Elena di Langosco; Maddalena Rossi, sposata nel 1314, gli diede la figlia Donella. Ebbe anche un figlio illegittimo di nome Lombardo.

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