CAPPONI, Gino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 19 (1976)

CAPPONI, Gino

Piero Treves

Nacque in Firenze il 13 sett. 1792, nell'avito palazzo di via S. Sebastiano, che dal giorno della sua morte perpetua il suo nome, unico figlio del marchese Pier Roberto e della marchesa Maddalena Frescobaldi (il marchese era maggiordomo della granduchessa Maria Amalia, consorte di Ferdinando III, e la marchesa Maddalena n'era dama d'onore), lignaggio antichissimo del quale i genitori erano consapevoli e fieri, ma nobiltà di contado e d'industria.

Ricevette una educazione domestica, essendo impensabile nella Firenze d'allora un'educazione "scolastica" per giovani del suo ceto e del suo rango, eppure curata e sostanzialmente "moderna".

Ottuagenario, scriveva ad A. De Gubernatis (Lettere, IV, p. 286:Firenze. 4 giugno 1872):"Miera obbligo dire, come io de' miei maestri non avessi altro che da lodarmi". Se gl'insegnamenti erano accettabili, pesò tuttavia sul C. il chiuso d'un'educazione solitaria e individuale, che aggravava la sua infelicità di figlio unico. E lo segnò per la vita, quanto e più delle vicissitudini in cui la famiglia si trovò tosto travolta.

Il 27 marzo 1799 occupata la Toscana dall'esercito del Direttorio, il padre seguiva il granduca nell'esilio di Vienna, lasciando tra Firenze e le varie ville del contado (la più frequentata ed amata fu sempre Varramista, nel basso Valdarno, sulla via per Pontedera e Pisa) il bimbo e la moglie; che, con molta energia, molto coraggio e scarsa letteratura, lasciò un ritratto vigoroso di sé e dei tempi in certa corrispondenza, soprattutto al marito (per cui vedi A. D'Ancona, Memorie e documenti di storia italiana dei secoli XVIII e XIX, Firenze 1913 pp. 245 ss.).

Della restaurazione, cioè delle violenze, dei paurosi massacri che l'accompagnarono al grido di "Viva Maria", diede giudizio severo, anticipando quello del figlio, che vecchio ancor rammentava di aver veduto "nel borgo di San Niccolò l'oscena entrata degli Aretini in Firenze" (Scritti, II, p. 2). Soggiungeva però il C.: "anch'oggi un brivido mi ricorre al sovvenirmi" d'un altro spettacolo, il rintocco meridiano della "campana di Palazzo" in Firenze libera, rintocco "insino allora vietato dai repubblicani per sospetto" e accolto da tutto un popolo in ginocchio. Forse il primo risveglio non del municipalismo toscano, ma dell'intima "toscanità" del C.: la quale doveva restare un tratto durevole del suo carattere e improntare l'opera sua tutta quanta.

L'autunno del 1799 si recò a Venezia con la madre per incontrarvi il padre, reduce da Vienna, e assistere di lungi al conclave in cui fu eletto Pio VII. La primavera del 1800, quasi presago di Marengo, il marchese Pier Roberto ritornava, questa volta con la moglie e col figlio, a Vienna.

Furono tre anni di molteplici, complesse, formative e delusive esperienze. "Era meco un precettore, l'abate Luigi Camici di Montevettolini in Val di Nievole, al quale io debbo d'avere amato gli studi". Così il C., nelle memorie (Scritti, II, p. 5), e poi, quasi con le stesse parole, nella citata lettera al De Gubernatis: "Un precettore giovane prete, che ebbi a tre anni, e prima che io giungessi a tredici infermo di una terribile malattia (e dopo due anni moriva, sempre giovane, qui in casa)"; "consunto forse dalle passioni d'un animo ardentissimo". Un prete che a Vienna predicava "la Domenica nella chiesa già dei Minoriti". Quale fosse l'insegnamento dell'abate Camici, altro e più Vienna insegnò al C.: la transizione dauna fase italianeggiante o italiana della città e della corte ad una fase tedesca od austro-germanica; un allontanarsi degli Asburgo dalle premesse, dalla civiltà, dai metodi di Maria Teresa e di Pietro Leopoldo, per germanizzarsi con Francesco I e divenire all'Italia sempre più estranei, sempre più dominatori e nemici. Non è da escludere, quindi, che già qui concepisse il C. quell'avviamento o indirizzo sostanzialmente antigermanico del suo pensiero, un antigermanesimo, tuttavia, che toto caelo differisce dall'antigermanesimo della più parte degli ottocenteschi eruditi italiani, generalmente ignorantissimi di cose tedesche, laddove il C. ne fu informatissimo sempre e seppe acutamente distinguere fra quanto della cultura germanica giovasse recepire e quanto, invece, convenisse respingere.

Il 1º maggio 1803 la famiglia Capponi prese la via del ritorno, perché la morte della granduchessa e le intese del granduca sia con i congiunti austriaci sia con la Francia vittoriosa scioglievano il marchese Pier Roberto da ogni ulteriore obbligo o legame. Per Salisburgo, dove il granduca si era ritirato, il Tirolo e il Brennero, discesero a Verona, donde, "fatta una breve corsa fino a Milano, Torino e Genova" (Scritti, II, p.13), rientrarono definitivamente a Firenze. Già in quel viaggio è probabile (come si arguisce dalle memorie) che il C. avvertisse il carattere prettamente italiano di Trento, del Trentino e dell'intero lago di Garda, che furono per lui vane rivendicazioni territoriali e ancor più vane speranze liberatrici durante la guerra del '66.

In Firenze studiò a S. Giovannino"più anni... matematiche sotto al P. Canovai" (Lettere, IV, p. 285), il quale "sopra tutti i popoli, amava gl'Inglesi" (e dev'essere, quindi, considerato il primo ispiratore dell'"anglomania" del Capponi). Altri gli rivelavano i tesori della classicità. Così, il servita Battini, nella cui cella al convento della SS. Annunziata il C. ebbe condiscepoli il Bagnoli e un amico, di tutta la vita (nonostante il "ghibellinismo" e le sautes d'humeur), il Niccolini. Così l'abate G. B. Zannoni, "ottimo iniziatore al mondo classico", e più tardi autorevole padrino del C. alla Crusca. Ma dai letterati toscani fra Sette e Ottocento, dallo stesso Micali che frequentava come lui la "conversazione" della contessa di Albany e trattava da pari a pari i maggiori dotti di Francia, il C., tuttavia, divergeva profondamente. Né quindi s'inserì nel filone culturalistico che aveva conseguito i maggiori trionfi con l'"etruscheria" del sec. XVIII.

Era comune al C. e ai suoi conterranei la consapevolezza del "romani noi non siamo" ("né siete voi", diceva all'amico veneto conte A. Sagredo, in una sua del 3 marzo 1860: Lettere, III, p. 344), dunque d'un'intima e radicata antiromanità, che fu orgoglio provinciale assai prima e più che presupposto e principio di storiografia "neoguelfa". Ma gli etruscomani settecenteschi e l'antichista Micali derivavano dall'"etruscheria" (che al C. pareva solo materia di studi scavistico-archeologici: vedi Lettere, III, p. 197) un motivo polemico dal quale il C. fu sempre alieno, innamoratissimo della sua "Toscanina", ma persuaso che questa non fosse la preromana od antiromana Etruria, sì anzi il frutto del superamento ed incivilimento cristiano della romanità. Il "mito", pertanto, dell'Italia avanti il dominio dei Romani (giusta il titolo dell'opera del Micali) non attecchì mai nello spirito e nell'opera del C.: quanto più s'impratichiva di cose classiche, lo studio dell'antico vide o volle si radicasse nell'intelligenza "storica" della civiltà e delle lettere, non già nel tecnicismo antiquario e nella preferenza indiscriminata a fonti non letterarie o, comunque, non scritte.

Sia pure sotto lo stimolo confessato della lettura di Chateaubriand, il C. tentava perciò l'esegesi dell'antico in ciò che dell'antico era, per i contemporanei d'Europa in ambito di rivoluzione romantica, l'aspetto più importante e più nuovo, il dramma greco. Ne scriveva acutamente fin dal 1809, ben prima di conoscere, e della voga di quel libro iniziatico, soprattutto per la Lombardia del Conciliatore e della Restaurazione, i Vorträge di A. W. Schlegel, aprendo così la via alle meditazioni e fantasie del conterraneo ed amico suo Centofanti.

Nella Firenze napoleonica malamente poteva, d'altronde, inserirsi il C., che non era (nonostante il sincero attaccamento alla dinastia lorenese) un legittimista né (nonostante il suo intimo e verace "progressismo") un giacobino. Si astenne così dall'accogliere, e tanto meno dal sollecitare, inviti ad entrar per qualche modo o con qualche incarico (quale rivestiva nel contempo a Firenze, donde una diuturna benché spesso discorde amicizia, il piemontese Cesare Balbo) nell'amministrazione francese. Ma anche si astenne dal brigare il favore dei salotti e dei letterati, né senza sorpresa accolse ad agosto del 1810 l'ascrizione alla Colombaria (di cui tosto divenne, e restò per la vita, presidente: Lettere, I, pp. 9 s.). Com'ebbe a confessar molto dopo al Vieusseux (Ibid., III, p.117; del 23 genn. 1854), aveva pensato "nella prima gioventù" a farsi "benedettino", e giudicava, con qualche ironia, "il più grande tra gli spropositi" di non aver seguito la vocazione. Non istupisce però che gli piacessero, superficialmente, le donne, pur avendo a sdegno la vita di società e il far, com'egli deprecò a suo tempo per il nipote Farinola, l'insulso e sterile mestiere del marchese fiorentino. Per sottrarlo all'una e all'altra tentazione, incompatibili col rango e il dovere di continuar la casata, il padre quasi nascostamente provvide a dargli in moglie la marchesina Giulia Riccardi Vernaccia (23 sett. 1811). Il matrimonio, al quale augurò lo Zannoni pubblicando l'Edipore nella versione del Segni, come D. Strocchi aveva augurato alle nozze dei genitori con la pubblicazione più acconcia d'un suo Inno a Venere, fu breve e infelice.

La sposa era "sanza lettere" e senza salute. Né gli diede l'erede aspettato, ma due bambine, la Marianna (26 luglio 1812) e l'Ortensia (19 sett. 1814), alla quale sopravvisse otto giorni. Il C. affidò le bimbe alle cure della marchesa Maddalena, e successivamente dell'ottima Agnese Corsi, che divenne una persona di famiglia nella casa desolata da troppe malattie e da troppe morti precoci.

Difettava al C. il proposito, o lo sfogo, d'un impegno serio, anche in cose futili o private. Pur oculato e non inesperto amministratore del suo ingente patrimonio terriero, massime dopo la morte del padre (4 ag. 1825), ebbe la competenza tecnica ma non il gusto delle imprese agricole, cui si dedicò, per esempio, il cugino ed amico marchese C. Ridolfi. Benché invitato a far parte delle varie accademie fiorentine (fin dai primi del '19 lo Zannoni brigava perché fosse ascritto alla Crusca, che poi lo elesse nel '26 e l'ebbe più volte arciconsolo), non aveva l'abito e l'animo per le cicalate e scritture di cui si compiacevano i letterati, massime i suoi conterranei. Con pienissima verità, né senza una punta d'orgoglio, scriveva al Balbo nel '29: "Io ho poco del letterato" (Lettere, I, p. 282) - anche per la sua felice inabilità, condivisa dall'amico-nemico Giordani, a far versi in un paese di pseudopoeti. Ora, nella Firenze della Restaurazione, un patrizio che poco praticasse la letteratura, che poco si curasse d'imprese agricole e meno di brillare a corte e in società, né fosse disposto a dormire nella sterile attesa che qualcosa mutasse, o nella sterile speranza che nulla mutasse, non poteva non essere uno spaesato, epperò un infelice. Infelice di una infelicità che ha, tuttavia, del romantico e deriva, più assai che dalle sventure domestiche o dalle frequenti infermità, da quel tipico virus del romanticismo europeo che in Francia si denominò l'ennui.

Questa la vera tragedia del C., quest'incapacità di uscire, come letterariamente dal saggio o frammento, così nella vita pratica in un concreto impulso e impegno politico. Fu "liberale" precipuamente perché uomo di religione, considerando la politica sempre un fatto di etica e di religione, né del suo liberalismo fece mistero nelle sorvegliate amicizie, nelle lettere controllate o copiate dalle varie polizie, negl'interessi non conformistici e nel bisogno di uscir quando e come potesse dall'enfer intellectuel della "Toscanina" sonnacchiosa e dell'Italia asservita, per cercare i suoi pari oltre l'Alpe.

Dopo gli anni di Vienna, la sua prima esperienza straniera fu Parigi. Era già uscito di Toscana nel '12, per un giro della Romagna (dove i Capponi avevano una grossa proprietà fondiaria, poi venduta, a Coccolia presso Imola) e dell'Umbria, a conoscervi uomini, luoghi e cose, a impratichirsi nella storia e nell'arte. Ma il viaggio, che compì in Francia dai primi di novembre del '13 (per Milano, Torino e Lione), latore, con altri quattro "tra ciamberlani e cose simili", di "un indirizzo di fedeltà e devozione in nome della buona città di Firenze" (Scritti, II, p. 16), segnò un'orma incancellabile nella sua vita, perché lo mise faccia a faccia con l'imperatore.

Narrò il dialogo in pagine fra le sue più celebri e felici (Scritti, II, pp. 18 ss.), a riprova che l'incontro con "uno di quegli uomini dei quali sta bene che l'umanità... s'inorgoglisca e che gli ammiri, ma è grazia di Dio il mandarceli molto di rado", gli diede il senso della storia, dell'incamazione presente d'un eroe alla Plutarco, quale non cessano di celebrare, nonostante le tradizionali riserve filosofico-diatribiche, le sue pagine pedagogiche. Ma ebbe in quell'incontro, in quel soggiorno, in quella disamina d'una corte prossima al dissolvimento, a nche la riprova di quanto, per un verso, di avventuriero e, per altro verso, di strettamente scientistico, epperò d'inumano e d'irreligioso, fosse nel Bonaparte, nel mondo cui egli dava una fittizia esistenza: e cui non dovevano sopravvivere se non gli uomini di religione, amici o avversi, che il C. conobbe, come il "giansenista" ed ex regicida Grégoire.

"Il primo dell'anno 1814 io era già in Firenze" (Scritti, II, p. 27), col desiderio di tornar tosto a Parigi, quand'anche altrimenti volgessero i fati di Francia e d'Italia. E il C., dopo aver fin dal '12 pagato il tributo all'erudizione provinciale, con la rivendicazione campanilistica di Amerigo Vespucci, a postuma difesa del Canovai dalle critiche del Napione, dovette ben presto avvertire come tutto ciò non gli bastava nemmeno a riempirgli le giornate, che incominciavano d'abitudine il mattino alle sei e duravano fino all'ora di accogliere e d'intrattenere gli ospiti (che era forse per lui l'aspetto più gradevole e consolante della sua solitaria esistenza).

Poiché nel clima della Restaurazione non era immediatamente pensabile un nuovo espatrio, né lo soddisfaceva alcuna carica presso il granduca, preferì di slargare la cerchia dei suoi contatti italiani. Passò in Roma l'inverno 1816-17, fu quindi a Napoli, nell'Agro campano e in Sicilia, accompagnandosi prima al conte Federico Confalonieri, poi al conte Girolamo di Velo. Il presente, la società, soprattutto meridionale, sostanzialmente lo deluse. Da Messina scriveva allo Zannoni, il 21 maggio del '17: "può credere che sono stato contento di aver veduto Agrigenti e Siracusa. Anzi quest'ultima mi ha fatto venir voglia di legger Tucídide; e noi lo faremo insieme, se le piacerà, al mio ritorno" (Lettere, I, p. 17). Donde, fra parentesi, la famigliarità con l'opera di uno storiografo, la cui parziale versione, ad opera del canonico fiorentino F. P. Boni, il C. avrebbe recensito nel '36 sul periodico napoletano Il Progresso (vedi Scritti, I, pp. 21 ss.).

Ma in Firenze più di Tucidide dovette prenderlo l'incontro con Carlo Alberto. Il quale, venuto per accasarsi "con la figlia del Granduca", strinse amicizia con il C., cui era stato commesso "l'ufficio cortigianesco di accompagnare quel Principe" (Scritti, II, pp. 30 ss.). Sperò in lui, che non faceva mistero né delle proprie ambizioni "italiane", né dei propri sentimenti antiaustriaci, per un più o meno rapido mutamento delle sorti d'Italia. Ma fu anche dei primi a dubitarne, a scorgere quelle deficienze di moralità e di carattere che resero il Carignano "esecrato" agli uomini del '21.

Tra essi erano due intimissimi del C., il Confalonieri e "quell'anima candida e a me amicissima di Gaetano De Castiglia", poi condannato a "dodici anni di prigionia nello Spielberg". Il C. non fu peraltro iniziato mai né alle loro trame, nel suo giudizio troppo astratte o troppo innocenti, né ad alcuna setta e congiura: non soltanto per la sua inabilità pratica, per l'avversione al cospirare, per il suo carattere soverchiamente critico ed indeciso, ma, e soprattutto, per l'assoluta diversità, ora e poi, della posizione sua da quella degli altri patrioti "settentrionali". Per i Piemontesi e i Lombardi, in minor misura anche per i Veneti, si poneva infatti il problema vuoi d'un grande Piemonte, conforme alle ambizioni padane di Casa Savoia, vuoi d'un regno dell'Alta Italia, cui avrebbero potuto eventualmente aderire anche i ducati di Modena e Parma. La cosa era invece tutt'altra per un toscano di razza, giustamente orgoglioso di quanto all'incivilimento d'Italia avevano conferito sia la Repubblica democratica sia il principato mediceo fino al vertice del progressismo riformatore con Pietro Leopoldo. Il quale però aveva anche iniziato, e i suoi successori avevano proseguito e affrettato, quel processo d'intorpidimento, frammezzo a una relativa mitezza di governo e ad una relativa prosperità, che il C. evocò e condannò, con la sua consueta signorilità, arguzia e amarezza, nel necrologio del Fossombroni (1844: Ibid., pp. 422 ss.).

Quasi anticipando il peggio che fallimento carloalbertino del 1821, come a prevenirlo o a premunirsene, il C. intraprese, quasi grand tour alla rovescia, in compagnia di Leopoldo Cicognara e del conte di Velo, il viaggio in Europa che ebbe inizio il 9 nov. 1818. A Milano prese contatto con gli uomini del Conciliatore, "del quale... lo spirito non potrebbe esser migliore" (Lettere, I, p.24). Fu, quindi, a Parigi, dal 14 dic. 1818 al 12 apr. 1819, incontrando il Botta a Rouen e compiacendosi dei primi due libri della Storia d'Italia, "dai quali ha bandite, grazie al cielo, quelle brutte e triviali parole, delle quali era piena la sua peraltro bella Storia d'America" (Ibid., p. 28). Il 14 aprile sbarcò a Dover. L'Inghilterra fu per lui quasi una rivelazione, la patria del cuore, siccome quella che ad una classe dirigente prevalentemente titolata ed universalmente umanistico-universitaria affiancava una classe manifatturiera borghese in rapido avanzamento, entrambe impegnate in fiere ma, tranne che in casi eccezionali, incruente lotte civili, mentre a formare e ad informare la pubblica opinione provvedeva la stampa, in particolare la stampa periodica liberale, di cui parve al C. esemplare l'Edinburgh Review.Donde quel "progetto di giornale", cui non fu estraneo il nuovo amico del C. londinese, l'esule Ugo Foscolo.

Troppo critico e troppo diverso, il C., per non avvertire i difetti del Foscolo, le sue dissipazioni, i suoi debiti, gli almanaccamenti politico-letterari, i vani sforzi o propositi per emergere, per salir su una cattedra, per acquistarsi o riconquistare l'indipendenza economica, in Inghilterra o altrove, né tutto gli piacque, allora e di poi, nell'opera critica e polemica di lui, segnatamente l'avversione al Manzoni, il silenzio sprezzante su Gli Inni sacri. Ma in Foscolo il C. anche vide potenzialmente un diverso se stesso, e l'eventualità di un ricupero dell'esule alla patria e alle lettere, né solo in quanto traduttore dell'Iliade e collaboratore od ispiratore del periodico al quale nei giorni di Londra i due amici pensavano e provvedevano insieme. Il "progetto di giornale", edito dal Carraresi dopo la morte del C. (Lettere, V, pp. 9 ss.), è certo il primo, ed è forse l'unico, "progetto" di dar all'Italia un periodico veracemente ed universalmente "europeo": che riflettesse cioè il progresso degli studi, prevalentemente storico-umanistico-letterari, ma senza trascurare del tutto l'informazione "scientifica", e ne conferisse notizia organica, mediante l'opera di corrispondenti e collaboratori insitu, al pubblico "medio" della nostra penisola. Una classe di lettori la cui esistenza, dubbia alle soglie del 1820, doveva dipendere dal successo e dalla diffusione del periodico: diverso in radice, per origine, per destinazione e per fine, dai giornali letterari che avevano sinora infestato, più che incivilito, l'Italia, tranne il solo Conciliatore, del quale si poneva come implicita continuazione, ma anche quale implicito superamento. Presupponeva anzi tutto, il giornale, un solo responsabile finanziario: "perciò chi l'intraprende non vuole obbligarsi a dividerne con chícchessia la direzione" (e qui già si scorgono il mecenatismo e la pratica amministrativa del marchese). Presupponeva un titolo destinato a durare pur nella diversità del periodico: Archivio di Letteratura.Presupponeva un fine ch'era manifesto sin dall'"epigrafe": "Patriae sit idoneus". Quindi, poca o punta "bella letteratura" (condannandosi in tale qualifica la mediocrità della rimeria occasionale e la consuetudine tanto delle cicalate erudite quanto delle polemiche ad hominem).Ma poesia e letteratura dovunque in verità si affermassero, e in quale forma si estrinsecassero. Perciò "la parola romanticismo abbia bando perpetuo dal Giornale". Ciò per contraddistinguersi dalla più o meno interessata polemica che aveva imperversato e rischiava di acuire i dissensi fra gl'Italiani, anziché riunirli nella discoverta, diffusione, elaborazione e recezione d'una cultura sostanzialmente nuova, popolare e moderna; e per avvertire che esisteva la realtà d'uno spirito europeo, dell'esistenza delle patrie e delle letterature, ch'era solo retrogrado provincialismo ignorare o spregiare. Non si poteva, quindi, acquistare coscienza di sé, del proprio presente e del proprio avvenire, senza una rinnovata conoscenza del proprio passato: donde il luogo che il giornale accordava agli studi storici, e nel senso dell'erudizione disseppellitrice e nel senso dell'intelligenza, interpretativa. Perciò, mentre (forse un po' a malincuore) si proponeva tra gli eventuali collaboratori e il Micali per l'Istoria antica", dell'antica letteratura si raccomandava una disamina "in grande e in opposizione eterna alla pedanteria, e si abbia per oggetto di farne conoscere lo spirito e non la grammatica. E si parli del carattere degli scrittori e della loro vita, e delle circostanze sotto le quali scrivevano; il che i filologi non hanno neppur mai sognato di fare" (Ibid., pp. 109, 96): dove, ancor più del nome, in verità meritevolissimo ed opportuno, del tedesco Heyne, si sarebbe dovuto citare il nome del Foscolo, commentatore della Chioma di Berenice.Parimenti foscoliano, o foscoliano-capponiano, è l'avvertimento: "in cose di Religione non si entri mai. Ove accada, si nomini la Religione sempre con la più gran venerazione, ma sulle generali", non per indifferenza illuministica o per comprensibile prudenza, sì anzi per storicistica avversione a quelle "maligne allusioni le quali conducono a svellere la Religione dal cuore di chi non ha abbastanza chiara la mente", essendo la religione "gran fondamento delle nazioni, essenziale per tutte, ma tanto più necessario a custodirsi in quelle, le quali son peggio costituite". Ed è poi segno di modernità ottocentesca, e tipico del C., richiedere: "si professi... la maggior libertà nelle ricerche di tutto quello che può contribuire al bene sociale. E queste questioni si discutano sempre come indipendenti dalla Religione, la quale vi è stata così mal mescolata". Dunque, la realtà "storica" delle religioni, o della religione: ma, nel contempo, il ripudio della religione quale instrumentum regni, quale copertura d'una politica retrograda e antisociale, nonché l'implicito-esplicito ribadimento d'una temperie non più materialistico-volterriana, ma lato sensu spiritualistica (sebbene il C., di contro al Manzoni vecchio amatore pentito del Voltaire, de' cui volumi volle disfarsi, anche col fuoco, ad espiazione del proprio "giovanile errore", costante ribadisse la sua conoscenza e memoria del pensatore francese, cui rivendicava titolo ed humus di pensatore cristiano).

Questo postumo e inattuato "progetto di giornale" (troppo inferiore riuscì la Antologia, e troppo più tecnica e limitata riuscì di necessità l'altra congiunta iniziativa del Vieusseux e del C., l'Archivio storico italiano) rivela il marchese all'acme della maturità intellettuale, nella pienezza delle sue finalità íncivilitrici ed europeistiche, nell'intima consapevolezza della "separazione impossibile" fra politica e cultura. L'ambiente britannico, i contatti con editori e letterati (massime il Jeffrey, direttore dell'Edinburgh Review, come ch'egli e i suoi biografi ne storpiassero il nome... ), l'esperienza della società Whig e del suo europeismo diedero al C. il respiro che gli difettava, fecero balenare dinanzi ai suoi occhi la visione d'un avvenire al quale si sentiva adeguato e che credette suo compito d'instaurare od anche sol di affrettare. Né importa che a quel ritmo non riuscisse poi ad accordarsi la restante sua vita, l'impedita o impacciata opera sua, quanto più gravarono su di lui, fino a prevalere, la sonnacchiosa "Toscanina" e il conseguente ennui.

Ultimati gli accordi col Murray per la stampa (a sue spese) del Nabucco niccoliniano, visitate la Scozia e l'Irlanda (dove misurò in tutto il loro rigore gli storici odi fra cattolici e protestanti, e le conseguenze, anche economico-sociali, della contesa), lasciò Londra (e il Foscolo, che non doveva più rivedere e di cui, tramite il Mazzini, avrebbe poi, di concerto con P. Bastogi ed E. Mayer, acquistato, e salvato all'Italia, i cosiddetti "manoscritti labronici") il S. Stefano del '19. Si trattenne a Parigi fino al 12 apr. 1820, proseguendo quindi alla volta del Belgio, dell'Olanda, della Germania renana e della Svizzera. Ebbe il senso immediato della tragedia europea, quale testimone dell'assassinio del duca di Berry all'Opera il 13 febbraio e dell'esecuzione dello studente Karl Sand, l'uccisore del Kotzebue, a Mannheim il 20 maggio.

Scrisse del primo episodio: "Non è comparsa ombra di cospirazione, ordita a guidar la mano dell'assassino; se pure non s'intenda della cospirazione la quale esiste nel maggior numero dei Francesi, e la quale si è mostrata, ora, secondo me, più allo scoperto che mai". E del secondo: "Sand andò al supplizio con l'istessa fermezza d'animo che aveva mostrato in tutta la sua vita" (Lettere, I, p. 53;Tabarrini, pp. 93 s., rispettivamente).

Avvertiva, però, l'indifferenza sogghignante della "plebe", la sua "leggerezza ordinaria": e ne traeva amaro insegnamento ed incerto auspicio per l'avvenire.

A costruirlo, credeva giovassero non le cospirazioni, ma l'educazione. Perciò, in comunanza di sentire con alcuni amici fiorentini, quali il Ridolfi e il marchese Giuseppe Pucci, visitò quel giugno il centro scolastico istituito a Hofwyl dal Fellenberg.

Anticipando quanto ne avrebbe poi scritto sull'Antologia del '22 (Gambaro, La critica, pp. 209 ss.), si compiacque non pur del fondamento religioso di quell'educazione, nonché della libertà religiosa che a Hofwyl si professava, ma anche, da buon terriero toscano, che all'insegnamento "umanistico" si affiancassero "istituti agrari", pur nell'obbligatorietà del greco e nell'entusiasmo per l'Odissea e per Plutarco, senza le astrazioni pestalozziane. Vi si applicavano, però, due principi al C. carissimi, il senso dell'emulazione e il rifiuto di caricare "la mente dei giovani... di molta istruzion positiva". Donde l'affettuosa e malinconica conclusione: "ci metterei un mio figlio" (Lettere, I p. 75).

Una battuta d'arresto fu la delusione amarissima e indimenticata del 1821. Oltre l'angoscia per gli amici, pesò certo e duramente sull'animo del C. la condotta di Carlo Alberto, massime durante il semiesilio del Carignano a Firenze. Soprattutto per il sospetto che avesse consegnato agli Austriaci lettere del Confalonieri e d'altri, fra cui anche sue, il C. finì col negargli "il saluto", solo riconciliandosi formalmente, e con scarso entusiasmo, quando Carlo Alberto lasciò Firenze. Troncata ogni relazione con lui, anche nella crisi del '48, non mancò di consegnare alle proprie memorie giudizi severi pur sull'esule di Oporto, benché il Collegno l'assicurasse nel '51 dell'amichevole pensiero del re per "cet excellent Capponi" (Scritti, II, pp. 30 s., 38). Superò lo sconforto, con l'attività di quello che fu probabilmente il suo decennio fiorentino meno infelice: il decennio dell'Antologia, della collaborazione fraterna col Vieusseux, dell'amicizia con gli esuli (Colletta, Poerio, Giordani), dei contatti non solamente letterari con Leopardi e Manzoni, dell'assidua revisione (col Giordani e col Capei, col Pieri e col Niccolini) della Storia di P. Colletta della quale il C. fu postumo editore ed autorevole laudatore. Non desisteva, frattanto, dai progetti educativi. Con molta fatica, dopo lunghe lettere e sollecitazioni a corte, ottenne dall'arciduchessa Maria Luisa di Baviera, consorte del futuro Leopoldo II, la fondazione (nel 1822) di una scuola femminile, diretta da M.me Camille Eenens, il convitto fiorentino della SS. Annunziata. Profittò della carica di ciambellano sia per opporsi alle avventatezze del Libri, sia, soprattutto, per organizzare la manifestazione "indipendentistica" e indirettamente, ma chiaramente, antiaustriaca, in occasione del ritorno da Vienna (novembre 1830) di Leopoldo II: vietata dal governo la manifestazione, il C., di concerto col Ridolfi e con P. F. Rinuccini, ne trasse motivo a restituire le chiavi di ciambellano, né a palazzo rientrò, se non allorquando gli eventi obbligarono il granduca ad una politica "liberale". Della nuova politica "illiberale" erano vittime, frattanto, il Giordani espulso (che accusò il C. di scarsa o punta solidarietà e ruppe con lui; vedi D'Ancona, Memorie e documenti, cit., pp. 536 ss.), il Colletta minacciato di sfratto (poi rinviato per l'intervento del C. e le condizioni tristissime del generale), l'Antologia soppressa per un articolo, reputato offensivo all'Austria, del Tommaseo. Questi, pressoché alla vigilia di emigrare in Francia, iniziò quell'amicizia vera col C. la quale, nonostante l'increscioso e pur commovente episodio dell'innamoramento con l'Ortensia, secondogenita del C., resta il tratto più singolare e la più scoperta confessione di quanto era meglio in entrambi (ma pur di quanto era di strambo, malato e malvagio nel Tommaseo).

L'amicizia che durò quanto la vita e trasse alimento dai comuni studi e dai comuni dolori, nonché dalla comune insoddisfazione "esistenziale", informa e governa quella che tuttavia rimane la scrittura più intima e rivelatrice del C.: appunto il carteggio (incompleto ancora, e forse per sempre, non essendo mai venuto in luce l'ultimo volume, la corrispondenza col Tommaseo posteriore al '59).Forse per la prima volta il C. si trovò di fronte ad uno che non era, né socialmente né per estrazione, un suo pari (od un suo dipendente-collaboratore, com'erano, ad esempio, il Polidori, il Bonaini, il Carraresi, in certa misura lo stesso Vieusseux): uno peraltro, che, mentre si sapeva, con qualche orgoglio, "plebeo", rivendicava, in virtù dell'umanità, dell'umanesimo e delle lettere, la sua "parità" col marchese, ed unico, anzi, si permetteva di motteggiare o d'irridere quanto era nel C. "marchese". Niun altro avrebbe osato dirglielo; a nessun altro, probabilmente, l'avrebbe permesso. Ma il C. al Tommaseo permise tutto, anche allorquando l'acrimonia del dalmata colpì, compromise, irritò i comuni amici, il Vannucci e il Niccolini, a non parlar delle frecciate velenosissime contro "il Gobbo" e il Cavour (quali si fossero le critiche personali del C. all'infelicità od irreligiosità del Leopardi - tanto meno, in verità, amato dal C., quanto più lo gravarono il peso e l'enigma della Palinodia - e alla politica del Cavour).

Un altro suo aspetto rivelò probabilmente il Tommaseo al C. medesimo, come certo rivela ai lettori, pur assuefattisi alla libertà di linguaggio delle lettere edite dal Carraresi. E questo, nonostante i tagli feroci imposti dalla pudibonda riverenza di I. Del Lungo, contro cui troppo tardi, e ormai vanamente, protestò il Prunas. Non tanto la coprolalia, il frequente ed intenzionale parlare sboccato, il compiacersene, come di una monelleria, da commettersi di nascosto, per discendere dal piedistallo patrizio; quanto l'audacia di confessioni da homme moyen sensuel, partecipe delle tentazioni della carne ed inchinevole al peccato, epperò generosamente compassionevole dei soverchi peccati dell'amico. Più in profondo, il C. riconobbe nel Tommaseo un suo pari anche nell'incapacità di concludere, nel dubbio sull'àquoi bon? della propria attività, per la consapevolezza in C. della mancanza d'una risposta o d'un'eco, quali pur trovava l'esule Tommaseo, nella Parigi di Luigi Filippo. In nessun'altra scrittura sua perciò emerge altrettanto il C. "inutilmente infelice" ma d'un'infelicità non tutta dovuta a lutti domestici, alla progressiva, e dal '43 o '44 totale, cecità (da cui era minacciata, al momento della sua morte precoce, anche l'Ortensia Incontri), alla situazione politica, al vuoto letargo della "Toscanina", quanto "esistenziale", conseguenza dell'ennui, incapacità di adattamento a un ambiente: in ultima analisi, e stupisce in un uomo così aperto e conversevole come il C., un difetto di comunicazione con gli uomini.

A rimediarvi, occorrevano "un'educazione virile", e il senso della storia, che, almeno sino alla vigilia del '59, si esprimono negli scritti di carattere "pedagogico" del C., nelle incompiute analisi da lui avviate sulla monarchia toscana di Pietro Leopoldo, "sull'Istoria del Cristianesimo ne' primi due secoli", nelle cinque lettere Sulla dominazione dei Longobardi (indirizzate all'amico P. Capei), cui si raccordano le cinque Letture di Economia toscana tenute all'Accademia dei Georgofili e, in certa misura quantunque per la maggior parte anteriori, le tre lezioni alla Crusca.

"Un'educazione virile", necessaria "all'Italia soprattutto" (Scritti, I, p. 328), è un'educazione religiosa, ma non gesuitica (il C. fu costante avversario dei gesuiti e troppo "leopoldino" per tollerarne la presenza in Toscana), sottratta al clero, secondo il sentire d'un secolo nato dalla Rivoluzione francese, cioè da una rivoluzione impegnata "nel nome di principii i quali erano (senza che la gente allora se ne accorgesse) essenzialmente cristiani" (Lettere, IV, p. 58). E il secolo, mentre rifugge ormai dalle antistoriche astrazioni del Rousseau, vuole "l'educazione, ch'era per lo innanzi un privilegio di pochi, dei prediletti dalla fortuna... come un diritto, un bisogno, un vincolo dell'umanità". L'educazione del secolo trascende perciò, nel comun vincolo dell'umanità, l'educazione "classica", ma non potrebbe prescinderne, perché educazione concreta e dell'uomo, di tutto l'uomo, non meramente libresca o tecnica o manualistica. Per aver "i figli nostri migliori di noi", occorrono livellamento sociale e libertà, occorrono intercambio ed interclassismo: "cessate affatto quelle voci odiose che poco fa predicavano, per aver pace nel mondo, il tener basse le moltitudini, oggi gli stessi potenti cercano mezzi a promuovere, senza timore né astio, l'educazione del popolo; a questo fine s'accordano tutte (come oggi dicono) le idee del progresso, e quelle insieme dell'ordine". Ma "una generazione d'artefici", quale par destinata ad uscire dai principi e dalle pratiche educative contemporanee, non dev'essere "un popolo macchina che incessantemente produca". Anzi, di contro al macchinismo e alla programmazione, il C. rivendica l'autonomia creativa dell'individuo per virtù di storia, di sentimento e di religione, lo sviluppo e il potenziamento dello spirito del fanciullo, ch'è essenzialmente sintetico, né dev'essere perciò tarpato con l'analisi grammaticale e l'uggia d'un pedagogismo livellatore. La vita non si rinserra né in un sistema né in un catechismo (ecclesiastico o laico): tanto meno poi nel psittacistico formulario d'un libro. Donde il presunto paradosso didattico d'un suo discorso al Senato, il 10 dic. 1867, quando raccomandava, o restringeva, l'insegnamento (secondario) della storia a "un libretto di cento pagine, che insegnasse come ordinare la storia nei tempi e nei luoghi, e che queste cento pagine fossero poi commentate da un ottimo professore", grazie al quale "la storia deve riuscire... come una predica, ...la più potente di tutte le prediche". Donde la tematica e la qualità dell'opera storiografica del Capponi.

Il problema di come la "Toscanina", sostanzialmente di popolo pur sotto i Medici granduchi, divenisse uno Stato, e la storia d'uno Stato, assoluto, accentratore ma riformatore, capace o desideroso di adeguarsi, per le guise politico-economico-religioso-amministrative del suo governo, ai metodi, programmi e ambizioni delle monarchie illuminate, ma egemoniche, del Settecento, fu l'origine e la materia del frammento su Pietro Leopoldo, quasi preannunzio in aenigmate di ciò che sarebbe potuta e dovuta essere la Toscana nell'Italia risorgimentale.

Il problema di come il cristianesimo da "primizia d'amore" fosse divenuto religione dogmatica (e i dogmi il C., almeno fino al 1844, se li accettava come un articolo di fede, l'interpretava tuttavia storicamente, o addirittura pragmatisticamente, negando ad esempio la presenza reale di Cristo nell'ostia e attribuendo invece alla comunione mero valore rammemorativo-comunitario), e come questa si fosse organizzata di poi, non pur in un sistema ecclesiale, ma in un potere politico, ispira e governa l'incompiuta trattazione (rilevantissima e memorabile anche sul piano della filologia od erudizione storica, nella puntualizzazione del rapporto fra società imperiale pagana e fatto cristiano) su La storia civile dei Papi.Èla premessa storica, o la liquidazione storica, di quell'immediato problema etico-politico dei liberali e neoguelfi, il problema appunto del potere temporale dei papi e di come quest'ultimo si conciliasse tanto con la società civile quanto con l'unità nazionale (sebbene il C. poi combattesse contro la spedizione di Roma, contro il plebiscito romano e contro il trasferimento della capitale sinché un accordo non fosse intervenuto fra monarchia sabauda e S. Sede sul fondamento della formula cavouriana o d'altra meno politica, sempre però sul fondamento della libertà e mai sul fondamento temporalistico dei concordati).

Infine, il problema dei caratteri genetici, del formarsi e divenire storico d'una, esistente o non ancora esistente, nazione italiana, un problema che in altri suoi contemporanei poteva essere meramente erudito o meramente "politico", governa e domina le cinque Lettere sulla dominazione dei Longobardi, nelle quali, più che la tesi "guelfa" e la difesa dei pontefici e di Carlomagno, prevale il problema "storico" della nazionalità, del retaggio romano e cristiano d'Italia, dell'antitesi o compenetrazione, pertanto, del mondo latino e del mondo germanico. Le razze medesime vengono qui e così interpretate non animalescamente ma storicamente, cioè come potenzialità elementari capaci d'incivilimento, artefici, però, di situazioni e sviluppi diversi, convergenti e compresenti, nell'unica realtà dell'uomo europeo: donde la necessità d'una progressiva immissione italiana in ambito extra-neolatino od anglosassone o germanico tout court, un'operazione culturale di recupero all'Italia delle letterature moderne e un'operazione scolastica d'insegnamento delle lingue moderne, tanto era lungi, il C., dal panlatinismo, dal classicismo tradizionale, dal pseudopatriottico antigermanesimo dei retori e dei retrivi.

Quest'alta spiritualità informò anche la politica pratica del C. "non-politico". Avversò del pari la nomina - sollecitata dal granduca nel 1840 - del Rosmini a una cattedra nell'università di Pisa (perché, scriveva al Tommaseo, Carteggio, II, p. 165, "un po' ferocetto, e che potrebbe alla occorrenza divenire anche persecutore") e, per motivo contrario ed uguale, l'opera e la persona del Guerrazzi, che pur si teneva dell'amicizia del C. e gli dedicò l'Isabella Orsini (avversandone la volgarità demagogica e il praticismo dell'arruffapopoli, avido di danaro e di onori). Com'è significativo che, pur amicissimo del Balbo e temperato ammiratore del Gioberti (massime, ed è curioso, l'autore del Rinnovamento), si dichiarasse "guelfo, ma non però quanto lo siete voi due" (Ibid., p.172).

Consentiva con l'autore delle Speranze d'Italia, "audacissimo, perché... moderato". Consentiva che l'avvenire, il risorgimento, nonostante il suo vario ma sostanzialmente sempre ostile giudizio su G. Mazzini, non potessero essere opera se non di moderati, cioè di costituzionalisti europei. Consentiva che il processo doveva essere lungo, lento, paziente, né si doleva a udirsi "chiamare predicatore della disperazione, o almeno di troppo inerte rassegnazione" (Ibid., p. 171: 5 sett. 1844). Ma in proprio non disarmava; e disarmava anzi l'avversario con la sua calma, la sua tenacia e la sua fermezza incrollabile.

Sapeva e diceva sorvegliata la sua corrispondenza. Apprese con qualche stupore nel '37, fermato alla frontiera austriaca nel Mantovano mentre era in viaggio per le acque di Karlsbad, che Vienna aveva proibito il suo ingresso nei domini asburgici (né valse l'intervento delle autorità granducali). Non si astenne dall'intraprendere nell'autunno del '39, mortagli da poco la madre (9 aprile), un viaggio nella Francia meridionale che doveva permettergli di riveder Tommaseo e Confalonieri. Non incontrò né l'uno né l'altro, benché riabbracciasse poco di poi a Ginevra il conte, scampato allo Spielberg e alla deportazione americana. Come nel viaggio di Francia aveva avuto compagno il Capei, così ebbe compagno nel viaggio in Germania del '41 G. L. Morelli; e a Monaco non soltanto strinse amicizia con Döllinger e Schelling, ma si fece visitare gli occhi dal celebre Walther, il cui relativamente ottimistico "ragguaglio" (Ibid., pp. 30 s.) ebbe di lì a non molto una tragica smentita, quando fallì anche l'intervento operatorio tentato a Firenze dal Germier il 22 ag. 1843. Nulla d'altronde pesò la cecità sull'animus e la "politica" del C., almeno da quando si affiancò al d'Azeglio nella pubblica protesta per i fatti di Rimini (1845), e per informare l'opinione pubblica europea, soprattutto franco-inglese, sul problema italiano, insolubile per mera agitazione o rivolta di popolo (e qui l'esperto C., buon conoscitore della sua terra e dei suoi contadini, e libero da qual si voglia obbligo od entusiasmo sabaudo-piemontese, vedeva più giusto dei ziniani e degli albertisti). Impegnato, com'egli scriveva scherzosamente, a dettar "un'opera che avrà per titolo "Della imbecillità degli Italiani in tutti i rami del sapere"" (Ibid., p. 133) nei giorni medesimi che l'Italia s'infanatichiva per il Primato, nemmeno condivise gli entusiasmi per Pio IX, pur prontissimo ad accogliere tutto il bene che potesse venirne. "Importa dire", scriveva il 10 sett. 1846 all'esule G. Libri (Ibid., p. 255) "che Pio Nono vuole solamente questo", cioè "riforme savie e progressive". Ma si affrettava a soggiungere: "anche importa dire che l'Austria ostilità non deve temere; ma che per fare piacere a lei, non è obbligo che gli altri Stati sieno mal governati". Non rifiutò quindi la sua partecipazione all'opera riformatrice e agli organi di governo promossi da Leopoldo II.

Il 24 ag. 1847 fu nominato "a far parte della R. Consulta di Stato", dopo che già s'era battuto per la libertà della stampa e il suo diritto a fondar con amici il giornale La Fenice, né aveva mancato d'insistere col Baldasseroni sulla necessità e l'urgenza delle riforme, e col Capei sull'inesistenza in Toscana d'una minaccia comunista, "poco temibile ovunque, fuorché in Inghilterra" (Ibid., p. 286).Da consultore provvide alla elaborazione della legge che istituiva la guardia civica; quindi, col Capei e col Landucci, col Galeotti e col Lami, alla redazione dello Statuto, il febbraio del '48. Già il 2febbraio, però, non taceva al Matteucci le sue preoccupazioni per essere, gli uomini del governo, "troppo sconfidati di noi" e troppo spauriti del moto "democratico" livornese (Ibid., p. 370).Perciò il messaggio che Lamartine lesse alla Camera dei pari, e nel quale il C. rendeva omaggio non pur alla "buona fede" del principe, sì anche all'unanime partecipazione del popolo al movimento, liberatore ma moderato, e quindi tanto più meritevole dell'appoggio francese, è probabile gli fosse suggerito da giuste considerazioni di opportunità politica più che da un intimo convincimento: sia perché le riforme non rampollavano dagli organi preesistenti e meglio capaci di affrettar l'educazione popolare al self-government (ne' suoi diversi livelli comunali, provinciali e nazionali), sia, e soprattutto, perché alla Toscana difettavano anni ed armati, l'esperienza militare, l'orgoglio e le tradizioni d'un esercito.

Gli eventi bellici, quindi, non lo sorpresero, e confermarono la sua critica di principio al "piemontesismo", all'impossibilità non che dell'unificazione della penisola, ma della stessa confederazione italiana, e questo soprattutto per l'antagonismo fra Napoli e Torino.

Talché, pur dicendo "brutte le cose di Napoli", ossia i tumulti del 15maggio, raccomandava al Balbo di non dimenticare che "a Napoli Re e popolo si accordano in questo: che vogliono essere Napoletani e non estrema parte d'Italia" (Ibid., p.400). E al Matteucci ribadiva il 25maggio: "è necessario... soprattutto mostrare che si vuol mettere il Piemonte in Italia e non l'Italia in Piemonte" (Ibid., p. 403).

Consapevole dell'impossibilità sia di vincer sul campo, per l'inerzia e l'insufficienza dell'alto comando piemontese, sia di risolvere politicamente o diplomaticamente il problema italiano (tanto meno se sulla base del "fusionismo"), non ebbe a stupirsi dell'armistizio di Salasco, presupposto e precondizione del ministero che il C., senatore dal 26 giugno, ebbe l'incarico di costituire il 17 agosto.

Il C. dettò fra il 1850e il 1851la storia dei suoi Settanta giorni di ministero (Scritti, II, pp. 62 ss.), non tanto a difendersi dalle critiche d'incapacità e d'irrisolutezza, quanto a lumeggiare la propria condotta e a precisare i suoi propositi. Debole governo il suo, perché disarmato e sostanzialmente incapace tanto di patteggiar col Guerrazzi e i "democratici" livornesi, accogliendone il leader nel ministero, quanto di mobilitare contro essi le forze della guardia civica e dell'esercito. Ma coerente, sia in politica interna sia, e più, in politica estera. L'armistizio di Salasco, che a Torino si voleva durasse fin quando non si fosse in grado di riprendere le ostilità contro l'Austria (con o senza l'appoggio francese), doveva invece, secondo il C., trasformarsi, grazie alla mediazione franco-inglese, in un nuovo assetto italiano, almeno dell'Alta Italia. A questo, peraltro, si richiedevano la sostanziale rinunzia di Carlo Alberto e al grande Piemonte e all'espansione italiana (previo forse qualche compenso territoriale a spese dei ducati ed eventualmente della stessa Toscana, che avrebbe ceduto Pontremoli e l'entroterra lunigiano fino a Sarzana compresa), l'intesa di Firenze con Roma e Torino in una sorta di piccola confederazione, quando non si potesse raggiungere l'optimum d'una confederazione cui partecipassero il Regno di Napoli, eventualmente una Sicilia autonoma (meglio se sotto un principe italiano anziché repubblica anglofila) e, in uno o due Stati semi-indipendenti e non necessariamente "absburgici", il Lombardo-Veneto. Se non si provvedeva a dar tosto un assetto all'Italia, diveniva infatti inevitabile l'intervento austriaco per abolire in ogni Stato della penisola il governo, costituzionale, restaurando i principi quali sovrani assoluti e obbedienti alle direttive di Vienna, come e peggio che dopo la rivoluzione del '20.

Il dissenso fu, quindi, incolmabile sia nei confronti del Piemonte sia nei confronti dei "democratici", alle cui mene il ministero Capponi soggiacque il 26 ottobre. Le sorti del ministero, Guerrazzi-Montanelli, che gli succedette, comprovano l'esattezza delle vedute politiche del marchese. Mentre il Guerrazzi agiva sul piano interno da demagogo cortigiano e sobillava l'antipiemontesismo del granduca, questi, ben lungi dal favorire l'osservanza delle guarentigie costituzionali, finì a Gaeta presso Pio IX, invocando e legittimando così l'intervento austriaco e la restaurazione assolutistica. Sul piano internazionale, d'altronde, mancate le intese col Piemonte (tanto il Piemonte "democratico" del Gioberti quanto il Piemonte "albertista"), soppressa l'Assemblea e fallita ogni possibilità di collaborazione solidale od armata con le repubbliche resistenziali del Mazzini e del Manin, il Guerrazzi fu prevenuto dai moderati nel tentativo di giocar l'ultima carta della restaurazione granducale per impedire o raddolcire la restaurazione austriaca, evitando così la soppressione dello Statuto. Il C. si lasciò indurre, soprattutto dal prefetto di Firenze Guidi Rontani, a far parte della Commissione governativa, la quale provocò il moto. popolare del 12 apr. 1849, o ne profittò comunque per rovesciare il Guerrazzi. Sperò il C. che l'ex dittatore potesse venir tratto in salvo al di là della frontiera prima dell'intervento austriaco. Poco mancò non fosse invece fucilato dalla soldatesca; ma riuscì al C. di ottenerne in extremis dal commissario Serristori il trasferimento dalla fortezza del Belvedere al carcere di Volterra. Donde però la prigionia, il processo e l'Apologia dell'ex dittatore, che alimentarono contro il C. le ire dei "democratici", non solamente guerrazziani o toscani; mentre, all'entrata degli Austriaci in Firenze, avvenuta il 25 maggio, il marchese pubblicamente compiacevasi della propria cecità, che gli permetteva di non vederli.

Il decennio dal '49 al '59 gli fu aspro e amaro, costellato di gravi lutti, massimo forse la morte nel suo palazzo, il 31 marzo 1850, di G. Giusti, ch'era divenuto un poco il suo allievo e quasi figlio d'anima, e dei cui scritti si fece editore. Mostrò la sua opposizione presenziando alla messa (vietata) che il giovedì della Ascensione 1851 si doveva celebrare in S. Croce a suffragio dei caduti di Curtatone; rischiò di restar ferito nella sparatoria ed ebbe poi noie d'interrogatori polizieschi.

Guardava ora con fiducia al Piemonte, lieto che si riprendesse dopo la rotta di Novara, "la quale... ritemprò quello Stato senza abbatterne le fortune, ma invece rialzandole nella opinione degli uomini e nella stima dei potentati" (Scritti, II, p.101; cfr. Lettere, III, pp. 5 s., 130 s.), e tenesse fede al tricolore. Ma non era né piemontesista né, propriamente, "cavouriano", sebbene fosse tra i pochissimi ad approvare la spedizione di Crimea (Lettere, III, pp. 142 s.), augurandosi, come scriveva ad Eugène Rendu, che "le Piémont profitera quelque jour, sous une forme ou sous une autre, de la confraternité des armes, et l'Italie à sa suite". Ancor nel febbraio del '59 si esprimeva in termini dubbiosi e guardinghi al Bon Compagni, ministro sardo a Firenze ("che ora mi sembrano cosa brutta", chiosava autocritico il 1º giugno 1875: ma giustificandosene con verità, in quanto non credeva "allora possibile l'unione d'Italia. Della politica Piemontese [aggiunse] non ebbi luogo d'esser contento nel '48; perché di noi, né degli altri Stati d'Italia, non mostravano fare mai conto": Ibid., p. 239). Fin dal '51, però, nell'anonima prefazione alla traduzione inglese (opera di Robinia Young, consorte a C. Matteucci) del volumetto memorabile di Emilio Dandolo, mentre formulava giudizi aspri e ingiusti sul "settarismo" e il presunto "non cristianesimo" del Mazzini, non soltanto compiacevasi a ricordare che "quei giovani amici del nostro autore, morivano invocando il Dio vero de' cristiani, e chiamando il prete", non soltanto rivendicava l'opera e il merito dei volontari lombardi nella, e di contro alla, "guerra regia" del '48, ma quasi religiosamente ribadiva "quel che di grave, di grande, e a così dire, di smisurato, si ravvolgeva in quel dramma portentoso e mai sempre memorabile" della difesa di Roma. Nemico della Repubblica mazziniana e prossimo nemico della "breccia", non si peritava di concludere: "Le nostre simpatie furono sempre pei difensori di Roma... il nome di lui [Emilio Dandolo], e quelli di Luciano Manara, di Enrico Dandolo e di Emilio Morosini, che sotto Roma incontrarono virtuosamente la morte, rimarranno benemeriti e dall'Italia sempre onorati, e noi speriamo anche benedetti" (Scritti, II, pp. 208 s., 227 s.). Simile in questo pure al Cattaneo, col quale rivela più d'una, ancora inesplorata, analogia, l'antipiemontese C. conformemente elogiava al Rendu, il 12 apr. 1859, "cette affluence en Piémont, ces milliers de volontaires qui augmentent tous les jours à la barbe et sous les yeux des Autrichiens, et nos lions des cafés allant par dizaines à s'enroler comme simples soldats" (Lettere, III, p.252). Ma con verità, né senza rammarico, si dichiarava poco di poi impartecipe del moto rivoluzionario del 27 aprile. Il quale aveva il merito di aver costretto i Lorena ad andarsene, ma apriva la grande incognita: che fare della Toscana e come fare l'Italia?

Del "negativo" non ebbe dubbi: comunque volgessero i fati, era la fine irrevocabile della "Toscanina". Scriveva, il 24 agosto, alla contessa Rossi Gabardi (Lettere, III, p.297): "Quella nostra Toscanina era pur bella e cara cosa, e anche a me piaceva; ma comunque voltino le cose, è roba finita: questo abbiatelo per fermo". Né diede il minimo contributo o consenso alle soluzioni variamente prospettate dalla diplomazia europea (restaurazione lorenese nella persona dell'arciduca ereditario, sovranità di Gerolamo Napoleone, d'un Murat, d'un principe sabaudo, ecc.). Dubitava, tuttavia, del "positivo", e dubitò a lungo, quantunque amico al Ricasoli e a don Neri Corsini (presso cui fungeva da segretario il nipote del C., Ludovico Incontri), quantunque il governo toscano lo colmasse di attestazioni d'onore: consigliere comunale di Firenze, membro della Consulta (di cui rifiutò l'offertagli presidenza), soprintendente (più o meno onorario) dell'Istituto di studi superiori, ecc.Lo tenne "inquieto" "questa roba del Garibaldi", cioè la spedizione dei Mille, come scrisse il 9 maggio 1860 al Vieusseux, soprattutto perché avverso del pari al repubblicanesimo giacobino e alla sabauda "politica del carciofo". Rivendicava, cioè, oltre la necessità militare, immediata, dell'"unione", la necessità d'un rivolgimento nelle direttive annessionistico-espansioniste del governo sardo. Partecipò tuttavia al duplice voto in Palazzo Vecchio che sanciva (il 16 ag. 1859) la decadenza della dinastia lorenese e (il 20) l'ingresso della Toscana in "un forte Regno italiano,... sotto lo scettro costituzionale del Re Vittorio Emanuele".

Fin dal giorno 19 egli scriveva coraggiosamente al Tommaseo (in Carteggio Capponi-Tommaseo, IV, 2, p. 171): "Sapete ch'io non volli mai partecipare alle prime mosse, poi lungamente rimasi incerto prima di accettare le cose fatte: sono ora quieto e interamente sicuro nella coscienza". E altrettanto, poco di poi, alla marchesa Costanza Arconati (Lettere, III, p. 316):"Ivoti ho dati, non senza lunghe dubitazioni: ora che gli ho dati, ne sono tranquillo e sicurissimo, e di tutto ciò soddisfatto anche nella coscienza mia". La quale, peraltro, gl'impose sia di vegliare contro l'ingerenza, l'invadenza e il livellamento piemontesi, sia d'intervenire in favore di veri o presunti "codini", comunque ingiustamente perseguitati (mons. Enrico Bindi, fra gli altri).

La monarchia l'onorò degnamente, conferendogli subito il laticlavio, quindi il cavalierato dell'Ordine civile di Savoia e, nel maggio 1863, il collare dell'Annunziata. Non per questo il C. mancò di essere all'opposizione, pur trovando nella propria infermità e cecità un pretesto valido per non recarsi a Torino, ogni qual volta la sua coscienza gli dettasse il dovere dell'opposizione. Questa, manifesta ed anche aspra soprattutto in materia "ecclesiastica", non ubbidì peraltro mai a remore "confessionali", e gli fu anzi sovente suggerita dal rifiuto dei compromessi o degl'ibridismi. Oppose fieramente (a novembre del '63) la dottrina del matrimonio civile, considerandolo un mero concubinato e un mero contratto. Ma disse subito che in regime di "matrimonio civile" s'imponeva, per logica e in diritto l'adozione del divorzio, e rimproverò al governo questo difetto di logica, appunto, e di coraggio (Scritti, I) pp. 450 ss.; Lettere, III, pp. 495-97). Avverso alla Convenzione di settembre, non perché importasse il trasferimento, cui era sostanzialmente indifferente, della capitale da Torino a Firenze, ma perché non credeva all'effettiva realtà della rinunzia a Roma, ed avvertiva pertanto ciò che di pericolosamente tortuoso era nella convenzione medesima, fu lieto però di poter intervenire in Firenze ai lavori del Senato, soprattutto in materia di educazione (discorso del 10 dic. 1867)e in materia ecclesiastica (massime dopo, e contro la "breccia" e l'insufficienza delle Guarentigie).

Mentre scomparivano ad uno ad uno quasi tutti i suoi coetanei e non pochi congiunti giovani (il genero, marchese Francesco Gentile Farinola, già nell'aprile del '60, quindi il nipote Piero), e non sopravvivevano di suoi pari se non il Manzoni (riverito e graditissimo ospite, più volte, a Varramista) fino al '73, e il Tommaseo, fiorentinizzatosi nell'abbaino del Lungarno alle Grazie, fino al '74, questo vecchio indomito non invecchiava. Perché seppe guardar con fiducia ai giovani e bene augurare ai loro studi.

Negli anni '60 è soprattutto notevole la sua corrispondenza, non meramente epistolare, con i "neoguelfi" napoletani (laici come A. della Valle di Casanova e F. Persico, od ecclesiastici come A. Capecelatro e Ludovico da Casoria) e con umanisti "pratici", epperò a lui affini, del Veneto, quali il Sagredo e il Cittadella Vigodarzere, A. Rossi e F. Lampertico (oltre allo Zanella e al De Leva, a Mariano e Antonio Fogazzaro). Né la lezione del '66 ebbe per lui le conseguenze "traumatiche" di cui resta documento eloquente il celebre scritto inquisitoriale del Villari. Quest'ultimo, del resto, fu incoraggiato e lodato dal C., pur assai meno "piagnone" di lui e del Guasti e, in genere, della comune cerchia fiorentina, nel giudizio sul Savonarola. Com'ebbero lodi e incitamenti l'ebreo piemontesista A. D'Ancona (per il suo Campanella), ilDe Gubernatis, il grecista E. Piccolomini, il Comparetti (per il Virgilio nel Medio Evo), nonostante certa sua aspra polemica col Lambruschini; mentre pur dal tendenzioso racconto del Tabarrini emerge l'interesse del C. per la nuova poesia del Carducci, ovviamente però riprovandone la pagania giacobina (e qui era probabilmente guidato più dal suo gusto squisito che non dal pregiudizio confessionale). Ebbe cordiali relazioni con Maurizio Schiff, anche allorquando scoppiò furibonda la protesta "neoguelfa" contro la presunta discendenza dell'uomo dalla scimmia, e sebbene il C. non avesse mai mancato di mettere in guardia contro i limiti e i pericoli dello scientisme.Romantico in fatto di storiografia, nonostante la sua amicizia per Gervinus e Reumont riverì un maestro nel Ranke. E l'unico, passo falso, per un eccesso comprensibile di passione o di condiscendenza agli amici napoletani, fu l'associarsi alla "crociata" contro il Renan della Vie de Jésus (pur benevolmente recensito per l'Averroès dal Centofanti sull'Archivio storico)e il trascendere a chiamarlo "un buffone" (Lettere, IV, p.32, al Capecelatro, 19 ott. 1864).

Non è, pertanto, a definire "senile" (quantunque il giudizio del Croce fosse anticipato da più altri, anche implicitamente dallo stesso fedelissmo Tabarrini) l'ultima, e in certo senso la maggiore, fatica storiografica del C., quella Storia della Repubblica di Firenze che, variamente lavorata per tutta una vita, in ispecie dagli anni'50 in poi, venne in luce per gli sforzi congiunti del Carraresi "oculus... caeco", del Reumont consigliatore e mediatore, e di Gaspero Barbera editore, il 22 genn. 1875:"che fu occasione di gran festa per la parte colta della cittadinanza fiorentina"(G. Barbera, Memorie di un editore, Firenze 1954, p. 420; ibid., pp. 418 ss., la cronistoria dell'edizione).

Certo l'opera non poté soddisfare gli storici "puri" degli anni '70-'90 né gli studiosi di fine secolo, che reinterpretavano la storia fiorentina in chiave "economico-giuridica". Il C., che era filologo ed era economista non era però un purus philologus (e tanto meno un homo oeconomicus).Né era questo il suo problema. Giova difatti negar in assoluto la presunta Problemlosigkeit della Storia capponiana, e negare altresì, o ridurre d'assai, la sua presunta Lust zum Fabulieren, quasi che il C. si fosse dunque meramente compiaciuto di trascrivere le vecchie cronache e di raccontare le vecchie leggende. Storia narrativa, sì, quella del C., com'era la migliore storiografia ottocentesca, massime di quelli che il C. medesimo giudicava suoi modelli e maestri (Thiers, Lamartine, Sismon di, Macaulay, Gervinus, Reumont), ma ispiratagli anch'essa dalla Frage di una Angst attualissima. La quale a torto, per suggestione del Thiers, credette forse il C. medesimo, e credettero comunque i suoi critici, fosse la convenienza o necessità, "parendo andare il mondo a una democrazia", di studiare la storia di Firenze, come la più democratica dei tempi antichi e dei moderni (Storia, I, p. VI).

L'Angst che suggeriva la Frage era, invece, diversa e duplice: come immettere, e conservare, nella nuova Italia unitaria l'apporto e il retaggio municipale; come intendere il rapporto storico-dialettico fra comune e nazione (il che anche importava una rivalutazione della Kulturgeschichte rispetto alla Staatsgeschichte, essendo l'Italia Kulturnation assai più che, pur dopo il '59 e il '60, Nationalstaat).Paradigmatiche restano perciò le considerazioni del C. nel capitolo dantesco (I, p. 306): "Certo è che i popoli dell'Italia, levatisi innanzi a che si facesse la nazione, furono strumenti a più discioglierla; e di tale colpa si rendeva quello di Firenze più reo d'ogni altro verso i secoli avvenire: ma chi oggi oserebbe a questa e alle altre città italiane fare peccato di quella ampiezza di vita civile, e delle potenti fecondità del pensiero donde ebbe il mondo tanto gran luce?". Dunque, una Firenze e un'Italia i cui valori etico-storici non stavano, o non solamente, nella vita politica, nello Stato, nell'unità nazionale, ma in una cultura, in una civiltà, in una lingua, quali il C. analizza e sviscera con manifesto compiacimento, pur senza indulgere ad avventatezze di "primato" e troppo forse concedendo al "mito" storiografico, fra protestantico risorgimentistico e neoguelfo, della corruttela rinascimentale. Il C., d'altronde, amava ribadire il carattere "plebeo" della Repubblica fiorentina, "perché ivi non era né aula, né curia, ma i pubblici fatti muoveano da quelle botteghe istesse dove si lavoravano i panni e le sete" (Ibid., I, p. 413): così come l'arciconsolo della Crusca inveiva contro la prosa corruttrice (perché classicistico-ciceroniana) del Boccaccio, quasi modello perverso della successiva lingua e prosa italiana. La quale il C. vedeva non già nei citati dell'Accademia o nei lessici e nemmeno propriamente nell'uso, ma nelle potenzialità variamente mutevoli, e sempre creative, d'un popolo. Donde la formula, e quasi il comando agli Italiani avvenire: "la lingua... sarà quello che sapranno essere gli Italiani" (Ibid., II, p.199).

Questa serenità superiore, a un tempo scanzonata e severa, il C. conservò fino alla sua ultima ora. La sera del 30 genn. 1876 civettava con gli ospiti e la nipote Natalia Corsini in Farinola su "certo mazzetto di viole mammole", offertogli nel pomeriggio dalla "Beppa fioraia; la quale, essendomi io fermato nel mio umile equipaggio dinnanzi al Caffé Doney, mi si è accostata, e mi ha fatto un discorsetto ben tornito e melato; dove, cominciando a salutarmi con un Eccellenza, ha finito col dirmi: Amor mio!" (Ricci, pp. 65 s.). Il tutto condito, come il marchese amava, con una citazione oraziana. E il successivo 3 febbr. 1876 quasi repentinamente ssispense nel palazzo di via S. Sebastiano, donde fu tratto a sepoltura, frammezzo al lutto della corte e del popolo, della città e dell'Italia, nel cimiterino della sua villa a Marignolle.

Fonti e Bibl.: Le carte del C., superstiti alla dispersione e alla probabile falcidie domestica, del C. medesimo e del Tabarrini editore, sono negli archivi dei marchesi Farinola (in Firenze e a Varramista) e, parzialmente, alla Biblioteca naz. di Firenze, alla quale il C. donò i manoscritti da lui posseduti e di cui C. Milanesi redasse il catalogo (Firenze 1845). Una "bibliografia ragionata degli scritti editi e inediti e delle lettere a stampa" compilò G. Macchia a proemio della sua edizione degli Scritti inediti (Firenze 1957). Un'abbondante bibliografia del e sul C. in A. Gambaro, La critica pedagogica di G. C. (Bari 1965), pp. 161 ss.; per aggiunte, vedi R. Ciampini, in Nuova Antologia, agosto 1957, pp. 558-560; P. Treves, Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento, Milano-Napoli 1962, p. 663; G. Talamo, in Bibl. dell'età del Risorg., I, Firenze 1971, pp. 194-198. Per le edizioni delle opere del C.: Storia della Repubblica di Firenze, 2 voll., Firenze 1875 (2 ediz., 3 voll., ibid. 1876; 3 ediz., 2 voll., ibid. 1930, a commemorazione del quarto centenario della caduta della Repubblica); Scritti editi e inediti, 2 voll., Firenze 1877, per cura di M. Tabarrini, contro la cui acrisia e libertà editoriale si appuntarono le critiche del Gambaro e del Macchia (nei volumi sopra citati); Lettere di G. C. e di altri a lui, raccolte e pubblicate da A. Carraresi, 6 voll., Firenze 1884-1890; Carteggio Tommaseo-C., a cura di I. Del Lungo e P. Prunas, 4 voll. in 5 tomi, Bologna 1911-1932; Lettere ined. ad Alfredo Reumont, a cura di E. Burich, Fiume 1940. Numerosissime le antologie di scritti pedagogici del C.; insigne fra esse il volume citato di A. Gambaro (e, per un elenco esauriente, vedi ibid., pp. 184 ss.), quantunque non siano certo da dimenticare le riserve e le giuste critiche di M. Ciravegna, in Nuova Riv. storica, XLI (1957), pp. 290-293; mentre è rimasta pressoché sconosciuta l'unica edizione commentata dei maggiori scritti storici del C.: Sulla dominaz. dei Longobardi in Italia e altri saggi, Roma 1945, a cura di E. Sestan, che il saggio introduttivo (sul C. storico) ha ristampato in Europa settecentesca, Milano-Napoli 1951, pp. 173-208. P. Treves ha ristampato, nello Studio dell'antichità classica, pp. 665 ss., forse il più importante scritto "antichistico" del C.: Studi sopra le lettere di Cicerone.G. Gentile ha scelto Le più belle pagine di G. C., Milano 1926; G. Macchia ha curato l'edizione citata degli Scritti inediti, e G. Marini ha pubblicato, in Nuovi docum. su Giuditta Sidoli, Pisa 1957, le superstiti lettere del C. alla Sidoli.

Per le testimonianze dei contemporanei, convien rifarsi anzi tutto agli epistolari di V. Monti, U. Foscolo, G. Leopardi, A. Manzoni, P. Giordani, V. Gioberti e G. Giusti, ad nomen (del Giusti memorabile anche il ritratto nella Cronaca dei fatti di Toscana, la cui ediz. ultima, e forse migliore, è nei Memorialisti dell'Ottocento, I, a cura di G. Trombatore, Milano-Napoli 1953, pp. 384 ss.). Inoltre, per il C. "politico", i racconti ex parte di G. D. Guerrazzi (nonché l'epistolario di quest'ultimo) e di G. Montanelli. Testimonianze di epigoni, coetanei e contemporanei più giovani sono, anzi tutto, le biografie di M. Tabarrini, G. C., Firenze 1879 (del Tabarrini vedasi anche il Diario, a cura di A. Panella e S. Camerani, Firenze 1959, passim), e di A. v. Reumont, G.C., Ein Zeit- und Lebensbild, Gotha 1880 (un'infelice trad. ital., Milano 1881, in 2 voll.); quindi, i ritratti e gli elogi (a prescindere dalle rispettose malignità di E. Montazio, G.C., Torino 1862) di A. De Gubernatis, Ricordi biografici, Firenze 1873, pp. 43-67; di A. Gotti, Italiani del secolo XIX, Città di Castello 1911, pp. 3 ss.; di C. Guasti, Rapporti e elogi accademici, in Opere, III, 1, Prato 1896, pp. 198 ss. (del Guasti vedi altresì Mem. e studi, Firenze 1939, pp. 283-294, e Carteggio, Prato 1945, passim);di M. Ricci, Ritratti e profili, Firenze 1887, pp. 47-67. Capitalissimi i giudizi a stampa di N. Tommaseo, specie nell'opuscolo Di Giampietro Vieusseux, Firenze 1864, nonché Diario intimo, a cura di R. Ciampini, Torino 1946, e Un affetto, a cura di M. Cataudella, Roma 1974, ad nomen.Sempre memorabili le osservazioni di G. Carducci, Opere (Ediz. Nazionale), XXIV, pp. 66 s., 395 ss. A prescindere dal saggio citato di E. Sestan, dal volume celebre di G. Gentile, G.C. e la cultura toscanadel sec. XIX, Firenze 1942, nonché dai giudizi di B. Croce, Storia della storiografia ital. nelsec. XIX, Bari 1947 (molto importante, del Croce, anche la noterella in Conversazioni critiche, I, Bari 1942, pp. 63-67), la critica capponiana è sostanzialmente povera. SulC."politico", vedi E. Passamonti, Il ministero Capponi e il tramontodel liberalismo toscano nel 1848, in Rass. stor. delRisorg., VI(1919), pp. 59-133, 253-314; Sul C."pedagogista", A. Gambaro, Riforma religiosa nelcarteggio inedito di R. Lambruschini, Torino 1924-1926, spec. I, pp. 31 ss.; II, pp. 8 ss., oltre a La critica pedag., cit.; E. Codignola, Maestri e probl. dell'educ. moderna, Firenze 1951, pp. 100-126. Un ritratto critico: G. A. Levi, Dall'Alfieri a noi, Firenze 1935, pp. 167-188. E il curioso ritratto "domestico" di R. Ridolfi, Il candido Gino, in Corriere della Sera, 7 giugno 1962. Infine, per l'ambiente "toscano" (e la bibl. relativa) basti rinviare a R. Ciampini, Gian Pietro Vieusseux, Torino 1953; ad U. Carpi, Letter. e società nella Toscana del Risorg., Bari 1974, a C. Ceccuti, Un edit. del Risorg., Firenze 1974, ad Ind.Per i giudizi degli stranieri v. I. von Doellinger, Akad. Vorträge, II, Nordlingen 1889, pp. 241-253; K. Hillebrand, Profile, Strassburg 1907, pp. 254-277; L. Colet, L'Italie des Italiens, Paris 1862, II, pp. 127 ss. (e I, pp. 413 s.), con le osservazioni di B. Croce, Aneddotidi varia letteratura, IV, Bari 1954, p. 301 e di N. Coppola, in Nuova Antologia, ottobre 1957, p.191 n. 1; nonché, o soprattutto, il volume pettegolo, affettuoso e commovente di H. Allart de Méritens, Lettere inedite a G.C., esemplarmente edite da P. Ciureanu, Genova 1961. La quale Hortense Allart, ispiratrice indiretta della Storia del C., fece quest'ultimo protagonista, o personaggio, di non pochi de' suoi romanzi autobiografici.

Il C. in più di un'occasione venne esplicitamente sottolineando la natura da "dilettante alla scienza economica" dei propri rari interventi, guidati - osservava - piuttosto dal "buon senso" che da unaspecifica competenza sul piano teorico e tecnico. Queste sue riserve in realtà si ricollegavano alla critica, ripetutamente da lui mossa, alla scienza economica intesa come "mera speculatone" come "arida teoria" come "astratto linguaggio". Ad una concezione essenzialmente teorica della scienza economica egli contrapponeva la nozione di economia pubblica, da un lato come scienza complessiva, considerata "in tutte le relazioni colla morale, colla felicità pubblica" secondo la celebre definizione attribuita nel 1829 da G. Pecchio alla "scuola economica italiana", dall'altro come scienza pratica, fondata su valutazioni empiriche e volta a fini determinati e concreti: "voi giustamente - osservava nel 1833, rivolto agli accademici Georgofili - ...preferite a' temi di mera speculazione quelli applicabili alla direzione pratica della economia privata e della sociale, e in quelli più volentieri insistete che a cose nostre più specialmente riguardano e meglio intendono a vantaggiarle".

Tenendo presente questa sua concezione pragmatica dell'economia, si comprendono i motivi degli argomenti scelti dal C. per le sue memorie economiche, e la caratteristica tempestività di esse. Il C. prese di rado la parola all'Accademia dei Georgofili, ma ogni volta assunse chiaramente posizioni sui temi di fondo nei quali si polarizzò a lungo, nella Toscana della prima metà dell'800, la discussione, in seguito alla quale la classe proprietaria operò la duplice scelta della conservazione della libertà di commercio e della struttura agraria mezzadrile.

Il 4 apr. 1824il C. fu infatti il primo a intervenire, con la memoria Intorno ad alcune particolarità della presente economia toscana, nel dibattito che A. Paolini, il vecchio economista leopoldino, aveva suscitato sostenendo all'Accademia dei Georgofili la relatività delle leggi economiche. Lo schema vincente elaborato per l'occasione dal C. in difesa della libertà di commercio, che fu poi ripreso e integrato dagli altri intervenuti nella discussione (da C. Ridolfi a L. de' Ricci, a G. Gazzeri, a G. B. Thaon, a P. Colletta, a F. Tartini Salvatici: le sole voci contrarie al liberoscambismo furono quelle di A. Paolini, di F. Chiarenti e di G. B. Lapi), esprime nel modo più chiaro il tradizionale ottimismo naturalistico liberista dei toscani ("mi sembra radicata fra noi la persuasione che la libertà di commercio come le leggi della natura, non possa avere eccezioni" (p. 6:si cita sempre dalla raccolta, a cura di G. P. Vieusseux, Cinque letture di economia toscana, Firenze 1845, che con le Memorie georgofile raduna il Parere del 1836redatto dal C. per J. Bowring e la Lettera al cav. F. Tartini Salvatici). Di tale ottimismo il C., se da un lato coglieva le origini, per così dire, indigene nella più nobile tradizione dottrinale del riformismo settecentesco toscano, dall'altro sottolineava esplicitamente anche l'aspetto legato all'influsso del "dogma" perfezionato, dalla scuola classica. È certamente significativo, sotto questo rispetto, che in una stessa pagina di questa prima memoria si ritrovino insieme i nomi di Pietro Leopoldo, di Adam Smith e di David Ricardo (pp. 6 s.).Appare evidente, comunque, come in questa fase della riflessione del C., che pure era esemplare dello stato d'animo più diffuso nel gruppo dirigente dei "liberali georgofili" toscani, non fossero ancora presenti le tracce di un influsso del pensiero economico del Sismondi, che pure di qui a pochi anni troverà un terreno sempre più congeniale in Toscana.

Al contrario, in questa memoria del 1824trovavano posto alcune obiezioni abbastanza esplicite nei confronti dell'"intervenzionismo moderatore" del Sismondi (cfr. ad es. le pp. 8 s.)e di alcuni aspetti del suo pessimismo economico, come laddove si sottolineava, col Say e la scuola inglese, l'importanza dell'aumento dei consumi e dei bisogni ai fini dell'incremento della produzione (p. 11), e dove si affrontava in termini sostanzialmente ottimistici, in contrasto con le tesi dello stesso Sismondi e del Malthus, il problema della crescita demografica (p. 10). D'altro canto non bisogna dimenticare che proprio l'importante saggio del Sismondi, Della proporzione fra il consumo e il prodotto (pur contenendo alcune delle proposizioni che qualche anno più tardi i, toscani, e il C. più di ogni altro, riuscirono a comprendere meglio e ad apprezzare di più), fu l'unico intervento di rilievo contrario alla libertà di commercio pubblicato in Toscana nell'ambito del dibattito sul liberoscambisino e sulla libera introduzione delle macchine, apertosi all'Accademia e svoltosi durante il biennio '24-25anche sulle pagine dell'Antologia, che anzi non mancò di prendere posizione esplicita in favore della risposta del Say all'articolo del Sismondi (XV, fasc. 45, pp. 123 ss.).È, indubbiamente sintomatico che in Toscana i soli accenni favorevoli all'economista ginevrino fossero contenuti, in questi anni, negli interventi dell'isolato e vecchio Paolini.

Nove anni più tardi, nell'aprile del 1833, ancora il C. fu il primo ad accogliere l'invito del Giornale agrario toscano, e ad avviare con la memoria Del nostro sistema di mezzeria il dibattito sul quale si accentrò per alcuni anni l'attenzione dei più illuminati proprietari granducali, e dal quale scaturì una scelta in favore della conservazione delle vecchie strutture precapitalistiche, che finì col condizionare la realtà economico-agraria toscana anche nell'epoca successiva, quasi fino ai giorni nostri. Ed anche in questo caso il tempestivo intervento del C. fornì uno schema di difesa (fondato sul caratteristico slittamento del discorso dal piano economico-produttivo a quello filantropico e morale) al quale aderirono compatti tutti gli altri difensori del sistema mezzadrile, e che divenne in seguito un modello canonico, riutilizzato con successo anche a distanza di anni (non solo, ad esempio, negli anni 1855-60 e 1870, ma anche nel 1935, nella raccolta di scritti sulla mezzadria curata dal L. Bottini). Certo, in questa sua analisi, portata a termine con la Memoriaseconda intorno alle mezzerie toscane letta nel luglio 1834enella quale, in seguito alle sollecitazioni provenienti dalle considerazioni del Salvagnoli e dalle "esperienze di gran cultura" del cugino Ridolfi, di fatto la prospettiva si era allargata fino a "discorrere le condizioni più generali di tutta la nostra economia", il C. era ben lontano ormai dal tono naturalistico e ottimistico proprio della prima memoria.

D'altro canto nei nove anni intercorsi tra le due prese di posizione del C. era venuto maturando in Toscana un orientamento più complesso in materia di economia "sociale", caratterizzato da sempre più profonde preoccupazioni conservatrici e da più chiare esigenze filantropico-morali. Ad esse certo non era estraneo il C. che già nel '30aveva iniziato quella che è stata chiamata la sua parabola sismondiana, nel senso che nella memoria Di alcune antiche notizie intorno all'economia toscana erano già presenti alcuni spunti per i quali egli finiva di fatto col trovarsi su posizioni assai vicine allo "storicismo economico" del Sismondi. Ne è un esempio il giudizio del C. sul Bandini (p. 18), oppure, poco più oltre, la costatazione che assai più di "registrare i sistemi e le opinioni intorno alla pubblica economia... ha importanza... conoscere le condizioni economiche degli Stati, e gli accidenti di prosperità e di miseria secondo la diversità dei tempi e delle leggi" (p. 19). Storicismo economico che risultava ancora più evidente nelle due memorie sulla mezzadria ("la colonia è un fatto, un fatto costitutivo della società toscana, fra tutti il principale"), e che si legava a quella concezione del C. dell'economia pubblica come scienza pratica e come scienza morale che, se era rimasta al margine e per molti aspetti contraddetta nella memoria del '24, diveniva ora la chiave per comprendere il caratteristico sdoppiamento di piani da lui operato. Di fatto la sua difesa dell'istituto mezzadrile non si svolse sul terreno tecnico ed economico, sul quale tuttavia si era avviato originariamente il dibattito. Su questo piano egli accolse in tutta la loro portata le critiche dei Salvagnoli e, più che altro, dei Ridolfi che veniva dimostrando, con la sua attività scientifica e sperimentale, l'incompatibilità dei rapporti di produzione mezzadrili con il complesso delle innovazioni caratteristiche della "rivoluzione agricola" che proprio in questi anni si stava affermando in molte zone dell'Europa occidentale. Da questo punto di vista il C. riconosceva esplicitamente l'"essere stazionario", "inerte" (pp. 40 e 60) del sistema mezzadrile che si riconnetteva al suo requisito tecnico di fondo: la coltivazione promiscua legata al regime di autoconsumo proprio dell'organizzazione poderale, che si ergeva come un limite invalicabile alla mercantilizzazione della produzione.

È a questo punto che il discorso del C. deviava, dal tema economico e di tecnica agraria, sull'aspetto morale e sociale del problema, facendo perno sulla distinzione (che il Pecchio richiamava in relazione alla "scuola economica italiana", ma che era anche uno dei motivi centrali del pensiero del Sismondi dei Nuovi principi)fra lenozioni di rendita lorda e di rendita netta, concetto "astratto" quest'ultimo, che "l'arida teoria" economica, la "scienza della prosperità", attenta più all'incremento della produzione che al modo con il quale essa si distribuisce, aveva posto come suo fine esclusivo: "ma non ci travii questo astratto linguaggio, tanto da confondere la massa intera dei prodotti, a cui molti partecipano, con l'utile netto che in agricoltura viene al proprietario, intraprenditore di questa opera... Quando il prodotto che viene dall'opera si divide tra gli opranti, e da loro si consuma; allora la somma di queste mercedi ingrossa la cifra del prodotto netto, e la rendita del proprietario non deve considerarsi per la utilità generale, altro che come una parte del prodotto vero; e sarebbe grave errore il considerarla sola" (p. 54). Da questo punto di vista, doveva essere rivalutata la funzione di un sistema come quello mezzadrile che, se non consentiva un reddito netto paragonabile a quello garantito dalla "gran cultura", rendeva possibile, in rapporto ai terreni di poggio toscani di bassa fertilità, la massima produzione lorda, a beneficio dell'intera società. Un risultato di cui il C. coglieva anche con acutezza le cause: "due cose hanno generato questo forzato prodotto: i capitali del proprietario, e la diligenza del lavoratore" (p. 56). In questo senso il C. sottolineava, forse con maggior chiarezza di chiunque altro che non fosse il Ridolfi, accanto al "sacrificio" dei proprietari che si contentavano di un frutto assai basso dei capitali (peraltro già incorporati, secondo la espressione moderna, nei poderi, pp. 39-70), anche il sopralavoro contadino, ciò che il Ridolfi indicava come "l'elemento magico", in relazione al quale l'agricoltura mezzadrile trovava di fatto la sua ragion d'essere e la sua capacità di resistere anche sul piano strettamente economico. È ciò che abbastanza esplicitamente riconosceva anche il C. quando affermava che la coltivazione intensiva propria delle zone mezzadrili non sarebbe stata possibile se si fosse dovuto pagare il lavoro in denaro (p. 68), oppure quando riconosceva che i rapporti mezzadrili consentono al padrone di ridurre al massimo la quantità del capitale circolante, del "denaro vivo", impegnato nella coltivazione (p. 38) Ciò che al contrario il C. non sottolineava abbastanza era il fatto che la gran parte del sopralavoro del mezzadro, ripagato in genere con la semplice sussistenza, finiva con l'essere erogata a vantaggio del proprietario. Ed è proprio sotto questo aspetto che, più coerentemente, il Ridolfi giungeva a parlare di vero e proprio sfruttamento contadino, e di conseguenza finiva col togliere gran parte del valore allo "schema" del C. basato sulla affermazione della superiorità morale e sociale del sistema mezzadrile. Superiorità che, tuttavia, il C. riteneva confermata dalle condizioni di vita dei contadini toscani le quali, se apparivano modeste, erano comunque migliori di quelle dei lavoratori salariati delle zone dell'Europa occidentale interessate dallo sviluppo della agricoltura capitalistica. Su questo piano il C. toccava l'argomento, caro al Sismondi, della crescita del proletariato agricolo, riproponendo in un linguaggio assai vicino a quello dell'economista ginevrino la contrapposizione tra le condizioni di relativa stabilità e sicurezza dei piccoli proprietari svizzeri o dei mezzadri toscani, e quelle precarie de "la gran turba de' proletari affamati", dei paesi ove "la ricchezza ingiuriosa e la miseria implacabile si toccano" (pp. 52 s.), come l'Inghilterra o la Lombardia, in relazione alla quale il C. utilizzò i toni più cupi tanto da suscitare la meraviglia di N. Tommaseo (lettera del 5 ott. 1834).

Questa insistenza del C. sulla contrapposizione tra i mezzadri e i salariati agricoli è senza dubbio rivelatrice delle profonde esigenze di conservazione sociale che erano al fondo della scelta operata dal C. e dagli altri moderati toscani in favore della mezzadria. Del resto il C. svolgeva alcune considerazioni esplicite al proposito, ad esempio quando sottolineava la laboriosità, la sobrietà, ma anche la quiete e la "virtuosità" dei mezzadri "isolati" sui poderi ("io credo le case sparse essere segno e cagione di quanto possa vantare di meglio in sino al dì d'oggi la Toscana in fatto di industria e di pubblica morale", pp. 34 s.); oppure laddove poneva con chiarezza l'accento sul rapporto "fratellevole" instaurato dalla societas colonica fra proprietari e contadini, sul "vincolo morale", per usare l'espressione utilizzata in quegli stessi anni da N. Pini Carboncelli che riprendeva espressamente un concetto del C., sul "vincolo di fraterna collaborazione e di ravvicinamento fra le classi cui la Provvidenza commesse il lavoro dell'intelletto e quelle che furono destinate principalmente alle opere della mano".Così che il proprietario toscano, "attorniato dai più agiati lavoratori, mantiene ricchezza meno invidiata, meno aggredita e fa guadagno di sicurezza, di temperanza e di pace" (p. 56).

Tutto questo fa luce sul motivo principale della difesa della mezzadria e del generale orientamento di carattere anticapitalistico cui essa si legava. Lo scopo di fondo del C. proprietario terriero era la conservazione dell'equilibrio di quel mondo rurale paternalistico e patriarcale su cui fondava i propri privilegi la classe padronale toscana, che già dall'epoca leopoldina si presentava come la classe dirigente del granducato ma che, trovandosi impedito, nella capitale, l'accesso alla gestione diretta del potere politico, faceva sempre più leva sul potere economico e sociale detenuto nelle campagne. Ed è da questo punto di vista che si comprende la complementarità della scelta in favore della mezzadria con quella in favore della libertà di commercio. Scelta, quest'ultima, della quale già da tempo è stato messo in rilievo il fine "antindustrialista", nel senso che il C. e gli altri portavoce degli interessi dei proprietari terrieri toscani optarono (con una ottica in questo senso non molto distante da quella degli altri liberisti italiani, ad esempio dello Stesso Cavour o del Cattaneo) per l'inserimento del granducato nel meccanismo commerciale europeo controllato dall'Inghilterra, come produttore di materie prime e di semilavorati e come importatore di manufatti.

Appare dunque evidente come, già nelle due fondamentali memorie sulla mezzadria, gli spunti sismondiani fossero ormai prevalenti, anche se qua e là affioravano ancora alcune perplessità in rapporto agli aspetti più accentuati del pessimismo del "secondo" Sismondi: "Dovremo noi... maledire quelle imprese tanto vaste, que' capitali tanto fruttiferi, quelle macchine tanto possenti? Iddio ci scampi da sì brutto errore... là dove è potenza l'ordinamento si troverà" (p. 51). Due anni più tardi, nella sua ultima memoria Della vera ed apparente distruzione dei capitali, del maggio 1836, anche questi dubbi erano di fatto scomparsi e l'adesione all'anticapitalismo sismondiano appariva completa. E ciò, in primo luogo, nel senso di una ormai rigida condanna del "produttivismo" capitalistico-industriale, giustificato dagli economisti sulla base della "astrazione pericolosa del riguardare l'uomo come macchina...; produrre e commerciare fu solo fine alla scienza, solo pensiero alle leggi. Quell'uomo macchina dimagrasse pure..." (p. 80). "Quanto più le imprese dell'industria - osservava più oltre il C., mostrando di cogliere uno degli aspetti più rilevanti e nuovi, come è noto, del pensiero sismondiano - divengono vaste ed implicate, tanto più il capitale ch'è necessario all'impresa, cresce smisuratamente; e l'importanza di esso prevale... su quella della man d'opera. Diviso il lavoro in frazioni minutissime, il lavoratore si trova discosto da quella finale produzione che va su' mercati, non la conosce... e il mercante non conosce lui, lo tiene in egual conto come il movimento di una ruota, il perno di un arcolajo" (pp. 80 s.). E infine, anche nel C., quanto più vive si profilavano le preoccupazioni per il presente e per l'avvenire, tanto più frequenti erano i richiami al passato, al "sentir comune" dell'epoca repubblicana, all'"associazionismo" del Medioevo comunale, quando "le spese del ricco sempre avevano in sé alcuna cosa di popolare" e "i poveri godevano quella magnificenza del ricco, non la invidiavano"(p. 85). Alcune delle più belle ed ammirate pagine del C. attengono a questa tematica, (cfr. ad es. le pp. 82 ss.).

Ma nell'ultima memoria economica del C. è presente un altro spunto di rilievo: la polemica col Lambruschini che, nella memoria Sul frutto dei capitali, aveva avanzato considerazioni di chiaro stampo sansimoniano. "De' Sansimoniani - osservava al proposito il C. nei termini più chiari - la parte istorica, lo sguardo sul passato, mi sembra bello e profondo; la religione vituperosa; le teorie economiche per lo più inconsistenti e frivole. Quei pontefici della industria, che dovevano per motuproprio distribuire la ricchezza tra gli uomini, ed assegnare la proprietà come si conferisce un benefizio, rimarranno celebrinella istoria... delle umane follie" (p. 94). Proprio in difesa della proprietà, "legame delle famiglie, principio delle società umane, fondamento della agricoltura [che] deve considerarsi piuttosto come un istinto che discutersi come una legge fittizia e mutabile" (p. 92), il C: entrava in polemica contro gli aspetti sansimoniani del pensiero del Lambruschini: e la proprietà è un elemento sociale e i vizi per cui si rende alcune volte malefica sono, o imperfezioni inerenti a ogni umana costituzione, o effetto dei tempi e dei costumi" (p. 96). Pertanto "la proprietà della terra io la vorrei liberamente mobile, mobile naturalmente... in nessun modo... privilegiata: ma sicura, interamente sicura come elemento di convivenza" (p. 95). E con l'esplicito richiamo al Sismondi, il C. giungeva infine a difendere anche la grande proprietà: "anche alla grande ricchezza, dice l'illustre Sismondi, è ingiunto un ufficio da esercitare...".

A questo punto la parabola del pensiero del C. in senso conservatore, legata certamente alla sua spiccata e sincera sensibilità per l'aspetto sociale e umanitario dei problemi, ma anche alla sua oggettiva e cosciente appartenenza alla classe dei proprietari terrieri granducali, può dirsi compiuta. D'altro canto la convergenza ormai quasi completa del suo pensiero con quello del Sisinondi (anche se non deve essere trascurata nemmeno l'ipotesi che su certi aspetti, ad esempio sul problema della mezzadria, sia stato al contrario il Sismondi degli Studi sulle scienze sociali, del 1837, ad essere influenzato dall'ambiente culturale toscano) è riconosciuta espressamente dallo stesso C. in una lettera a quello del 27 febbr. 1837 ("Ella sa che io partecipo..., almeno in gran parte alle sue opinioni..."), nella quale il C., oltre che ritornare, in termini questa volta pessimistici, sul tema sismondiano per eccellenza, quello dell'aumento demografico, affermava nel modo più esplicito la sua sfiducia nei sistemi economici moderni "che si vogliano introdurre sotto l'aspetto di progresso", e i suoi dubbi nei confronti delle nuove dottrine, delle "letture" e dell'esempio inglesi "che ci hanno fatto in questo tanto male", e ribadiva la convinzione che, se era impossibile "resistere a quello che si presenta sotto l'aspetto di perfezionamento", era quanto meno necessario tentare di "rallentare la spinta e non aiutarla" (G. Calamari, La mezzadria toscana in una lettera inedita del C. al Sismondi, in Bull. stor. pistoiese, XLII [1940], 1, pp. 37-43).

Bibl.: Èsufficiente ricordare: A. Morena, Le riforme e le dottrine economiche in Toscana, in Rass. naz., genn. 1886-luglio 1887. ad Indices;Id., Gli Accademici Georgofili e la libertà di commercio (1753-1860). Discorso storico ed economico, in Scritti di pubblica economia degli Accademici Georgofili concernenti i dazj protettori del'agricoltura, Arezzo 1899, p. III e n.; E. Passerin d'Entrèves, L'anticapitalismo del Sismondi e i "campagnoli" toscani del Risorgimento, in Belfagor, IV(1949), pp. 283-299, 402-409; G. Mori, Osservazioni sul libero-scambismo dei moderati nel Risorgimento, in Studi di storia dell'industria, Roma 1967, pp. 29-41; C. Pazzagli, L'agricoltura toscana nella prima metà dell'800. Tecniche produttive e rapporti mezzadrili, Firenze 1973, pp. 385 ss.; F. Pitocco, Utopia e riforma religiosa nel Risorgimento, Bari 1973, pp. 245 ss.; G. C. Marino, La formazione dello spirito borghese in Italia, Firenze 1974, pp. 167 ss.

C. Pazzagli

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