FORZATÈ, Giordano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 49 (1997)

FORZATÈ, Giordano

Laura Gaffuri

Nacque, secondo una tradizione non avvalorata dalla coeva documentazione, a Padova intorno al 1158. La famiglia Tanselgardi (o Transelgardi) Forzatè apparteneva all'aristocrazia comunale e fondava il proprio rilievo politico sia sulla partecipazione al governo della città, sia sui legami feudo-vassallatici con l'episcopio.

Risale all'anno 1203 il primo documento in cui compare il F., monaco di S. Benedetto e testimone alla soluzione di una lite per decime tra i canonici di Padova e la famiglia Steno. La documentazione degli anni successivi attesta la sua familiarità sia con l'aristocrazia cittadina, sia con i canonici della cattedrale, ad alcuni dei quali il suo nome si lega in atti che lo vedono erede e fedecommissario o probabile destinatario di restituzioni di denaro. Fu forse decretorum doctor e la sua fama in questi anni crebbe tanto da essere designato da Innocenzo III all'episcopato di Ferrara, dopo la morte di Uguccione da Pisa il 7 giugno 1211. Ma il F. rinunciò alla carica, accingendosi a svolgere un ruolo incisivo in Padova e nell'Ordine benedettino. In città, infatti, nel quadro del progressivo affermarsi di nuove forze ecclesiastiche accanto ai tradizionali centri del potere religioso, esercitò un'influenza determinante come delegato apostolico sia nel 1213-14 nella scelta del vescovo Giordano, dopo le dimissioni dalla carica vescovile date da Gerardo Offreducci e dopo aver sostenuto invano la candidatura di un monaco di S. Benedetto, sia più tardi, nel 1229, nell'elezione di Giacomo di Corrado.

Dal 1213 la documentazione lo ricorda come priore del monastero di S. Benedetto, che il F. resse facendone il centro del movimento degli "albi" od Ordo monachorum alborum Sancti Benedicti de Padua, da lui stesso fondato, nel quale confluirono comunità diverse (ospedali, canoniche, piccole comunità maschili e femminili o eremitiche).

Questa esperienza è stata definita "monachesimo comunale", volendo così sottolinearne l'intima connessione con la società padovana, documentata anche dal fatto che ai monasteri albi il Comune affidò nei primi anni del secondo Duecento la conservazione dei propri libri. Il 30 maggio 1224 il movimento dette vita a una congregazione approvata dal vescovo e quindi molto legata alla chiesa locale e sostenuta, oltre che dal F., anche dai priori di altri sei monasteri della città e del territorio divenuti sedi di altrettante comunità albe. Fu proprio l'impegno per la riforma della vita della Chiesa, insieme con il rilievo sempre maggiore ricoperto in città e nella Marca, ad avvicinare il F. ai frati mendicanti in alcuni momenti importanti della loro storia cittadina: pare infatti che egli non fosse rimasto estraneo all'ingresso dei domenicani a Padova (così sembra dimostrare la sua presenza alle prime donazioni di terre fatte ai frati nell'ottobre 1226), come non fu estraneo neppure al processo di canonizzazione di Antonio, al quale intervenne accanto al vescovo di Padova e al priore dei domenicani. L'azione degli albi aveva punti di contatto con il programma riformatore dei mendicanti specie nel comune riferimento alle ansie riformatrici di pontefici quali Innocenzo III e Gregorio IX. Il peso del F. nella vita religiosa locale si coglie anche attraverso altri segni, quali i numerosi legati testamentari in suo favore e il suo ruolo nella conversione e rinuncia al mondo della figlia di Azzo (VI) d'Este, Beatrice.

L'opera del F. in questi anni fu dunque molteplice, svolta in prima persona o attraverso l'Ordine benedettino. Alle azioni attinenti la riforma della vita religiosa (si ricorda, nel 1227, la visita dei monasteri benedettini esenti, delle canoniche regolari, delle case degli umiliati e, infine, degli ospedali di Padova, Venezia, Treviso) si affiancava il coinvolgimento in prima persona nelle vicende della politica, per conto sia del Papato sia delle autorità cittadine. Tra le missioni affidategli in qualità di delegato apostolico dai pontefici - Innocenzo III, Onorio III e Gregorio IX - ci furono quella di supervisore del progetto innocenziano di pacificazione della Marca trevigiana all'indomani della quarta crociata, ma anche quella di "notaio e garante delle operazioni di vendita" e gestione "dei beni vescovili" (Rigon, 1992) presso alcune chiese locali. A tali incarichi si aggiunsero l'intervento, nel 1216, presso la Chiesa di Treviso, finanziariamente dissestata; l'indagine, nel 1217, sulla nomina del vescovo di Ceneda e la valutazione dell'operato dell'amministratore apostolico N. Maltraversi a Vicenza; la sua partecipazione, nel 1218, alla cessione dei dazi delle porte e del distretto da parte del vescovo Tiso ai Trevigiani.

Dal secondo decennio del Duecento le fonti testimoniano con crescente progressività gli incarichi assegnati al F. dalle forze politiche locali, che lo eleggevano volentieri ad arbitro di decisioni o contese fino a richiederne di tanto in tanto la presenza alle riunioni del Consiglio del Comune: nel 1216 era presente al trattato di pace tra Padova e Venezia a conclusione della guerra "del castello d'Amore"; nel 1218 arbitrava per conto di Padova la cessione a Vicenza dei beni e del castello di Marostica da parte di Ezzelino (II) da Romano e di suo figlio Icilinellus (Ezzelino III); nel 1222-1223 mediava, di concerto con il Comune padovano, a favore dei magnati vicentini sfavoriti dal podestà "popolare" Lorenzo da Brescia; il 19 sett. 1229 presenziava alla concessione fatta dal Comune di Padova al monastero veneziano di S. Maria delle Vergini del diritto di transito delle merci attraverso il territorio padovano fino a Venezia; mentre nel 1235 era la sua influenza a consentire l'elezione di Azzo (VII) d'Este a rettore e podestà di Vicenza (da questo affidata a Giovanni da Verzario "in detrimentum - secondo il Maurisio - illorum de Romano").

Proprio il ricordo che il F. lasciò di sé nella memoria storica delle città della Marca è un capitolo importante della sua biografia. La storiografia locale ne ricorda la funzione di arbitro nella storia politica di quegli anni: in lui - secondo quanto sostiene il Rolandino - "cuius tunc arbitrio Padua et Vicentia voluntarie subiacebant", "multum civitas Padue confidebat". Pater Padue, dunque, sia nella storia pre-ezzeliniana della città, sia dopo, nel superamento - compiuto anche in nome suo - della "tirannide" e nella conseguente damnatio memoriae di Ezzelino (III). E protagonista il F. è anche per il filoimperiale Maurisio, unico cronista di fede ghibellina, che lo definisce "malus", "hypocrita", cospiratore e "totius discordie Marchie auctor et princeps".

Nel giudizio negativo del Maurisio si coglie, oltre all'indubbio peso politico avuto dal F., l'ostilità che Ezzelino (III) da Romano nutrì nei confronti di un uomo sentito evidentemente come un vigoroso e scomodo oppositore delle rivendicazioni imperiali, e, soprattutto, dei propri progetti egemonici. Nel 1229, con altri magnati della città, il F. aveva cercato di evitare lo scontro tra i Padovani e i Trevigiani che, appoggiati da Ezzelino, avevano occupato Feltre e Belluno, ma il sostegno dato nel 1235 all'elezione di Azzo (VII) d'Este a podestà di Vicenza dimostrava chiaramente la volontà del priore di innalzare difese contro la pars Imperii. Già l'anno successivo la città veniva occupata da Federico II e da questo affidata al da Romano che, il 25 febbr. 1237, si impadroniva anche di Padova. Il F. cercò subito rifugio nel castello di Montemerlo, di proprietà della famiglia, salvo poi fare rientro in città da dove, nel giugno dello stesso anno, Ezzelino lo faceva prelevare perché fosse incarcerato. L'indignazione del vescovo di Padova e l'intervento di Federico II gli consentirono di lasciare il carcere, ma non di tornare a Padova, per volontà, così parrebbe, proprio del luogotenente dell'imperatore. Rispondendo alle lamentele di Gregorio IX circa il modo con cui il F. era stato trattato, Federico II avrebbe sottolineato il peso avuto da Ezzelino nei provvedimenti presi contro il priore di S. Benedetto. Il destino del F. avrebbe dovuto essere, in un primo tempo, l'esilio a Messina, ma, almeno dal 26 maggio 1239 la sua presenza è documentata presso il patriarca di Aquileia. In cerca di maggiore sicurezza il F. sarebbe poi fuggito dal patriarcato, trovando rifugio a Venezia, nel monastero della Celestia. Qui si spense il 7 ag. 1248.

Intorno al corpo, riportato a Padova nel 1260 - e dunque nel contesto della restaurazione postezzeliniana -, nacque subito una fama di santità che produsse, a partire dal XIV sec., una tradizione agiografica (intorno alla quale si vedano le notizie riportate in Bibliotheca sanctorum, coll. 989 s.). Il culto del F. venne approvato solo nel 1767 da papa Clemente XIII.

Fonti e Bibl.: Padova, Arch. della Curia vescovile, Fondo Cause dei santi, III/3, fasc. 6; Arch. di Stato di Padova, Corporaz. soppresse, Monasteri padovani, S. Benedetto Vecchio, 3, f. 33r; Padova, Biblioteca del Museo civico, ms. BP 253: Giovanni da Nono, De familiis illustribus Patavinis; Rolandini Patavini Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixane…, a cura di A. Bonardi, in Rer. Ital. Script., 2a ed., VIII, 1, ad Ind.; Liber regiminum Padue, a cura di A. Bonardi, ibid., p. 297; G. Maurisii Cronica dominorum Ecelini et Albrici fratrum de Romano…, a cura di G. Soranzo, ibid., VIII, 4, ad Ind.; Chronicon Marchiae Tarvisinae et Lombardiae…, a cura di L.A. Botteghi, ibid., VIII, 3, ad Ind.; F. Corner, Ecclesiae Venetae… Decas sexta, Venetiis 1749, pp. 40 s.; Acta sanctorum Augusti, II, Venetiis 1751, coll. 200-214; G.B. Verci, Storia degli Ecelini, III, Bassano 1779, pp. 168-180; Id., Storia della Marca Trivigiana e Veronese, I, Venezia 1786, p. 65; F.S. 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