CAPRONI, Giorgio

Dizionario Biografico degli Italiani (2012)

Dizionario Biografico degli Italiani Giorgio caproni.jpg

CAPRONI, Giorgio

Biancamaria Frabotta

Nacque a Livorno il 7 gennaio 1912, secondogenito di Attilio, ragioniere, e di Anna Picchi, sarta e ricamatrice.

La città portuale toscana si iscrisse nel mondo dei suoi ricordi più antichi, nella mitica luce delle origini e degli affetti primigeni, trasfigurati, attorno alle figure dei genitori, in un coefficiente poetico sentimentale e metricamente impeccabile. Esemplari di questa idealizzazione furono i Versi livornesi, concepiti dopo la morte della madre e pubblicati nel suo libro più fine e popolare, Il seme del piangere (Milano 1959).

Le figure dei genitori

Anna Picchi era nata a Livorno nel 1894, da Gaetano e da Fosca Bottini. Impiegata sin da ragazza nel magazzino Cigni, rinomata casa di moda livornese, dopo il matrimonio continuò a lavorare come sarta in laboratori che attrezzava in casa. Amava suonare la chitarra, frequentare i circoli cittadini e ballare. Morì a Palermo il 15 febbraio 1950 e fu sepolta nel cimitero di S. Orsola presso il fiume Oreto.

Meno fertili poeticamente ma non meno intensi furono i rapporti di Caproni con il padre che la domenica lo guidava, mano nella mano, in compagnia del fratello Pier Francesco, di lui maggiore di due anni, in lunghe passeggiate presso le livornesi piane degli Archi a spiare il ritorno dei cacciatori di lepri. Oppure, durante le vacanze estive, organizzava le gite a San Biagio, nelle campagne dell’Alta Maremma, nella tenuta di Cecco, un allevatore e domatore di cavalli che segnò in modo indelebile la sua personalità. «Lontano dalla mal’aria,/ domerò la mia vita/ come domavi le tue cavalle/ ombrose,/ tutte slanci ed inutili corse» (A Cecco, in L'Opera in versi, 1998, p. 9). Attilio lavorava in una ditta di importazione del caffè e si occupava dell’amministrazione del teatro Avvalorati di Livorno. Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale, rimasto disoccupato per il fallimento della ditta livornese dei Colombo, fu assunto dall’azienda conserviera Eugenio Cardini situata a Genova nel palazzo Doria. Suonava il violino e il mandolino e amava leggere la poesia italiana delle origini e la Commedia, che acquistava in edicola nell’edizione in dispense pubblicata dalla casa editrice Nardini di Firenze con le illustrazioni di Gustave Doré. Morì a Bari il 21 febbraio 1956.

L'infanzia di Caproni fu condizionata dalle difficili condizioni economiche in cui la famiglia precipitò dopo il richiamo in guerra del padre e i tumulti sociali e politici che prepararono l’avvento del fascismo. Da un’elegante palazzina di corso Amedeo (ove Giorgio era nato), presto dovettero trasferirsi nella popolare via Palestro in un appartamento dove conobbero i disagi della coabitazione forzata con una coppia di lontani parenti, Itala e Pilade Bagni. Nel 1922, dopo la nascita della terzogenita Marcella e una breve sosta a La Spezia, si trasferirono a Genova dove continuò la ridda dei traslochi: da via S. Martino a via Michele Novaro, da via Bernardo Strozzi a piazza Leopardi. Se Livorno era stata la simbolica città della madre, Genova rappresentò per Caproni il luogo della formazione umana e culturale: «Genova sono io. Sono io che sono 'fatto' di Genova» («Era così bello parlare»…, 2004, p. 107). Ma segnò anche l'inevitabile epilogo della infanzia: «Genova della Spezia./ Infanzia che si screzia./ Genova di Livorno,/ partenza senza ritorno» (Litania, in L'Opera in versi, 1998, p. 178).

Scuola, musica e poesia

Iniziati gli studi elementari presso le suore dell’Istituto del Sacro Cuore, li proseguì nella scuola comunale del Gigante, «un quartieraccio» di Livorno («Era così bello parlare»…, 2004, p. 81) e li completò a Genova, nella scuola Pier Maria Canevari. Si iscrisse quindi alla scuola tecnica Antoniotto Usodimare, contemporaneamente dedicandosi, incoraggiato dal padre, allo studio del violino. A 13 anni si diplomò in composizione all’istituto musicale Giuseppe Verdi, in salita S. Caterina. Di giorno si esercitava su corali a quattro voci prima pescando le parole da Poliziano, Tasso, Rinuccini, poi provvedendovi di testa sua. Di notte suonava il violino nell’orchestrina di un dopolavoro. A 18 anni, dovendo contribuire al magro bilancio famigliare, accettò l’incarico di fattorino presso lo studio legale dell'avvocato Colli in via XX settembre. Alla fine, con una sofferta decisione, rinunciò agli studi musicali.

La musica tuttavia restò in lui viva per sempre, quasi come una controprova all'armonia intrinseca alla poesia. Il classicismo dissonante di Stravinskij fu riversato nel pathos esclamativo dei sonetti sperimentati negli anni Quaranta e la sua passione per il melodramma romantico influenzò la struttura delle ultime raccolte. Il franco cacciatore (Milano 1982) prese il titolo dall’omonima opera di Carl Maria von Weber, mentre Il conte di Kevenhüller (ibid. 1986), titolo scelto «per il suo sapore operettistico» fu diviso in tre sezioni: Il Libretto, La Musica e Altre cadenze (v. Apparato critico, in L'Opera in versi, 1998, pp. 1627 s.). Nei lavori preparatori della raccolta postuma Res amissa (Milano 1991) alcune poesie furono scandite in sillabe e trascritte direttamente sui righi di uno spartito musicale.

Sempre di più la poesia occupava i suoi giorni e la sua mente. Già con i compagni di studio del violino e in particolare con l’amico Adelio Ciucci, «in quella brulla Piazza Martinez» dove si recava ogni giorno dalla sua casa di S. Martino, aveva scoperto in «disordinate e infatuate letture» la poesia moderna, contrapposta, «con una boria scusata soltanto dall’età», alla poesia insegnata a scuola (Un ricordo un debito, in La Fiera letteraria, 28 giugno 1959). Nel 1932 inviò i suoi primi versi ad Adriano Grande, direttore della rivista genovese Circoli, che li rifiutò. Pochi mesi dopo, portando dentro di sé «una specie di minima antologia del cuore» composta da Ungaretti, Montale, Saba, Sbarbaro, se ne andò «a far da cappellone» nel 42° reggimento fanteria di stanza a Sanremo, dove rimase dal settembre 1933 all’agosto  1934 (Attorno al 1930, in Il Caffè politico e letterario, IV [1956], febbraio, pp. 13 s.). Maturò nelle lunghe ore di guardia molti fra i nostalgici idilli dai contorni stilnovistici che sarebbero confluiti nella sua prima plaquette: Come un’allegoria (Genova 1936). Avendo perso tempo con il servizio militare, si preparò agli esami delle magistrali privatamente, supportato da un professore di larghe vedute, l’antifascista Alfredo Poggi che lo introdusse alla riflessione filosofica. Per conto suo lesse Agostino, Kierkegaard e scoprì lo scetticismo leopardiano di Giuseppe Rensi. Approfondì Dante e i classici italiani, appassionandosi soprattutto agli autori latini, non solo Catullo, Virgilio, Lucrezio, ma anche Cesare e Minucio Felice. Si diplomò nel 1935, al cospetto di una commissione presieduta da Ugo Spirito.

Maestro elementare e poeta

S’iscrisse quindi all’istituto superiore di magistero di Torino ma a soli 23 anni prese servizio come maestro elementare a Rovegno, «un adorabile paesino montano» dell’Alta Val Trebbia, situato al 54° chilometro della statale numero 45 tra Genova e Piacenza (Due inediti di Giovanni Boine, in La Fiera letteraria, 6 settembre 1959). Cominciava una faticosa carriera che si protrasse dal dicembre 1935 al dicembre 1973: una scelta professionale quasi obbligata e tuttavia mai rinnegata, anzi stoicamente difesa dalle accuse che scaturivano dall’«ignoranza» presuntuosa dei tecnici ministeriali (I due analfabetismi, in Il Caffè…, III [1955], luglio-agosto, pp. 14 s.).

La frazione Loco di Rovegno divenne la sua 'piccola patria', snodo e paesaggio chiave di un destino. Nel marzo 1936 la sua fidanzata Olga Franzoni, una ragazza genovese che lo aveva seguito nonostante la salute precaria, morì di setticemia poco prima delle nozze. Travolto dallo choc, sprofondò in una grave crisi psicologica. Al poeta Carlo Betocchi, primo recensore di Come un’allegoria, con il quale intrecciò dal 1936 al 1986 uno splendido diario epistolare, il 7 aprile 1937 confessò la tentazione di farla finita con la poesia: «Forse tutto il mio mondo era legato a quella che se n’è andata. Forse su lei poggiava tutta la mia certezza» (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 64). Fu quello il primo dei suoi innumerevoli congedi.

Nell’anno scolastico 1936-37 insegnò ad Arenzano, cittadina della Riviera di Ponente e a Casorate Primo, in provincia di Pavia. Superò la crisi del 1937 grazie a una ragazza di Loco, Rosa Rettagliata che sposò nella chiesina del suo villaggio nell’agosto 1938, dopo aver pubblicato la sua seconda plaquette, Ballo a Fontanigorda (Genova 1938). Da allora trascorse tutte le sue estati in Val Trebbia nella casa della moglie.

Olga Franzoni e Rosa, indicata anche con il nome di Rina, inizialmente si sovrapposero nell’immaginario caproniano, per divergere poi radicalmente fino a incarnare i due opposti poli di un'antitesi. Il fantasma della fidanzata defunta lo perseguitò con l’effigie di una stagione sensuale e illusoria rappresentata nella gesticolazione sonora dei Sonetti dell’anniversario confluiti in Cronistoria (Firenze 1943). Nel poemetto Le biciclette, pubblicato dapprima nelle Stanze della funicolare (Roma 1952) e poi nella raccolta complessiva Il passaggio d’Enea (Firenze 1956), il suo ricordo, velato dal travestimento ariostesco di Alcina, divenne la perturbante icona del «tempo ormai diviso» dalla guerra (Le biciclette, in L'Opera in versi, 1998, p. 128). All’inverso Rina «dalle iridi grandi e azzurre e così delicatamente silenziose» (Alta Val Trebbia, in Augustea, 31 agosto 1939) incarnava le gioie e le angustie dell’amore coniugale sia in pace sia in guerra e fu spesso celebrata come il tenace strumento della vita che continua. «Se il mondo prende colore/ e vita, lo devo a te, amore» (A Rina, II, in L'Opera in versi, 1998, p . 911).

La guerra

Si trasferì a Roma il 1° novembre 1938. Ottenuto un posto di maestro di prima categoria, prese servizio nella scuola Giovanni Pascoli a Trastevere. Ma il suo primo soggiorno romano durò poco: con l’entrata in guerra dell’Italia, nella primavera del 1939 venne richiamato alle armi e rispedito a Genova, presso il distretto di Sturla. Nel giugno 1940 fu inviato tra i monti dell’estrema frontiera occidentale a combattere la fulminea campagna di Francia, raccontata nel diario di guerra Giorni aperti. Itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali (Roma 1942). Quella esperienza che molti anni dopo avrebbe stigmatizzato come «un capolavoro di insensatezza» (C. D’Amicis, Caproni, in l’Unità, 21 agosto 1995), pur non annullando del tutto gli accenni celebrativi al vigente regime presenti in alcuni articoli pubblicati nella rivista Augustea tra il 1938 e il 1940, vi aveva però spalancato profonde crepe. Da Mentone fu dislocato ai confini orientali, a Vittorio Veneto, e tra il 1940 e il 1942 cominciò un periodo di continui spostamenti, tra Genova, la Val Trebbia, Roma e varie altre località dell’Italia centro-settentrionale, come Udine, Pisa, Assisi, Foligno, Tarquinia e Subiaco.

A Roma tornava ancora volentieri. La capitale infatti lo attirava, anzi lo «abbagliava» (Cronologia, in L'Opera in versi,, 1998, p. LV) con le vestigia e le rovine di un glorioso passato, dietro cui però scorgeva un retroscena luttuoso e magniloquente in cui il giovane provinciale si aggirava smarrito. Sin dal primo momento risolutore fu l’incontro con Libero Bigiaretti, narratore e intraprendente giornalista il quale gli aprì le porte dell’ambiente letterario e artistico legato all’editore romano Luigi De Luca, che gli pubblicò Finzioni (Roma 1941): raccolta lapidariamente definita dal ventinovenne poeta «l’epitaffio della mia gioventù» (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 65). Tramite Piero Bargellini entrò in contatto con Enrico Vallecchi, il prestigioso editore degli ermetici fiorentini che, dopo qualche esitazione, accettò di pubblicare Cronistoria, in cui, a una scelta delle poesie giovanili, si aggiungeva un sostanzioso nucleo di composizioni scritte nel 1942 durante i suoi coatti vagabondaggi.

L’armistizio dell’8 settembre 1943 lo sorprese a Loco, in congedo provvisorio presso la famiglia dei genitori della moglie, accanto a Rina e ai due figli ancora piccoli: Silvana nata nel maggio 1939 e Attilio Mauro nel giugno 1941. Ripugnandogli l'idea di unirsi alle brigate della Repubblica di Salò, entrò nella resistenza partigiana attiva in Val Trebbia, pur svolgendo, in qualità di commissario del Comune di Rovegno, compiti quasi esclusivamente civili, come l’approvvigionamento del cibo e la riorganizzazione della scuola. Le scene di orrore di quei tragici 19 mesi, le violenze praticate dai mongoli alleati dei tedeschi sulla popolazione inerme, gli dettarono, accanto agli struggenti racconti della sua saga partigiana, tra i quali lo splendido Il labirinto (L'Opera in versi, 2008, pp. 138-164), i suoi versi più cupi e chiusi: I lamenti composti tra il 1944 e il 1947, raccolti nella sezione Gli anni tedeschi de Il passaggio d’Enea. Da allora in poi i monti della Val Trebbia gli offrirono il paesaggio più idoneo alla rappresentazione della guerra via via sempre più allegorica, dopo la svolta metafisica della sua poetica evidente in Acciaio, sezione centrale de Il muro della terra (Milano 1975).

Roma: angosce e amicizie

Nell’ottobre 1945 tornò a Roma, dove fino al 1949 trascorse «interminabili inverni di angoscia», abitando da solo prima a via Merulana, poi al quartiere Prati, poi ancora presso il cavaliere Domenico Gazzillo che gli affittava una camera della sua casa al n. 40 di via Goffredo Mameli, in Trastevere, ov'era situata anche la scuola presso cui aveva ripreso l'insegnamento (Frammenti di un diario (1948-1949), 1995, p. 44). Infine si trasferì a Monteverde, in viale Quattro Venti 31, in una piccola casa Incis, senza caloriferi e proprio «dirimpetto al lussuoso appartamento» di via Giacinto Carini dove, abbandonando Parma, era andato ad abitare Attilio Bertolucci (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 364).

Nel 1951 passò alla scuola Francesco Crispi per rimanervi sino al pensionamento. Non bastandogli il risicato stipendio di maestro correggeva le bozze nella «benedetta e dannata tipografia Tumminelli» (ibid., p. 74). Nella Roma del dopoguerra riprese i rapporti con Bigiaretti, divenuto direttore dell’ufficio stampa dell’Olivetti di Ivrea: a lui dedicò Le biciclette, scritto nel 1947 per le Olimpiadi della poesia di Londra, in cui si premiavano testi letterari ispirati allo sport. Rivide Giorgio Bassani, in cui si era imbattuto durante il servizio militare a Sanremo. Nel 1949 pubblicò su Botteghe oscure, La funivia, primo abbozzo, subito tradotto in inglese da William Weaver, del poemetto Stanze della funicolare, nucleo fondante del libro stampato con lo stesso titolo da De Luca nel 1951.

Grazie al critico fiorentino Ferruccio Ulivi nel 1950, pochi giorni dopo la morte della madre, conobbe di persona Betocchi, che a Roma alloggiava in via Soana vicino a piazza Tuscolo e la domenica riceveva volentieri gli amici. Caproni vi si recava spesso, da solo o insieme a Pasolini e Bertolucci. Betocchi si dimostrò un amico attento e generoso e più volte lo invitò alla rassegna radiofonica L’Approdo, commissionandogli tra l’altro i copioni, oggi perduti, di due puntate sulla Riviera ligure, la famosa rivista fondata e diretta da Mario e Angelo Silvio Novaro. Andate in onda il 29 novembre e il 20 dicembre 1954 furono poi sviluppate in una serie di articoli sulla cosiddetta linea ligustica nella poesia novecentesca italiana apparsi sulla Fiera letteraria nel 1956 e sul Corriere mercantile nel 1959.

Con il tempo aveva imbastito nuove amicizie: Giacomo Debenedetti lo pregò di aiutare il figlio Antonio per l’esame di ammissione alle scuole medie nell'anno scolastico 1946-47, e Pier Paolo Pasolini, fortunosamente sbarcato a Roma con la madre Susanna nel 1950, per qualche anno gli fece visita quasi ogni giorno instaurando uno scambio critico vicendevolmente proficuo. Determinante fu anche l’incontro con Bertolucci che – dal Seme del piangere in poi – avrebbe patrocinato il suo approdo alla Garzanti, per di più cercando di fargli ottenere dal ministero della Pubblica Istruzione un periodo di congedo dall’insegnamento. Il tentativo fallì a causa del suo carattere fiero e indipendente. Per lo stesso motivo non accettò mai un impiego stabile alla Rai, mentre dal 1966 al 1972, come consulente editoriale della Rizzoli, esaminò i manoscritti di testi narrativi inediti, italiani e francesi. Dal 1958, anno in cui Betocchi assunse l’incarico di redattore della trasmissione ribattezzata L’Approdo letterario, si moltiplicarono le letture radiofoniche delle sue poesie che trovavano spazio sulle pagine dell’omonima rivista durata fino al 1977.

Nell’estate del 1959 a Spotorno fu presentato dal poeta ligure Angelo Barile all’amatissimo Camillo Sbarbaro con cui mantenne sporadici, ma saldissimi rapporti. Sempre di più al lavoro poetico affiancò il mestiere del traduttore e del giornalista letterario. La politica attiva, nel senso militante del termine, non lo interessò mai fino in fondo. Vicino al Partito socialista italiano (PSI) nel 1945, non negò la sua firma ad alcuni dei più significativi giornali della sinistra, tra i quali Avanti!, l’Unità, Italia socialista,Il Politecnico, Il Lavoro nuovo, Vie nuoveMondo operaio di cui diresse la pagina letteraria. Nel 1948 si unì al I Congresso internazionale degli intellettuali per la pace tenuto a Breslavia in Polonia. In quell’occasione fece visita ad Auschwitz e ne rimase fortemente scosso. Ma negli anni Sessanta, al culmine della ripresa economica della nuova Italia consumistica, non tardò a esprimere la sua delusione e a deplorare le inadempienze dei politici nei confronti delle speranze del dopoguerra. Esemplare l’invettiva intitolata Lorsignori, una feroce requisitoria consegnata insieme al poemetto Lamento (o boria) del preticello deriso a Cesare Vivaldi per un’antologia di versi satirici («Han la testa sul collo,/ dicon loro. Di pollo./ I piedi sulla terra./ lavoran per la pace/ preparando la guerra» (Vivaldi, 1964, p. 127).

Il traduttore e il pubblicista

Il suo curriculum di traduttore vantò imprese di straordinaria importanza: il Tempo ritrovato di Marcel Proust, su incarico di Natalia Ginzburg (Torino 1951), Poesie e prosa di René Char (Milano 1962) poeta aristocratico e concettuale, di rocambolesca difficoltà, che Caproni sarebbe andato a visitare nel suo rifugio all’Isle-sur-la-Sorgue soltanto nel 1986. Altri titoli memorabili furono La mano mozza di Blaise Cendrars (Milano 1967), Il silenzio di Genova e altre poesie di André Frénaud (Torino 1967) che lo aveva aiutato nell’ardimentosa traduzione di Morte a credito  di Louis-Ferdinand Céline (Milano 1964). A quattro mani con Rodolfo Wilcock voltò in italiano Tutto il teatro di Jean Genet (Milano 1971) e nello stesso anno Rizzoli pubblicò le sue traduzioni dalla raccolta Non c’è paradiso di Frénaud che gli valsero nel 1973 il Premio Città di Monselice. Varie altre versioni da poeti francesi e spagnoli del Novecento sono state poi raccolte in un Quaderno di traduzioni postumo (1998). Con un caloroso elogio Mario Luzi lodò il suo proverbiale métier in grado di svelargli, magari proprio attraverso il confronto con poeti da lui diversissimi, le sue più segrete qualità: «Lo sviluppo della poesia di Caproni offre anzi un esempio raro nel panorama del tempo di maturazione sostanziale che si attua dentro un progressivo amoroso affinamento del mestiere; e dico del concreto mestiere di armeggiare con le parole e con i metri che è qualcosa di diverso dal puntualizzare la propria tecnica, lavoro che compete a ogni scrittore serio» (Ama davvero il mestiere, in La Fiera letteraria, 2 novembre 1967).

Frenetica, ma dall’autore ritenuta di minore importanza, fu anche l’opera del pubblicista che annoverava recensioni, elzeviri, interventi di poetica, riflessioni sul costume della nuova società nata con la Repubblica. Il rapporto più longevo fu con La Fiera letteraria. La collaborazione iniziò nell’ottobre 1946, s’intensificò nel 1957 in una specifica rubrica di poesia a lui intestata e nel 1958 continuò con «Il taccuino dello svagato», che ospitava una prosa in qualche modo inattuale sospesa tra elzeviro e memorialistica. Il contatto con la Fiera s’interruppe nel 1961 in segno di protesta contro la pubblicazione di un saggio di Vintilă Horia, scrittore franco-rumeno di tendenze antisemite e filonaziste. Nel 1962, su proposta di Romano Bilenchi, sostituì il critico letterario Giuseppe De Robertis nel giornale fiorentino La Nazione. L’ultimo articolo uscì il 24 aprile 1970.

Critico verso l’ideologia dell’impegno assunta dalla rivista Nuovi Argomenti fondata a Roma nel 1953 da Alberto Moravia e Alberto Carocci, manifestò dubbi anche nei confronti dell’eccessivo filoermetismo manifestato dal mensile di letteratura e d’arte diretto da Enrico Vallecchi, La Chimera, dove in ogni caso pubblicò Sono i poeti i misconosciuti legislatori del mondo, ispirato al famoso saggio di Percy Bysshe Shelley, Difesa della poesia. Pur esprimendo perplessità sulle potenzialità conoscitive del linguaggio, caldeggiava lo «scopo pratico» dei versi dei veri poeti «i quali devono essere anch’essi dei veri utensili per essere veramente utili e perciò per essere autentica poesia» (Versi come utensili, in Mondo operaio, 25 dicembre 1948). Nel 1957 si schierò in difesa della semplicità della poesia contro l’eccessiva intellettualizzazione auspicata dalla rivista Il Verri, fondata da Luciano Anceschi nel 1956.

Il «Grande Caproni»

Erano i tempi in cui le Stanze della funicolare resuscitavano il mito sbarbariano di una Genova sognata che il confronto con Roma, città ormai quasi aborrita, arricchiva di nostalgici sensi riposti. O in cui Il passaggio d'Enea riproponeva lo struggente mito dell’Enea genovese, inteso non come «la solita figura virgiliana, ma proprio la condizione dell’uomo contemporaneo della mia generazione» uscito dalla guerra da solo e con un imponente carico di responsabilità (Caproni, 1998, p. 1262). Mentre nel Seme del piangere, «in fondo, un libro-ricordo» («Era così bello parlare»…, 2004, p. 65) la leggenda di Annina, ricreata sfogliando vecchie foto di famiglia, aveva riportato in vita Livorno restituita a un suo mitico e indelebile spazio ideale per i morti più che per i vivi.

Il 26 gennaio 1960 esponeva a Betocchi il desiderio di «una fede più solida, non poetica né intermittente» (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 205). Erano i primi sintomi della crisi religiosa che si sarebbe manifestata nel tema della discesa al Limbo e dell’incontro con i morti affrontato con lucido disincanto nei poemetti del Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (Milano 1965) dedicato all’attore Achille Millo che ne fu per anni elegante e discreto lettore.

Nello stesso anno fu operato allo stomaco per un’ulcera gastrica. Nel 1968 prese in affitto un appartamento a via Pio Foà 49 dove visse fino agli ultimi suoi giorni. Nonostante il successo lo assillavano la solitudine e una tormentosa e paradossale patoteologia. Nel 1978 in una «Genova sepolta dalla neve» moriva il fratello Pier Francesco (Una poesia indimenticabile..., 2007, p. 319) e nel 1987 la sorella Marcella. Si moltiplicarono gli inviti e i viaggi all’estero. Nel giugno 1978, con la figlia Silvana, visitò per la prima volta Parigi, per una lettura di versi tenuta al Beaubourg, con Mario Luzi, Vittorio Sereni e Delfina Provenzali. Ne nacque la plaquette Erba francese (Luxembourg 1979). Tornò poi in Francia nel 1985 per conferenze e letture a Parigi, Grenoble, Avignone, Arles, Lione. Nel settembre 1978 fu invitato dall’Istituto italiano di cultura alla Columbia University di New York e alle Università di Berkeley e di Stanford in California a San Francisco. Nel maggio 1985 si recò a Vienna e nel 1986, sempre con Silvana, fu in Germania, a Münster e a Colonia, dove concepì lo spunto per la poesia Res amissa che avrebbe dovuto dare il titolo alla raccolta rimasta incompiuta e pubblicata postuma da Giorgio Agamben (Milano 1991). La sua opera cominciò a essere sistematicamente tradotta in francese da Philippe Renard e Bernard Simeone.

Numerosi i premi e i prestigiosi riconoscimenti. Con Stanze della funicolare vinse il premio Viareggio. Assieme a Montale, vincitore con La bufera e altro del premio principale e più cospicuo, Il passaggio d’Enea si aggiudicò il premio selezione Marzotto. Con Il seme del piangere (Milano 1959) tornò a vincere per la seconda volta il Viareggio e con il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (ibid. 1965) il premio Chianciano. Nel 1982, in occasione dei suoi settant’anni, gli venne attribuito il premio Librex Eugenio Montale per la poesia e il premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia nazionale dei Lincei. Il Conte di Kevenhüller è stato insignito con i premi Chianciano, Marradi Campana e Pasolini. Il 1° dicembre 1984 ricevette da Carlo Bo, rettore dell’Università di Urbino, la laurea honoris causa in lettere e filosofia, mentre nel 1985 gli venne conferita la cittadinanza onoraria di Genova.

Con la svolta de Il muro della terra che inaugurò la trilogia del «Grande Caproni» non modificò tanto le forme o i contenuti, ma ampliò la propria sfera di influenza nella poesia contemporanea. In seguito all'edizione economica complessiva di tutte le sue poesie dal 1932 al 1986 (Milano 1989) molti lo avvicinarono ai grandi maestri della poesia del Novecento, da Paul Celan a Samuel Beckett.

Morì a Roma il 22 gennaio 1990 nella sua casa di via Pio Foà e fu sepolto nel cimitero di Loco, dove riposa accanto alla moglie Rina, morta nel 1993.

Opere

Poesie 1932-1986, Milano 1989; Frammenti di un diario (1948-1949), a cura di F. Nicolao, con una nota di R. Debenedetti, introd. di L. Surdich, Genova 1995; La scatola nera, prefaz. di G. Raboni, Milano 1996; L'Opera in versi, ed. critica a cura di L. Zuliani, prefaz. di P.V. Mengaldo, cronologia e bibliografia a cura di A. Dei, ibid. 1998; Quaderno di traduzioni, a cura di E. Testa, prefaz. di P.V. Mengaldo, Torino 1998; «Era così bello parlare»: conversazioni radiofoniche con G. C., prefaz. di L. Surdich, Genova 2004; G. Caproni - C. Betocchi, Una poesia indimenticabile. Lettere 1936-1986, a cura di D. Santero, prefaz. di G. Ficara, Lucca 2007; Racconti scritti per forza, a cura di A. Dei e con la collab. di M. Baldini, Milano 2008.

Fonti e Bibliografia

A. Barbuto, G. C. Il destino d’Enea, Roma 1980; L. Surdich, G. C.: un ritratto, Genova 1990; S. Verdino,Il Grande C., in Omaggio a G. C., in Resine, n.s., XIII (I991), 47; A. Dei, G. C., Milano 1992; B. Frabotta, G. C., Roma 1993; A. Dolfi, C., la cosa perduta e la malinconia, in «Il mio nome è sofferenza». Le forme e la rappresentazione del dolore, a cura di F. Rosa, Trento 1993; Per G. C., a cura di G. Devoto - S. Verdino, Genova 1997; G. Leonelli, G. C.: storia d’una poesia tra musica e retorica, Milano 1997.

TAG

Accademia nazionale dei lincei

Partito socialista italiano

Armistizio dell’8 settembre

Louis-ferdinand céline

Prima guerra mondiale