CLERICI, Giorgio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 26 (1982)

CLERICI, Giorgio

Pietro Cabrini

Nacque a Milano in S. Protaso ad Monacos, centrale parrocchia del quartiere di Porta Comasina, il 14 ott. 1648, unico figlio di Carlo e di Eufemia Bonetti, figlia di Giovanni Battista, decurione cremonese e senatore. Studiò giurisprudenza, frequentando quasi certamente il collegio Borromeo e laureandosi a Pavia nel 1669.

Anche il padre si era addottorato, nel 1641, in utroque iure. Ma il suo curricolo (aveva conseguito il baccalaureato a Salamanca in diritto civile e la laurea a Bologna) si differenzia da quello del C. per una certa aderenza, ancora, alla consuetudine del "Kavalierstour" cinquecentesco.

Sempre nel 1669 sposò Caterina Pallavicini, vedova del marchese Giovan Battista Casnedi e figlia del marchese Giovanni Giorgio. Matrimonio (come d'altronde quello del padre) che autorizza a ritenere i Clerici - famiglia a metà del Seicento di ancor recente estrazione mercantile - già amalgamati o in via di amalgamarsi con la nobiltà. Ne nacquero tre figli: Carlo Francesco (1672), Cecilia e Clara. Il C. avrà un'altra figlia, Rosa Gaspara, dalla seconda moglie, Barbara Barbavara, con cui si sposò in tardissima, età.

Ascritto al Collegio dei giureconsulti, si fece abbastanza rapidamente strada nelle cariche del ducato. Esordì come vicario pretorio della città di Cremona e nel 1672 ottenne la approbatio a tutti gli uffici biennali. L'anno successivo acquisiva il diritto di accedere a una magistratura centrale, il Magistrato ordinario, ricevendo la nomina a questore in soprannumero. Ma non restò a lungo nel novero dei funzionari soprannumerari, categoria inflazionata in quegli anni dalla disinvoltura con cui a Madrid si faceva il "trafico de cargos". Promosso questore effettivo nel 1676 a seguito della morte di Leonardo Calderari, nel 1684 otteneva il seggio di senatore, carica che lo collocava a pieno titolo fra i membri della ristretta oligarchia milanese.

La piazza di senatore, già conferita nel 1666al padre, ma a coronamento di una carriera ventennale nelle giudicature del ducato culminata nel 1662 con la prestigiosa carica di capitano di Giustizia, era stata sollecitata dal C. senza successo nel 1678e nel 1681. Al proposito ci illumina una testimonianza di famiglia, secondo la quale il C., definito un giovane "avido di voler essere sì nelli onori, come nella roba il signore dell'universo" (Milano, Arch. stor. civico, Famiglie, c. 475), avrebbe spinto il padre a richiedere il posto di reggente nel Supremo Consiglio d'Italia onde acquistare per sé una influenza più diretta a corte. Sembra che in occasione della nomina del padre a reggente, nel 1676, anche il C. si recasse a Madrid, per patrocinare meglio la propria causa. Certo fu un soggiorno breve e poco fruttuoso, perché il padre morì prematuramente pochi mesi dopo in Spagna.Il C. si assicurava così anche una parte cospicua del ricco patrimonio Clerici. In base ad un fedecommesso, istituito nel 1660 dal nonno Giorgio (detto anche Giorgione), la fortuna di famiglia nel 1665 era stata spartita in parti uguali fra i tre figli superstiti, dei sette che Giorgione aveva avuto da Angela Porro: Pietro Antonio, Carlo e Francesco. Ma non avendo avuto Pietro Antonio dal matrimonio con Vittoria D'Adda una discendenza maschile, alla sua morte, avvenuta nel 1671, questa quota d'eredità era passata per metà a Carlo e per metà a Francesco, rifluendo quindi interamente nelle mani di Francesco dopo la morte di Carlo. La parte dei beni di Pietro Antonio sarebbe dovuta passare al C. solo dopo la morte dello zio Francesco (defunto anch'egli senza discendenza nel 1684). Ma sfruttando la propria influenza a Milano, il C. ottenne nel 1678 e nel 1681 due sentenze del Senato che gli assicuravano anzitempo il possesso della metà di questa quota. Circa l'entità del patrimonio Clerici possediamo innanzitutto i dati che si riferiscono alla spartizione del 1665. Morendo, Giorgione aveva lasciato una fortuna pari a due milioni e 280.295 lire, fruttante una rendita annua calcolata in 118.341 lire. La parte maggiore del patrimonio era investita in redditi camerali e in redditi su altre entrate pubbliche (censi, dazi, ecc.): 998.578 lire. Il resto proveniva dal possesso di case e botteghe a Milano e Pavia (330.629 lire) e dal possesso di terre (951.088 lire). Il rilevante patrimonio fondiario ammontava nell'anno 1665 a più di 21.000 pertiche, che erano distribuite per lo più nell'alto Milanese, ma dislocate anche nei contadi di Novara, Pavia, Lodi.

La consistenza dei redditi camerali era la conseguenza stessa del modo in cui Giorgione aveva accumulato e accresciuto il suo patrimonio. Arricchitosi dapprima con il commercio dei tessuti, da lui esercitato in società con Bernardo Porro e Giovanni Pietro Carcano a partire dal 1604, pur continuando a finanziare attività mercantili ancora nel 1634, Giorgione fin dal 1616 aveva esercitato il prestito ad interesse, specializzandosi a quanto consta nel finanziamento pubblico. L'entità delle sovvenzioni che Giorgione, soprattutto dal 1640 in poi, fece alla R. Camera (un riepilogo del 1647 parla di 349.876 lire, ma due anni dopo la cifra risulta già raddoppiata) fa ritenere anzi che Giorgione riuscisse ad inserirsi saldamente nella cerchia di quei sovventori dello Stato, ai quali il cronico indebitamento erariale consentì in quegli anni di accentrare nelle proprie mani quote massicce delle pubbliche entrate e ampie funzioni giurisdizionali. Non a caso il figlio primogenito Pietro Antonio, che era compartecipe degli affari di Giorgione, nel 1661figura fra i maggiorenti del Banco di S. Ambrogio, istituzione patrizia costituita apposta per l'amministrazione di tali proventi e l'ulteriore finanziamento dell'erario. Dopo la morte di Giorgione il patrimonio quasi certamente venne, incrementato dagli eredi e in particolare da Carlo, che grazie alla carriera negli uffici pubblici si era assicurato nuove e assai lucrose posizioni di rendita. In merito mancano cifre precise, ma è significativo che il C., nel 1681, potesse concorrere, insieme con la marchesa Marzorati e il conte Crivelli, all'acquisto di un ampio lotto del giardino del Castello di Milano, che richiese l'esborso complessivo di 726.000lire.

Rimasto, dopo il 1684, l'unico depositario della fortuna Clerici, pur conducendo una vita di splendore e di fasto, il C. riuscì ad incrementare notevolmente il patrimonio avito, non disdegnando quelle forme di investimento speculativo che avevano reso ricco il nonno. La fortuna che egli lasciò al proprio discendente, in base a un inventario patrimoniale compilato nel 1738, comprende un patrimonio fondiario di circa 41.325 pertiche milanesi e di 4.887 pertiche pavesi, in cui il raddoppio, rispetto al 1665, appare dovuto sia all'ampliamento delle possessioni avite, sia all'acquisto di nuove possessioni, in genere di prestigio. Quanto ai redditi da censi, dazi e altre entrate pubbliche alienate, essi fruttavano al C. un'annua rendita di 54.366 lire. Ma a questa entrata, cospicua, vanno sommati i capitali che il C. anticipò negli ultimi anni a privati, comunità indebitate, enti assistenziali: un importo superiore al milione. Il solo ospedale Maggiore di Milano, d'altronde, gli era debitore di una somma pari a 200.000 lire, prestata nel 1734.

Erede, oltre che delle possessioni e dei redditi, che lo collocavano alla pari con le maggiori famiglie della nobiltà lombarda, anche di una solida influenza nel chiuso ambiente dell'aristocrazia delle cariche, durante l'assenteista monarchia di Carlo II, il C. si inserì ben presto nei posti chiave dell'amministrazione milanese. Marchese di Cavenago (in virtù dell'acquisto di questo feudo da parte dello zio Pietro Antonio nel 1666) e come tale formalmente legittimato a detenere le posizioni di privilegio riservate alla nobiltà, due anni dopo il conferimento del seggio senatorio il C. era chiamato a Madrid per coprire la carica di reggente nel Supremo Consiglio d'Italia. La nomina significava la possibilità di avanzare automaticamente, o quasi, verso i massimi incarichi. Nel 1689 otteneva infatti la "futura successione" nella presidenza o del Magistrato ordinario o del Senato. Nel 1691 era nominato ad interim gran cancelliere dello Stato di Milano, un ufficio secondo per importanza e prestigio solo a quello di governatore e come tale affidato di norma a spagnoli. Rinnovato nell'interim ancora nel 1694, l'anno successivo subentrava al conte Marco Arese nella suprema carica di presidente del Magistrato ordinario. In questo ufficio restò insediato per un ventennio. Ma nel 1697 Carlo II concedeva al C. anche il privilegio di succedere nella carica di presidente del Senato, onore questo che significava il raggiungimento di una delle mete più ambite per i membri dell'aristocrazia dirigente lombarda.

Morto Carlo II e apertasi la contesa per la successione al trono di Spagna, anche il C. si sottomise, nel 1701, al giuramento di fedeltà a Filippo V, ottenendo nel 1703 dal rivale di Carlo III la carica di decurione in Como, trasmissibile a un discendente. Nello stesso anno il figlio Carlo Francesco, che era questore di cappa del Magistrato straordinario ed era stato nominato nel 1689 gentiluomo di camera di Carlo II, venne ammesso a far parte del Consiglio segreto. In realtà non è chiaro che posizione assumesse il C. nella contesa dinastica. Nel 1706 ritenne opportuno far istanze per ottenere la cittadinanza dei dodici Cantoni della Lega elvetica. Due anni dopo, quando Milano era ormai in mano agli Asburgo, egli dava alle stampe una lettera dell'imperatore Leopoldo, del 1693, in cui veniva elogiato per i servigi prestati alle truppe ausiliarie imperiali presenti allora in Italia. L'imperatore Giuseppe, nel 1708, nominò comunque il C. consigliere intimo di Stato e nel 1711 il suo successore Carlo VI rinnovò il privilegio di Carlo II che gli assicurava la "futura successione" nella presidenza del Senato. Nel 1716, infine, al nipote del C. Carlo Giorgio, nato nel 1696 dal matrimonio di Carlo Francesco con Giovanna Ferreri dei principi di Masserano, veniva conferito sempre da Carlo VI il grandato di Spagna. Solo nel 1712 la posizione del C. fu oscurata da una breve "eclisse" (così si dice nel discorso funebre pronunciato in suo onore in S. Fedele). E fu quando si alienò un potente favorito di Carlo VI, il conte Rocca Stella, che pretese - voce raccolta e divulgata dall'inviato di Vittorio Amedeo II a Vienna, conte San Martino di Baldissero - il suo allontanamento dalla presidenza del Magistrato ordinario. Effettivamente il C. subì una "inquisizione", tesa ad accertare la correttezza del suo operato, e gli vennero sospesi "salario ed emolumento". Ma egli, che contava su autorevoli appoggi e che in particolare godeva dell'amicizia del principe Eugenio di Savoia, il quale intercedette in suo favore a corte, non restò a lungo in disgrazia. Nel marzo del 1713 veniva infatti reintegrato in carica e scagionato da ogni addebito. Pochi mesi dopo gli veniva anzi affidata la mediazione della vendita di Finale alla Repubblica di Genova, delicato affare che coinvolgeva i rapporti non rosei fra l'Impero e il Piemonte, anch'esso in lizza per l'acquisto di quella piazza.

Subentrato nel 1717 a Luca Pertusati nella presidenza delSenato, restò in carica fino al 1733, quando fu costretto a dimettersi per la troppo tarda età.

Il C. morì a Milano il 14 dic. 1736.

Il nipote Carlo Giorgio, su cui il C. aveva riposto le proprie speranze, avviandolo alla carriera delle armi e affidandolo alla illustre protezione del principe Eugenio di Savoia, perì appena ventunenne nell'agosto del 1717 durante l'assedio di Belgrado, precedendo di cinque anni la morte del padre. Del ramo primogenito sopravvisse al C., pertanto, solo il pronipote Antonio Giorgio (detto anche Giorgio Antonio, ma erroneamente, da alcuni biografi come il Calvi), nato nel novembre del 1715 dal matrimonio di Carlo Giorgio con Maria Archinto, figlia del conte Carlo, decurione di Milano e fondatore della Società Palatina. Antonio Giorgio crebbe perciò all'ombra dell'illustre bisnonno, che molto probabilmente dovette provvedere personalmente alla sua formazione. Nel 1733 il bisnonno lo nominava proprio erede universale, impetrando e ottenendo l'anno successivo dal Senato l'abilitazione per il nipote ad amministrare, senza tutela di sorta, i beni ereditari, ancorché minorenne. Sposatosi giovanissimo con Fulvia Visconti, da cui ebbe una figlia, Claudia (andata in moglie a Vitaliano Biglia), una volta divenuto il continuatore del casato, Antonio Giorgio non mancò di cercare, a tutti i costi, il modo per dar nuovo lustro alla famiglia. Erede, oltre che del titolo di marchese di Cavenago, anche del titolo di signore di Cuggiono e di signore di Trecate, nel 1737 fece istanza alla città di Milano per accedere al patriziato, vantando la discendenza del proprio casato dai Clerici di Lomazzo conti palatini. In questo modo coronava esteriormente una ascesa secolare, a cui non abbisognavano certo nuove "investiture", ma che mancava proprio del titolo più prestigioso. Le probationes, istruite dal giureconsulto Giovanni Sitoni di Scozia scremando accuratamente ogni riferimento all'avo Giorgione, troppo compromesso con la mercatura, gli giovarono l'aggregazione al patriziato nel 1739. L'anno successivo, subentrando a Pietro Agostino Orrigoni, sedeva nel Consiglio generale della città di Milano. In una Milano in cui, ormai, il ruolo politico dell'aristocrazia delle cariche si andava progressivamente ridimensionando, Antonio Giorgio, a cui mancava anche la formazione giuridica del bisnonno, non si distinse per mezzo degli uffici. Come il padre, si dedicò invece al mestiere delle armi, ottenendo subito il grado di colonnello per aver istituito a proprie spese, nel 1744, un intero reggimento di fanteria. Al comando del reggimento Clerici e col grado di generale prese quindi parte, dal settembre del 1756 al novembre del 1757, alla guerra dei Sette anni, combattendo in Boemia e Moravia nel corpo di riserva. Ma per una ferita che riportò in combattimento sulle alture di Schönberg, al principio del 1758, venne dispensato dal servizio da Maria Teresa. Quell'anno stesso l'imperatrice, in occasione del conclave che elesse papa Clemente XIII, lo nominava proprio ambasciatore straordinario presso la S. Sede, perché impetrasse dal nuovo pontefice il titolo di regina apostolica e sussidi per l'erario. Antonio Giorgio, che fra i tanti titoli aveva anche quello di protettore dei beni e dei redditi dell'Inquisizione di Milano, condusse la sua missione secondo i desideri sovrani, lasciando una eco particolare nelle cronache e nella fantasia popolare per la fastosità principesca che esibì, col suo corteo, nel corso dell'udienza pontificia. Il fasto era d'altronde un segno peculiare della tradizione di famiglia. Ma Antonio Giorgio portò all'eccesso ogni forma di ostentazione, ispirandosi ai modelli del lustro versaillese. Sperpero e vita sregolata finirono tuttavia per procurargli delle noie. Nel 1761 i "chiamati" nei fedecommessi ricorsero per porre un limite allo sciupio che egli andava facendo da anni delle sostanze familiari. L'iniziativa sortì il suo effetto e il Senato sospese le dispense che avevano consentito ad Antonio Giorgio di alienare beni per un valore superiore ai cinque milioni. Quando morì, l'11 giugno del 1768, il patrimonio risultava gravemente decurtato. Però la decadenza della famiglia era ben lungi dall'essere irrimediabile, come pretendeva di far credere al Kaunitz la vedova di Antonio Giorgio, impetrando nel 1768 un'annua assistenza dallo Stato. Essendo privo di una discendenza maschile, i beni vincolati dai fedecommessi passarono ad un esponente del ramo secondogenito, Francesco Maria Clerici, nipote di Giovan Paolo, un fratello naturale legittimato di Giorgio. Circa la loro consistenza bastino questi dati indiretti, ma significativi: nel 1798 il fisco della Repubblica cisalpina accertava a Francesco un reddito di 54.000 lire, che lo collocava nella categoria dei contribuenti nobili più facoltosi, e a Claudia un reddito di 26.000 lire.

Fonti e Bibl.: Già consultato da F. Calvi, l'Arch. Clerici. Marchionato antico, che si conserva a Milano, è soprattutto un archivio patrimoniale. Carte riguardanti specificatamente la famiglia nelle cartelle 1-6. Di particolare rilievo per il C. le cartelle 3 e 4, che contengono per lo più documenti ufficiali, ma anche lettere e manoscritti. Relativa a tutto il casato e scarsamente differenziata anche la documentazione nell'Archivio stor. civico di Milano, Famiglie, cc. 472-476; Archivio di Stato di Milano, Acquisti Riva-Finolo,Raccolta Sitoni di Scozia, c. 26; Ibid., Famiglie, cass. 54. Per il patrimonio familiare, oltre alle numerose cartelle dell'Archivio Clerici, che è strutturato per possessioni, si veda: Arch. di Stato di Milano, Atti del Senato,Fidecommessi, cc. 224-226; Ibid., Reddituari, cc. 356-358; Ibid., Feudicamerali,p. a., cc. 197 e 685; Ibid., Notarile, filze 31.937 (testamento di Giorgione), 31.943 (inventario dei beni di Giorgione), 38.318 (testamento del C.), 38.321 (inventario dei beni del Clerici). Particolarm. scarna risulta la document. sul C. negli archivi pubblici. Elementi utili quasi solo per definirne il cursus honorum in: Archivio di Stato di Milano, Uffici regi,p. a., cc. 84, 694, 701; Ibid., Araldica,p. a., c. 33; Milano, Arch. storico civico, Dicasteri, c. 3; Archivio di Stato di Como, Ordinationes, vol. 28. Inoltre, Solenniesequie celebrate in Milano a' XXII dicembre dell'anno MDCCXXXVI per la morte dell'ill.mo edecc.mo marchese reggente don G. C., Milano 1737; J. Benalius, Elenchus familiarum in Mediolani dominio feudis,jurisdictionibus,titulisque insignium, Mediolani 1714, p. 18; F. Calvi, Il patriziatomilanese, Milano 1875, pp. 149-161 (specificamente sul C. le pp. 149 s.); Id., Clerici, in Famiglie notabili milanesi. Cenni storici e genealogici, I, Milano 1875; P. Canetta, Elenco deibenefattori dell'Ospedale Maggiore di Milano(1456-1886), Milano 1887, pp. 57 s.; F. Guasco, Dizionario feudale degli antichi Stati e della Lombardia..., Pinerolo 1911, pp. 500, 677, 1675 (contiene numerose inesattezze); E. Casanova, Dizionariofeudale delle province componenti l'antico Stato diMilano..., Milano 1930, p. 33; Relaz. di ambasc. sabaudi,genovesi e veneti durante il periodo dellagrande alleanza e della success. di Spagna(1693-1713), a cura di C. Morandi, Bologna 1935, p. 124; F. Arese, Le supreme cariche del ducato diMilano, in Arch. stor. lomb., s. 9, IX (1970), pp. 82 s., 93, 97, 99, 111, 118, 129, 149, 179; V. U. Crivelli Visconti, La nobiltà lombarda, Bologna 1972, p. 73; D. E. Zanetti, La demografia del patriziatomilanese nei secc. XVII,XVIII,XIX, Pavia 1972, p. 30; F. Arese, Geneal. patrizie milanesi, App. a D. E. Zanetti, La demografia…, cit., Pavia 1972, pp. 20, 101, 258; A. Cova, Il Banco di S. Ambrogio nell'economia milanese del secc. XVII e XVIII, Milano 1972, pp. 85 s.; V. Spreti, Enc. stor. nobiliare ital., II, p. 484. Per Antonio Giorgio, oltre alle fonti e alle opere già citate, si veda il volume ms. conservato presso l'Archivio Clerici: Diariodi guerra scritto dall'aiutante del marchese A.G. Clerici(settembre 1756-novembre 1757); F. Arese, Patriz,nobili e ricchi borghesi del Dipartimento d'Olona secondo il fisco della I Repubblica cisalpina(1797-1799), in Arch. stor. lomb., s. 10, I (1975), pp. 132, 138; M. Dell'Arco, G. A. Clerici "ambasciatore del conclave", in La Martinella, XXXI (1977), 9-10, pp. 247 ss.; C. V. Wurzbach, Biographisches Lexikon des Kaiserthums Oesterreich, I, pp. 386 s.

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