DATI, Giorgio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 33 (1987)

DATI, Giorgio

Concetta Giamblanco

Nacque a Firenze il 25 sett. 1506 da Niccolò di Piero e da Maddalena di Latino Pilli.

Sembra che la famiglia Dati sia arrivata dall'Incisa a Firenze intorno al sec. XIII. La sua arma consisteva in un campo d'argento sul quale erano raffigurate tre teste umane di rosso poste in profilo e ordinate in banda, sormontate da lambello dello stesso. La sua arma consisteva in un campo bianco o d'argento sul quale erano raffigurati tre "capi di uomo rossi" posti uno dietro l'altro a sghembo e con sopra un rastrello rosso. Dai tre capi rossi rappresentati sullo stemma, la famiglia fu detta anche Capirossi. La casa dei Dati a Firenze era situata sul lato meridionale della piazza S. Spirito, dove sboccano le vie Mazzetta e delle Caldaie. Ancora oggi si può ammirare sull'angolo della casa, che da allora fu detto canto dei Dati, il loro stemma. Il D. apparteneva, quindi, al quartiere di S. Spirito e al gonfalone Ferza. Erano comunque di sua proprietà altre case a Firenze, tra cui una nella vicina via dei Serragli, un terreno a Legnaia, altri a S. Maria e S. Bartolo a Cintoia, altri possedimenti nel contado di Arezzo. I Dati nel corso dei secoli si imparentarono con molte altre famiglie nobili fiorentine e toscane, come gli Strozzi, i Corsini e i Del Caccia. Tra gli antenati del D. troviamo cinque priori, un gonfaioniere e altri che si distinsero per meriti di vario genere. Il padre, Niccolò, ricoprì cariche pubbliche: nel 1510 fu gonfaloniere, nel settembreottobre 1511 priore, nel 1518 nuovamente gonfaloniere e ancora nel 1554 fu nominato vicario di Firenzuola.

Per trovare le prime notizie sul D. bisogna giungere al 1530 quando da "giovane spiritoso e di buone speranze" (B. Varchi, Storia fiorentina, II,p. 571), incendiò, insieme ad altri, le ville di Careggi e Salviati. Questo gesto gli valse l'esilio e la confisca dei beni. Non si sa più nulla di lui fino al 1535, anno in cui il D., msieme a Francesco Corsini, fu inviato da Anton Francesco Albizzi presso il principe Doria, che si era sempre dichiarato amico suo e della libertà della città di Firenze, quale latore delle istanze dei fuorusciti fiorentini. Il Doria, pero, deluse le aspettative dei Fiorentini, che abbandonarono ogni ulteriore impresa. A di questo periodo una lettera del D. ad Anton Francesco Albizzi, che si conserva presso l'Archivio di Stato di Firenze, nel fondo Mediceo del Principato (f. 331, c. 408). Si tratta della trascrizione di una lettera in cifra e nelle parole del D. si scorgono, fra le varie fazioni dei fuorusciti, quelle discordie per le quali nessuna loro azione fu mai coronata da successo.

Inizia così presumibilmente un periodo di peregrinazioni per il D., di cui però non si ha nessuna notizia certa. Probabilmente le città che lo ospitarono furono le stesse che accolsero gli altri fiorentini banditi da Firenze: Pesaro, Urbino, Modena, Ferrara o piuttosto Venezia e Roma dove, tra l'altro, fu edita la prima edizione delle sue traduzioni dell'opera di Valerio Massimo, la cui data (1539) è l'unico punto fermo di questo arco di tempo. Stranamente, infatti, il D. riappare solo il 3 febbr. 1542 con l'importante carica pubblica di podestà di Colle Val d'Elsa. Forse il D. accettò nel 1536 l'amnistia concessa da Alessandro in occasione dell'arrivo a Firenze della futura sposa Margherita d'Austria. oppure maturò la decisione di rientrare essendo sfumata anche una seconda occasione di restaurazione repubblicana dopo l'uccisione del duca Alessandro. A convalidare o addirittura ad affrettare questa decisione, potrebbero avere contribuito anche il fallimento del convegno di Castiglion dei Gaddi (9 febbr. 1537) e la tragedia di Montemurlo, dove furono catturati ed eliminati i principali capi esuli. I fuorusciti fiorentini erano divisi tra loro: da una parte gli aristocratici, che più che contro il principato, erano contro "quel" principe, dall'altra i veri repubblicani convinti.

Il D., quindi, risulterebbe non solo traduttore degli scritti di Tacito, ma anche, e soprattutto, del suo spirito e del suo pensiero, perché, appartenendo presumibilmente al gruppo degli aristocratici, aveva contestato Alessandro, ma aveva visto molte cose cambiate in meglio sotto Cosimo: il nuovo duca era riuscito a raggiungere un equilibrio tra il suo potere e la libertà dei cittadini. Ecco come si potrebbe spiegare il fatto di ritrovare il D. podestà di Colle Val d'Elsa per sei mesi, il 3 febbr. 1542, e dieci anni dopo, precisamente il 10 luglio 1552, sindaco della Camera del contado e infine nel giugno del 1554, membro dei Dodici buonuomini.

Nel 1552 il D. sposò Costanza, figlia di Zanobi Buondelmonti e di Maria di Luca Albizzi. Costanza era stata già sposata una prima volta con Francesco di Antonio Pazzi.

Al di là delle vicende politiche e delle cariche che rivestì nella sua vita, la fama del D. è legata alle varie edizioni delle sue traduzioni degli storici latini Tacito e Valerio Massimo. Insieme al Davanzati partecipò alle discussioni sulla questione della lingua, e pur non raggiungendo il livello del primo, le sue traduzioni dei due storici latini vennero sempre apprezzate a cominciare dallo stesso Davanzati e da B. Varchi, il quale in un sonetto dedicato al D. nel 1555, esortò l'amico a dare "colle pure vostre, e ornate toscane prose ... a voi vita a noi gloria eterna ... onde'1 latin volgare, moderno adegui il prisco ... Voi solo, con proprio stile, e therna altrui. far potete Fiorenza uguale a Roma" (B. Varchi, De sonetti, p. 149). Anche i critici posteriori non hanno mai negato il valore delle opere del D. anche se è sempre stata riconosciuta al Davanzati una maggiore scioltezza nella sua traduzione. Alcuni anni dopo la morte dei D. ci fu, però, una polemica per le accuse rivolte alla lingua italiana, e in particolare alle traduzioni del D., da Henri Estienne (Enrico Stefano), nel 1569 nel Traicté de la conformité du langage francois avec le grec, e ancora nel 1579, con note più dure, nel Projet du livre intitulé de la précellence du langage francois. In essi l'Estienne sosteneva l'impossibilità di rendere in lingua italiana la concisione della lingua latina e riteneva il lavoro del D. assolutamente inadeguyo all'originale. Tutte le edizioni delle traduzioni di Tacito sono postume, però si può presupporre che fossero già note mentre il D. era vivente, e che fossero note anche a Cosimo, perché la prima, quella edita nel 1563, conteneva una lettera dedicata al duca di Toscana. Il D. rende ottimamente la brevità e la "varietas" tacitiane, l'intercalare di periodi brevi e lunghi, analogamente riesce a mantenere intatte nella sua vivezza le metafore e la precisione nella scelta del lessico e, sebbene le sue traduzioni di Tacito non siano tra le migliori, tuttavia lasciano sempre al lettore il senso dell'austerità, il che significa che la scelta tecnica dello stile tacitiano, i particolari pittorici, le descrizioni misurate, realistiche e nello stesso tempo descrittive, lo studio più psicologico che fisico che Tacito fa dei suoi personaggi, sono stati tutti rispettati. Il D. curò anche la traduzione degli scritti di Valerio Massimo, il cui stile quasi sempre retorico e disordinato ma corretto, è reso in un italiano scorrevole ed essenziale.

Il D. morì a Firenze il 22 ag. 1557 e fu sepolto nel chiostro della chiesa di S. Spirito. Altre tombe della famiglia Dati, che si estinse nel 1767, si trovano nelle chiese di S. Felice in Piazza e di S. Maria Novella.

Le traduzioni delle opere di Tacito ebbero le seguenti edizioni: GliAnitali di C. Tacito, Venezia, Giunti, 1563, contenente una lettera del D. al duca Cosimo; GliAnnali di C. Tacito, ibid., id., 1582 (questo volume raccoglie anche le Storie di Tacito, tradotte sempre dal Dati). Altre traduzioni delle stesse opere furono edite ancora a Venezia, Giunti, 1589 e ibid., Alberti, 1598. Inoltre C. Corneli Taciti Opera Latina, cum versi Italica Giorgii Dati, Francoforte 1612; Aringa di C. Tacito, Venezia 1833. Per quanto riguarda le traduzioni delle opere di V. Massimo, abbiamo sicuramente del D. le seguenti edizioni: Roma, A. Blado d'Asola, 1539; Venezia 1551 e 1564 (sul frontespizio è riportata la data 1564, nell'ultima pagina, invece, si legge chiaramente 1563). Altre traduzioni furono edite a Venezia nel 1571-1568 e 1605.

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Modiceo del Principato, f. 331, c. 408; Ibid., Manoscritti Settimanni I, 1532-1536. n. 125, c. 75; Ibid.. Arch. della Deputaz. sulla nobiltà e cittadinanza, filza di Giustificazione, Patrizi. Firenze, n. 2, ins. 1; Ibid., Decima granducale 3571, anno 1534, c. 136; Ibid., Ceramelli-Papiani, nn. 1728-1730; Ibid., Sebregondi, nn. 1834, 1839; Ibid., Priorista Mariani, V, c. 1047; Ibid., Grascia, anno 1557; B. Varchi, De sonetti di M. B. Varchi, Firenze 1556, 1, p. 149; Id.j Storia fiorentina, Firenze 1843, II, p. 571; III, p. 125; G. Negri, Istoria de'fiorentini scrittori, Ferrara 1722, p. 206; I. Nardi, Istorie della città di Firenze, Firenze 1858, II, p. 254; A. Adernollo, Marietta de' Ricci, ovvero Firenze al tempo dell'assedio, Firenze 1845, I, p. 175; G. Toffanin, Il Cinquecento, Milano 1941, p. 640; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, I,1, tav. XI, s. v. Buondelmonte di Firenze.

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