PETROCCHI, Giorgio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 82 (2015)

PETROCCHI, Giorgio

Guido Lucchini

PETROCCHI, Giorgio. – Nacque a Tivoli il 13 agosto 1921 da Giuseppe e Valeria Vanni. Laureatosi in giurisprudenza all’Università di Roma nel 1942, fu bibliotecario presso la Biblioteca Angelica di Roma dal 1947 al 1955. Dal 1955 al 1961 insegnò letteratura italiana nell’Università di Messina, quindi alla Sapienza di Roma, presso la facoltà di magistero. Nel 1983 divenne socio nazionale dell’Accademia nazionale dei Lincei. Durante gli anni romani gli fu collega, dal 1971 al 1988, il fratello maggiore Massimo (1918-1990), professore di storia moderna. Sposatosi il 20 giugno 1949 a Roma con Matilde Luberti, ebbe due figli, Giovanni Maria e Maria Francesca.

Giovanissimo collaborò a riviste musicali e teatrali (gli articoli sono stati in parte ristampati postumi in Letteratura e musica, a cura di G. Gavazzeni, Firenze 1991); del carattere non occasionale di tali interessi fa fede il ben più tardo volumetto Cultura letteraria e musica nel primo trentennio del secolo (Napoli 1981). Al 1947 risale l’unico tentativo di romanzo (La carità) presso Francesco De Silva (Torino), nonché la prima monografia, dedicata a Edoardo Calandra (Brescia).

Edito in una collana della casa editrice Morcelliana ov’erano apparsi l’anno prima l’Emilio De Marchi di Vittore Branca e il Federigo Tozzi di Ferruccio Ulivi, che, insieme a Petrocchi aveva curato un’Antologia della lirica italiana dell’Ottocento (Roma 1947), lo studio su Calandra (di cui più tardi sempre Petrocchi ripubblicò A guerra aperta, Bologna 1964) volle rivalutarne l’opera troppo trascurata entro il quadro del romanzo italiano coevo e della grande narrativa francese da Stendhal a Maupassant, con un’attenzione più psicologica che formale.

Nel 1948 uscirono Fede e poesia nell’Ottocento (Padova) e gli Scrittori piemontesi del secondo Ottocento (Torino), in cui si palesava il debito con l’Introduzione alla narrativa della Scapigliatura piemontese di Gianfranco Contini (scritta nel 1942-43, ma apparsa nella rivista Letteratura solo nel 1947). Se gli esordi di Petrocchi furono quelli di un tardo-ottocentista, ben presto egli s’inoltrò nel Cinquecento, con Pietro Aretino tra Rinascimento e Controriforma (Milano 1948) e Matteo Bandello. L’artista e il novelliere (Firenze 1949).

Il primo studio, dopo i tre capitoli iniziali dedicati alla figura dell’Aretino e all’età in cui visse, esamina in ordine le prose narrative, il teatro (di cui Petrocchi curò poi una più recente edizione: Milano 1971), le prose sacre, le rime, i poemi e le lettere. L’attenzione è rivolta prevalentemente alla situazione psicologica dei personaggi, mentre minore appare l’interesse per la lingua, eccetto forse per quella delle commedie. Nella monografia su Bandello, incentrata anzitutto sulla sua educazione letteraria fra Pavia e Milano, si distingueva tra le fonti letterarie, segnatamente Giovanni Boccaccio e Giovanni Pontano – suoi maestri «in fatto di formazione retorico-novellistica» (p. 23), sebbene assai meno influenti sul piano linguistico – e quelle storiche.

Altro autore su cui si concentrò l’interesse di Petrocchi fu Torquato Tasso, fin dall’edizione critica del Mondo creato (Firenze 1951), fondata sul ms. 42 della Biblioteca Palatina di Parma, apografo con correzioni e aggiunte del poeta, considerato il testimone più autorevole (importante novità rispetto all’edizione curata da Angelo Solerti, cui accenna appena Benedetto Croce nella sua breve recensione (Il Mondo creato di Torquato Tasso, in Id., Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, III, Bari 1952, pp. 257-259).

Sebbene, come ha osservato il più recente editore del testo, Paolo Luparia, la ricostruzione dei rapporti fra i manoscritti non sia del tutto soddisfacente (secondo Petrocchi, ma in assenza di adeguata dimostrazione, dall’autografo perduto discenderebbero direttamente e in modo indipendente l’uno dall’altro, oltre al ms. palatino, altri due codici, conservati a Torino, da considerare apografi seriori), nell’ampia introduzione, poi raccolta in I fantasmi di Tancredi. Saggi sul Tasso e sul Rinascimento (Caltanissetta-Roma 1972) con il titolo L’ultimo Tasso e il Mondo creato, emerge soprattutto il tentativo di rivalutare il poema, inserendolo non solo nella storia della poesia tassiana, ma anche nelle vicende culturali dell’ultimo Cinquecento, segnatamente nella storia delle poetiche di cui Tasso fu «acuto generalizzatore», e di riesaminare la lingua e lo stile del testo in rapporto sia alle sue fonti religiose (s. Ambrogio, s. Basilio e altri esponenti della patristica), considerate in modo unitario, sia a quelle filosofiche, platoniche e aristoteliche, che sarebbero gli strumenti concettuali di tutta la sua vita.

Nel 1954 Petrocchi identificò nel ms. XIII.C.28 della Biblioteca nazionale di Napoli un codice ignorato della Gerusalemme Liberata di cui diede poi conto negli articoli Un nuovo manoscritto della Liberata (in Studi Tassiani, IV (1954), 4, pp. 23-36), e In margine al testo della Liberata (in Lettere italiane, XVII (1965), 1, pp. 58-66), quindi in I fantasmi di Tancredi, senza però collocarlo in uno stemma. Il codice in seguito «si è rivelato fondamentale per fissare il testo critico dell’ultimo stadio redazionale» (L. Poma, La ‘quaestio philologica’ della Liberata, in Id., Studi sul testo della Gerusalemme Liberata, Bologna 2005, p. 172), essendo uno dei due testimoni su cui si basa la redazione gamma del poema.

L’interesse per la novellistica aveva spinto Petrocchi a occuparsi di Masuccio Salernitano, con due contributi (Per l’edizione critica del Novellino di Masuccio, in Studi di filologia italiana, X (1952), pp. 37-82; La prima redazione del Novellino di Masuccio, in Giornale storico della letteratura italiana, CXXIX (1952), pp. 266-317), preliminari all’edizione critica de Il Novellino: con appendice di prosatori napoletani del ’400 (Firenze 1957), fondata sull’incunabolo milanese (1483), che non andò esente da critiche sia per alcune sviste sia per una tendenza generale a meridionalizzare la lingua, e che seguiva il volume Masuccio Guardati e la narrativa napoletana del Quattrocento (Firenze 1953), nel quale la raccolta di novelle veniva considerata in maniera articolata all’interno della tradizione napoletana e della crisi linguistica del Quattrocento.

Nel 1957 la Società dantesca italiana, sotto la presidenza di Contini, gli affidò il compito arduo di allestire l’edizione critica della Commedia (La Commedia secondo l’antica vulgata, I-IV, Milano 1966-67; un quinto volume, che doveva pubblicare le varianti della tradizione più tarda, non uscì mai). Nell’ampia introduzione che occupa l’intero primo volume espose i criteri dell’edizione, riassumendo e affinando le proposte ecdotiche dei lavori precedenti: individuò i manoscritti dell’antica vulgata (a suo avviso, ventisette, di cui tre frammentari), classificò i testi sulla base di un rigoroso scrutinio delle varianti nella convinzione che non vi fossero varianti d’autore (cfr. I. Introduzione, p. 113), illustrò infine le scelte linguistiche, concludendo con il regesto dei codici.

Il problema della lingua è particolarmente spinoso nell’impossibilità di trovare un codice che tramandi la veste linguistica all’altezza cronologica del supposto archetipo. Petrocchi scelse il Trivulziano, «di salda base linguistica fiorentina» (p. 414), cui accordò «una fiducia sempre ‘critica’ e ragguagliata al vario comportamento degli altri testi» (p. 416), fiducia oggi non da tutti condivisa.

Al suo attivo l’ancor giovane studioso aveva due lavori che già delineavano il percorso da seguire come editore: Proposte per un testo base della Divina Commedia (in Filologia romanza, II (1955), pp. 337-369), e L’antica tradizione manoscritta della Commedia (in Studi danteschi, XXXIV (1957), pp. 7-126), poi confluiti in Itinerari danteschi (Bari 1969). Come scriveva lucidamente nel primo dei due saggi citati, «un testo-base è anzitutto edizione criticamente condotta […] su un piccolo numero di codici, ma non […] scelti a priori […]: tale […] da costituire il testo più vicino possibile a quello che sarà dell’edizione critica […]. L’opzione dei manoscritti […] non può scaturire che dalla loro anzianità» (Proposte per un testo base…, poi in Itinerari danteschi, 2ª ed. accr., Milano 1994, p. 111). Tale affermazione si contrapponeva al noto criterio di Pasquali, recentiores non deteriores. Nella fattispecie della Commedia, affermava Petrocchi, valeva piuttosto il contrario: i manoscritti meno corrotti sono i più antichi, che, pur segnati da errori comuni a tutta la tradizione, non sono così contaminati come quelli più tardi.

Il progetto di Petrocchi, preliminare a una futura edizione critica del poema, si articolava in tre punti: «1) stabilire che il processo di corruttela è avvenuto verticalmente e trasversalmente, in modo così profondo da rendere impossibile qualsiasi rigorosa classificazione dei testi a penna […] 2) determinare l’entità dei codici più antichi in modo sicuro […] 3) confrontare, per perfezionare il punto n. 1, una parte piuttosto ampia della Commedia e una serie numerosa di loci critici, quali si presentano nei codici più antichi e quali nei codici più recenti, riuscendo a dimostrare in modo perentorio l’onnipresente superiorità dei testi seniori» (ibid., p. 112).

In un terzo importante contributo, Radiografia del Landiano (in Studi danteschi, XXXV (1958), pp. 5-27), dopo avere sottoposto il ms. Landi 190 della Biblioteca Passerini Landi di Piacenza, il più antico datato (1336), a una lampada al quarzo per recuperare le lezioni sotto rasura, Petrocchi dimostrava che il codice era stato trascritto a Genova per mano di un copista marchigiano, Antonio da Fermo, su richiesta del podestà pavese della città, Beccario de Beccaria.

Petrocchi forniva prove inconfutabili che la revisione non fosse opera del copista, ma di altra mano, la quale, un ventennio dopo la redazione originaria l’aveva ricorretto, forse a Pavia, sopra un esemplare toscano. Le varianti abrase e quelle riscritte documentano che la revisione del Landiano si compie entro l’antica vulgata, prima dell’edizione di Boccaccio. Petrocchi collocò il codice nella tradizione del testo diversamente rispetto all’ipotesi di Mario Casella (per cui v. Studi danteschi, VIII (1924), pp. 5-85), secondo cui il ms. era «un rappresentante anziano di quel gruppo del Cento che è invece d’officina fiorentina, scaturisce dall’opera scrittoria di Francesco di Ser Nardo, e nulla ha a che fare con la tradizione espressa dal codice [Landiano]» (G. Petrocchi, La tradizione emiliano-romagnola del testo della «Commedia», in Itinerari danteschi, 2ª ed. accr., cit., p. 154).

Se i criteri generali erano già chiari, in concreto Petrocchi distinse tra le varianti «di errore lato, ben adeguate ad offrire una documentazione sicura circa il costituirsi di sezioni di codici, e quelle d’errore meramente trascrittorio» (Introduzione, cit., p. 164), di per sé non dirimenti. Anche se la distinzione tra errori significativi e lezioni poligenetiche non risulta sempre certa e chiara, egli riuscì a confutare la bipartizione della tradizione del testo nelle due famiglie, proposta da Casella nella sua edizione critica (Bologna 1923).

Secondo Casella infatti, si ha: α, rappresentata dal Trivulziano 1080, dalla cosiddetta Aldina Martini, l’esemplare dell’edizione del Manuzio (1515) postillato dal letterato fiorentino Luca Martini che trascrisse nel 1548 le lezioni di uno dei più antichi codici della Commedia, ora perduto, esemplato fra il 1330 e il 1331 da un Forese forse dei Donati, e dal Laurenziano S. Croce XXVI sin. 1, trascritto da Filippo Villani; β, costituita dal resto della tradizione.

La tradizione anteriore al Boccaccio, risultava, secondo Petrocchi, bipartita sulla scorta di un elenco di varianti separative: un primo ramo, toscano, discendente dal subarchetipo α, e un secondo, settentrionale, dal subarchetipo β. Da α, molto più consistente, si diramano tre famiglie (a, b, c), mentre da β, meno ingente, soltanto due (d, e). In posizione intermedia, dipendente da β, attraverso d, e da α, attraverso c1 e c, dove c1 indica il «suo ascendente del ramo α, testimone di pochi anni precedente il 1336» (p. 346), era collocato il codice Landiano, che condivideva, secondo i raffronti di Petrocchi, lezioni sia della tradizione fiorentina, sia di quella padana, come sarebbe dimostrato dalle numerose coincidenze con il testimone più autorevole di β, il ms. Urbinate lat. 366 della Vaticana. Riguardo alla presunta parentela del ms. Landiano con il gruppo del Cento, sostenuta da Casella, ribadiva il suo dissenso ricorrendo agli argomenti già esposti nel sopracitato studio sul codice (Introduzione, cit., p. 309), senza però riuscire a definire in modo del tutto convincente la sua posizione che «nell’albero è tra le più difficili» (p. 340). Cadeva dunque non solo la bipartizione proposta da Casella, ma anche la tesi di un archetipo, dal momento che α e β risalgono, a suo giudizio, in modo indipendente alla copia del poema divulgatasi subito dopo la morte del poeta, il cui testo, nella gran parte dei casi, è dato dall’accordo dei Trivulziano e Aldina Martini con l’Urbinate lat. 366.

Riassumendo in estrema sintesi, la tradizione fiorentina si poteva suddividere in cinque fasi: 1. Testo vulgato tra il 1322 e il 1330, a noi noto attraverso la lezione dei più tardi Trivulziano e Aldina Martini; 2. Testo vulgato tra il 1330 e il 1340, conoscibile anzitutto grazie al manoscritto Cortonese (ms. 88) e a quello già nella Biblioteca dei marchesi Venturi Ginori Lisci, ora a Ravenna, Centro dantesco dei frati minori conventuali (ms. C.5), esemplato a Firenze nel 1338 circa e contenente solo il Paradiso; 3. Testo vulgato tra il 1340 e poco oltre il 1350, attestato da vari codici fra cui il Gaddiano 90 sup. 125., mutilo, della Biblioteca Laurenziana di Firenze, del 1347, almeno per la seconda parte, di mano di Francesco di Ser Nardo; 4. Testo vulgato intorno al 1350 e oltre, cioè il gruppo del Cento; 5. Testo vulgato dal Boccaccio con i suoi tre codici: Toledo, Biblioteca del Cabildo, ms. 104.6; Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1035; Biblioteca apostolica Vaticana, L.VI.213 (p. 318). Quanto all’altro ramo della tradizione, oltre al Landiano in posizione preminente, Petrocchi annoverava altri tre codici, dipendenti tutti da e, fra i quali eccelleva l’Urbinate, «manoscritto di rara resistenza all’errore e, ciò che più interessa, alla contaminazione» (p. 368).

Proprio la parte del lavoro relativa ai piani alti dello stemma codicum è stata sottoposta a maggiori revisioni nel quasi mezzo secolo trascorso, anche alla luce dei lavori codicologico-paleografici recenti di Marisa Boschi Rotiroti, e di Gabriella Pomaro. L’edizione di Federico Sanguineti (Firenze 2001), pur confermando la bipartizione dello stemma, ha ridotto radicalmente il numero dei mss. fondamentali (soltanto sette, tra cui il Laurenziano S. Croce XXVI sin. 1, escluso da Petrocchi), riproponendo la tesi dell’esistenza di un archetipo.

Nel 1970 Petrocchi divenne redattore capo dell’Enciclopedia Dantesca diretta da Umberto Bosco, per la quale compilò diverse voci. Completano l’opera del dantista gli agili profili delle tre cantiche (Milano 1978) e la raccolta di saggi La selva del Protonotario (Napoli 1988), divisa in due parti, una dedicata a Dante, l’altra alla dantologia moderna; infine la relazione tenuta nel 1988 per il centenario della Società dantesca italiana, La tradizione settentrionale della Commedia dall’età del Boccaccio a quella del Villani (apparsa postuma nel 1994 in Itinerari danteschi, pp. 171-219, prim’ancora che negli atti: La Società dantesca italiana 1888-1988, Atti del convegno internazionale, Firenze… 1988, a cura di R. Abardo, Milano-Napoli 1995), in cui si esamina in modo analitico il codice Phillips 8881, ora ad Austin (Texas), e l’Oliveriano 38 di Pesaro, entrambi di poco posteriori al limite dell’antica vulgata, fissato all’altezza del manoscritto Toledano di Boccaccio, databile non prima del 1357-1359.

Gli altri grandi autori dell’Ottocento che attirarono l’insistito interesse di Petrocchi furono Ugo Foscolo e Alessandro Manzoni. Al primo dedicò vari articoli e saggi, fra i quali Sulla genesi dei Sepolcri e Foscolo traduttore di Saffo. Soprattutto curò l’edizione critica degli Studi su Dante, parte seconda, Commedia di Dante Alighieri, nono volume dell’Edizione nazionale delle Opere (Firenze 1981). Del secondo si occupò a più riprese con vari saggi e articoli, poi riuniti in Manzoni. Letteratura e vita (Milano 1971), in Lezioni di critica romantica (Milano 1975) e nella prima sezione di Manzoniana e altre cose dell’ottocento (Caltanissetta-Roma 1987). Completano il profilo dell’italianista La formazione letteraria di Giovanni Pascoli (Firenze 1953), che insisteva sulla dimensione non esclusivamente provinciale del poeta, e il sintetico profilo Giovanni Pascoli (Torino 1962); gli studi francescani e di letteratura religiosa: oltre naturalmente ai Fioretti di san Francesco (Alpignano 1972), i volumi Scrittori religiosi del Duecento e Scrittori religiosi del Trecento (entrambi Firenze 1974); Segnali e messaggi (Milano 1981), raccolta di articoli apparsi su vari quotidiani; nonché la cura di Francesco d’Assisi, Gli scritti e la leggenda (Milano 1983).

Petrocchi morì a Roma il 7 febbraio 1989.

Fonti e Bibl.: Presso l’Archivio centrale dello Stato in Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, Dir. generale, Istr. sup., manca il fascicolo personale. Una bibliografia completa degli scritti si trova in appendice a G. Petrocchi, Saggi sul Rinascimento italiano, Firenze 1990, pp. 143-203.

Su P. si vedano almeno: d’A.S. Avalle, recensione alla Commedia, in Strumenti critici, I (1967), 1, pp. 199-202; Studi latini e italiani, 1989, n. 3; Critica letteraria, XVIII (1990), 66-67, n. monografico: Per G. P.; Letteratura italiana contemporanea, XI (1990), 29, n. monografico: In memoria di G. P.; C. Ciociola, Dante, in Storia della letteratura italiana, X, La tradizione dei testi, Roma 2001, pp. 137-199; G. Inglese, Per il testo della Commedia di Dante, in La Cultura, n.s., XL (2002), pp. 483-505; C. Segre, Postilla all’edizione Sanguineti della «Commedia» di Dante, in Strumenti critici, n.s., XVII (2002), pp. 312-314; M. Veglia, Sul testo della Commedia (da Casella a Sanguineti), in Studi e problemi di critica testuale, LXVI (2003), pp. 65-119; G. Inglese, Per lo ‘stemma’ della Commedia dantesca. Tentativo di statistica degli errori significativi, in Filologia italiana, IV (2007), pp. 52-72; L. Serianni, Sul colorito linguistico della Commedia, in Letteratura italiana antica, VIII (2007), pp. 141-150; P. Trovato, Fuori dall’antica vulgata, in Nuove prospettive sulla tradizione della Commedia, Firenze 2007, pp. 669-715; Id., Un problema editoriale: il colorito linguistico della Commedia, in Atti del VII convegno ASLI, Pisa-Firenze… 2008, Firenze 2010, pp. 73-96; A. Canova, Il testo della Commedia dopo l’edizione P., in Testo, XXIII (2011), pp. 65-78 (poi in Nuove prospettive sulla tradizione della Commedia. Seconda serie (2008-2013), a cura di E. Tonello - P. Trovato, Padova 2013, pp. 29-45); G.A. Camerino, Manzoni e altre questioni romantiche. In memoria di G. P., in Il ‘metodo’ di Goldoni e altre esegesi tra Lumi e Romanticismo, Galatina 2012, pp. 117-127.

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