PIATTI, Giovanni Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 83 (2015)

PIATTI, Giovanni Antonio

Vito Zani

PIATTI, Giovanni Antonio. – Nacque a Milano nel 1447 o nel 1448, come si evince dall’atto di morte, stilato nella città natale il 26 febbraio 1480, in cui lo scultore è detto trentaduenne (Morscheck, 2008, p. 154).

Al 1473 risale la prima menzione conosciuta del padre Simone, a questa data già defunto (Giovanni Antonio..., 1989, pp. 99 s.) non sono noti altri congiunti, né è accertata una parentela, per quanto non da escludere, con la nobile famiglia milanese dei Piatti.

Mancano notizie sulla formazione dell’artista, e non si è certi se le attestazioni (1464) relative a un «Antonius de Platis lapicida» presenti nei registri del duomo di Milano siano riferibili all’artista: il 13 luglio per aver tagliato e acquistato una pietra insieme a Martino Benzoni (Giani, 2010-2011, p. 169), e il 17 settembre per il saldo di un debito (Milano, Archivio della Veneranda Fabbrica del duomo, reg. 254, c.109r [documento rinvenuto da Grazioso Sironi]).

Tutte le menzioni certe di Giovanni Antonio Piatti riportano infatti il doppio nome, talora non accompagnato dal cognome, secondo l’uso confermato dall’ampia documentazione dell’omonimo e coetaneo collega Giovanni Antonio Amadeo, con la sola eccezione dell’incompleto promemoria in volgare di patti del 7 maggio 1477, in cui il citato «Antonio Piato» è identificato nell’originale atto notarile in latino col nome «Johannis Antonii Plati» (Archivio di Stato di Milano [ASMi], Notarile, 1277, carte non numerate [documento rinvenuto da Grazioso Sironi]).

La prima testimonianza sicura riferibile con certezza a Giovanni Antonio Piatti è del 16 maggio 1468 (Rossetti, 2013, pp. 186 s.): in una convenzione privata per lavori edilizi e di installazione di parti lapidee (colonne, cornici, due tabernacoli e due parapetti) nella chiesa di S. Gerolamo dei Gesuati a Milano, disposti dal priore Nicolò da Bologna, cui si impegnavano i maestri Jacopo da Bellinzona e due omonimi Pietro da Nesso, risultano presenti in qualità di testimoni, «magistro Lionardo spezza pietra» e «magistro Giovannantonio Piatto spezza pietra», il quale ultimo controfirmava «a preghiera de’ sopradeti maestri». Sullo stesso foglio, in data 11 giugno, segue un capitolato di lavori nel chiostro (tra cui «le sepolture nella forma che abiamo mostrato»), allogati «alli sopradetti maestri». Può darsi che Piatti fungesse in tali circostanze anche da supervisore alla messa in opera di sculture da lui eseguite, forse già disperse a fine Cinquecento con la riedificazione della sede milanese dei Gesuati, demolita a inizio Novecento.

Lo scultore compare poi come parte in causa nell’atto stipulato il 28 gennaio 1469 come scrittura privata tra il conte Giovanni Borromeo e i maestri «Iohanne Antonio da Mediolano et Petropaulo da Lugano sculptori» (Buganza, 2008, pp. 46 s.), per il completamento del Monumento funebre di Giovanni e Vitaliano Borromeo, già in S. Francesco Grande a Milano e ora nella cappella del palazzo Borromeo all’Isola Bella (Tanzi, 1997).

Iniziato nel 1445 da Filippo Solari e Andrea da Carona, che vi operarono per una decina d’anni (Gentilini, 1997), il complesso scultoreo era ancora privo del fastigio, degli otto riquadri istoriati sul sarcofago e di alcune statuette. Secondo i patti del 1469, i maestri Giovanni Antonio e Pietro Paolo avrebbero dovuto eseguire per prima cosa due riquadri da sottoporre come saggio a «persone intendenti» (Buganza, 2008, p. 46), dopodiché si sarebbe deciso se farli proseguire nell’impresa, cui avrebbero dovuto dedicarsi dagli inizi del 1470, per un compenso mensile di sei ducati ciascuno, con la facoltà di assumere due garzoni. I lavori ebbero inizio però alcuni anni più tardi e senza il socio luganese, come attestano i pagamenti conferiti dal 13 giugno 1475 al solo Piatti e ad alcuni collaboratori in subordine, tra cui Benedetto Briosco (qui al suo esordio documentario nel 1477), Francesco Cazzaniga, Martino e Protasio Benzoni, e i due forestieri Carlo Carlotto di Bologna e Paolo da Prato. Le spese per l’impresa si protrassero fino al 18 marzo 1478, con l’installazione del monumento in chiesa, cui seguì qualche lavoro supplementare, pagato nel febbraio e nel marzo dell’anno seguente.

In quegli anni Piatti fu coinvolto anche nelle due principali commissioni scultoree del Ducato di Milano, entrambe patrocinate dalla corte sforzesca: la decorazione della facciata della Certosa di Pavia e l’altare di S. Giuseppe nel duomo di Milano.

Il 15 settembre 1473 Piatti aveva stretto un patto societario con Amadeo, Dolcebuono, Lazzaro Palazzi e Angelino da Lecco, con il quale i cinque scultori s’impegnavano a condividere i lavori, i profitti e gli oneri di ogni commessa ricevuta anche separatamente da ciascuno nel Ducato; unica nominata nel testo, in particolare, quella della facciata della Certosa di Pavia, allora in via di assegnazione (Giovanni Antonio..., 1989, pp. 99 s.). L’appalto, affidato tre settimane dopo ai fratelli Cristoforo e Antonio Mantegazza, venne annullato dopo meno di un anno e suddiviso in due metà, una assegnata ad Amadeo e l’altra ai Mantegazza (Zani, 2006). Che la società Amadeo-Piatti fosse stata attiva nell’impresa, durata fino al 1478, pare provato dagli acquisti di marmo per la Certosa registrati presso la Fabbrica del duomo di Milano a nome di Piatti (aprile e maggio 1475), Dolcebuono e Amadeo (marzo, aprile e settembre 1476; Shell, 1993, pp. 194 s., 208 s.); secondo Morscheck (2014, pp. 58 s.), la società non sarebbe mai stata operativa). Tracce significative del loro intervento nel cantiere risultano difficilmente accertabili nella facciata, rimaneggiata più volte, mentre sembrano ravvisabili, ad esempio, in alcuni rilievi di una serie con Santi entro nicchie, ora nell’annesso museo (Zani, 2015, p. 298), in altri reimpiegati nei due portali del Chiostro Grande e nella gran parte delle sculture del portale della Sacrestia del Lavabo (Zani, 2013, p. 50). Si aggiunge poi una serie di rilievi con Virtù, di probabile provenienza dalla Certosa pavese, uno dei quali conservato al Museo d’arte antica del Castello Sforzesco di Milano (ibid., pp. 53-56), e gli altri reimpiegati nella tomba di Ludovico II a Saluzzo (Caldera, 2005).

Per l’altare di S. Giuseppe nel duomo di Milano (Giani, 2010-2011), realizzato da diversi scultori a più riprese dal 1472 al 1499, Piatti consegnò alcune opere nel luglio e nel novembre del 1474 (tra cui sei statue di soggetto non precisato), e nel 1479 la Fabbrica del duomo gli affidò dei marmi da lavorare (Morscheck, 2008, p. 153).

L’imponente complesso scultoreo, in cui diverse statue di circa un metro inscenavano l’Adorazione del Bambino, venne smembrato nel 1596 e nessuno dei pochi marmi di cui è stata ipotizzata tale provenienza risulta attribuibile a Piatti. L’impresa vide coinvolti anche Amadeo, Dolcebuono e Palazzi, soci di Piatti in seguito agli accordi del 1473, riformulati nel 1476 con validità estesa alle commissioni ricevute al di fuori del ducato sforzesco (Giovanni Antonio..., 1989, pp. 106 s.).

Al 7 maggio 1477 risale una convenzione rintracciata da Grazioso Sironi presso l’Archivio di Stato di Milano, in cui i maestri Cristoforo Luvoni e Giovanni Cavalli si impegnavano insieme a Francesco Borromeo, abate del monastero dei Ss. Gratiniano e Felino ad Arona, a fornire materiali lapidei e a eseguire lavori edilizi e scultorei per l’annessa chiesa, «secundum declarationem venerabilis d. fratris Nicholai [de Bononia] prioris monasterii ordinis Jesuatorum M. et magistri Johannis Antonii Plati», i quali agivano presumibilmente in veste di garanti, mentre Piatti forse anche di supervisore, analogamente a quanto avvenuto nove anni prima per la chiesa milanese dei Gesuati, dove lo stesso frate Nicolò compariva al fianco dell’artista (ASMi, Notarile, 1277, carte non numerate).

Verso la fine del decennio Piatti dovette intensificare l’attività al duomo milanese, in concomitanza con la chiusura dei lavori per il monumento Borromeo e per la Certosa di Pavia. Nel maggio del 1478 gli venne assegnato un laboratorio nell’officina scultorea del cantiere (allora accampata alle spalle del duomo), e a dicembre gli fu pagata la statua di S. Giovanni Evangelista, individuata in quella posizionata sul tiburio della cattedrale, accanto ad altre a lui riconducibili (Stoppa, 1997).

Allo stesso anno risale il grande rilievo firmato e datato, oggi alla Pinacoteca Ambrosiana, raffigurante Platone (Zani, 2009, con bibl. precedente), affiancato da iscrizioni che lo indicano come progenitore dell’artista, secondo l’uso umanistico dell’accreditamento fantasioso di origini nobili nel mondo antico.

Il rilievo in passato era posto sul fronte di casa Piatti a Milano, ma non si può escludere che fosse stato realizzato dall’artista per sé, unico Piatti citato nelle iscrizioni (per una trascrizione integrale di quest’ultima si confronti Zani, 2009, p. 170).

Nel 1478 lo scultore inaugurava a Cremona un nuovo versante operativo, con la commissione di un pontile colonnato e voltato per il coro della cattedrale, concordando un compenso di 1440 lire. Dell’opera, smantellata dopo due anni, si è ipotizzato un frammento in un rilievo del Louvre con Tre Virtù (Cara, 2009, pp. 160-162).

Il 15 marzo 1479 Piatti ricevette la commissione dell’Arca dei martiri persiani per la chiesa di S. Lorenzo a Cremona, affidatagli da Antonio Meli, abate dell’annesso insediamento benedettino (Bonetti, 1913; Tanzi, 1991). Il contratto prevedeva un apparato in marmo di Carrara, con una cassa sostenuta da colonne, circondata da otto rilievi istoriati e da un numero imprecisato di statuette, «iuxta disegnum datum per ipsum magistrum Johan. Ant.» (Bonetti, 1913, p. 390). «Prope terram» era previsto il sepolcro del committente, con il suo ritratto a piena figura, una lapide e delle insegne iscritte. La consegna era fissata entro due anni e il compenso in 400 ducati, da liquidare in quattro rate da 100 ducati ciascuna: la prima alla stipula dell’atto, la seconda all’arrivo dei marmi grezzi a Cremona, la terza alla posa in opera dell’arca, e l’ultima nell’agosto del 1481. Nel testo l’artista è detto residente a Milano, ma «ad presens moram trahens in civitate Cremone», evidentemente nella prospettiva di condurre i lavori scultorei. Un mese dopo la stipula, due nobili cremonesi offrirono garanzia a favore dell’artista, onde permettergli la riscossione dei primi 100 ducati, avvenuta il 17 aprile, in un computo di 40 ducati e 40 moggia di frumento. Il seguente 12 giugno, anche Bartolomeo e Gabriele Meli, fratelli del committente Antonio (che morì dopo due mesi), si costituivano garanti nei confronti di quest’ultimo per i pagamenti a venire (Bonetti, 1913, pp. 392-397).

Lo svolgimento dell’impresa fu impedito dalla morte di Piatti, nel febbraio 1480, prima che i marmi per l’arca giungessero a Cremona, dove non risulta che egli abbia mai dimorato (la sua residenza è sempre registrata a Milano, nelle parrocchie di S. Stefano o di S. Babila).

Gli eredi Meli affidarono il proseguimento dei lavori all’Amadeo il 18 agosto 1480 (Giovanni Antonio..., 1989, pp. 121 s.), con un contratto ove si riferiva che Piatti avesse riscosso 110 ducati, e che Amadeo, accettando come compenso il rimanente, avesse condotto a Cremona «partem dicte arche»: evidentemente la parte dei marmi, non si sa se lavorati o meno, predisposti da Piatti. La superstite documentazione seguente si riduce alla liquidazione di Amadeo, consistente in un credito residuo di 300 lire, saldato in tre rate tra l’ottobre e il dicembre 1482. L’ultima di queste registrazioni, del 10 dicembre, riferisce che l’arca era compiuta e già assemblata in chiesa.

Il monumento venne smembrato nel tardo Ottocento e le sue parti variamente disperse. Il nucleo preponderante dei resti – cioè il ciclo degli otto rilievi con Storie dei martiri Marta, Mario, Audiface e Abacone, alcune membrature architettoniche e decorative, oltre alle due targhette originali con la data 1482 e la firma di Amadeo – è allestito nella navata del duomo di Cremona, entro i due pulpiti realizzati tra il 1813 e il 1817 su progetto di Luigi Voghera. Mentre non risulta traccia del ritratto funebre del committente, altri pezzi sono approdati in vari musei: quattro statuette di Angeli e un tondo a rilievo con l’Adorazione nel Museo del Castello Sforzesco di Milano; un analogo tondo con l’Annunciazione al Louvre; due statuette dei Ss. Lorenzo e Benedetto al Ringling Museum of art di Sarasota; una statuetta della Madonna col Bambino, la cosiddetta Madonna Foulc, presso il John and Mable Ringling Museum of art di Philadelphia (Tanzi, 1991; Id., 2003; Cara, 2009, pp. 163-165).

Al duomo di Cremona era poi destinato un pulpito (‘poziolo’) disegnato da Piatti, che aveva ricevuto un acconto di 15 ducati per la sua realizzazione, come risulta dal contratto milanese del 7 agosto 1479 tra l’artista e i lapicidi Simone Briosco e Gabriele da Rho, che si impegnavano a eseguire l’opera in subappalto. L’accordo fu però annullato dopo un mese, in presenza di Martino Benzoni come testimone, e non risultano ulteriori notizie sull’impresa, forse non eseguita (Shell, 1993, p. 205).

Tale atto di rescissione è anche l’ultimo atto noto su Piatti prima che, il 26 febbraio 1480, ne venisse registrata la morte «ex pleuresi» presso l’anagrafe milanese (Morscheck, 2008, p. 154).

Celebrato a stampa come pari o superiore agli scultori dell’antichità dall’umanista milanese e suo possibile parente Piattino Piatti (1502), l’artista non ha trovato per secoli la fama auspicata, e il suo nome si è trasmesso fino a quasi tutto l’Ottocento solo grazie al Platone firmato dell’Ambrosiana, il cui carattere eminentemente araldico ne giustifica il debole spessore figurativo.

Solo tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo la ricerca archivistica ha aperto i primi spiragli sulla prestigiosa carriera di Piatti, sebbene soltanto attraverso testimonianze di statue non identificate, come quelle per il duomo di Milano (Annali..., 1877; una di esse poi riconosciuta da Stoppa, 1997), oppure di complessi scultorei che videro variamente coinvolti più maestri, come il Monumento Borromeo (Sant’Ambrogio, 1897) o l’Arca dei martiri persiani (Bonetti, 1913).

Ancorata al Platone, l’immagine critica di Piatti è rimasta quella di un maestro di poco conto, variamente reputato debitore di Amadeo o dei Mantegazza. Solo a partire dalla fine Novecento è stata intrapresa da Marco Tanzi (1991; 1993; 1997; 2000, pp. 162-168; 2003) una radicale rilettura dell’artista, che ha posto in primo piano l’autorevolezza documentabile del suo profilo rispetto alla preminente immagine diminutiva del Platone. Tale svolta scaturiva dall’accertamento da parte dello studioso dell’originaria appartenenza all’Arca dei martiri persiani di tre statuette, tra cui la Madonna Foulc, ritenuta da tempo opera dei Mantegazza, e che Tanzi ha ricondotto a Piatti come testo emblematico dello stile dell’artista, al quale ha attribuito una certa quantità di opere erratiche e l’intera Arca dei martiri persiani (Tanzi, 1991; 2000; 2012). Secondo la ricostruzione dello studioso, Piatti si rese protagonista di primo piano nel contesto scultoreo lombardo degli anni Settanta del Quattrocento, importando stilemi e influssi espressivi dalla coeva pittura ferrarese, che la tradizione critica ritiene invece introdotti da Antonio Mantegazza.

Una diversa linea di lettura (Zani, 2009; Id., 2014) riconosce nel ciclo dei rilievi Borromeo il capo d’opera per definire lo stile di Piatti e il suo apporto ai profondi rivolgimenti dello scenario in cui agì. L’originalità e l’inedita costruzione razionale dello spazio di tali rilievi segnerebbero la prima compiuta adozione della finestra albertiana nella scultura narrativa lombarda, in parallelo con i primi tentativi di adeguamento prospettico di Amadeo, e in contrasto con l’espressionismo irrazionale e antiprospettico esemplato allora da alcuni rilievi con Storie veterostestamentarie della Certosa di Pavia, tradizionalmente attribuiti ad Antonio Mantegazza. Nei rilievi Borromeo si ravvisano inoltre caratteri dissimili da quelli dell’Arca dei martiri persiani e di quasi tutte le altre opere radunate intorno alla Madonna Foulc, la cui provenienza cremonese era stata già ipotizzata su base stilistica da Seidel (1991, p. 71), che l’attribuiva ad Amadeo.

Resta l’incognita di quanto abbia inciso nella produzione di entrambi gli scultori il patto societario stretto nel 1473 e riconfermato nel 1476, che lasciò fuori le opere commissionate prima, come il Monumento Colleoni per Amadeo e il Monumento Borromeo per Piatti. Presumibilmente riconducibile alla loro società è il rilevo funebre di Fancesco Maironi detto l’Illuminato in S. Francesco a Piacenza, datato 1477 (Zani, 2014, p. 75 nota 30), mentre nella tomba in S. Ambrogio a Milano dell’umanista Pier Candido Decembrio (morto nel 1477) sono stati ravvisati riscontri con i rilievi Borromeo (Rovetta, 1993). Allo scultore sono state poi riferite le figure di un Santo nel Museo del Castello Sforzesco di Milano (Il Rinascimento..., 2010, p. 28; poi ricondotto ad Amedeo, cfr. Zani, 2013, pp. 32-34); un S. Sebastiano del Museo del duomo della stessa città (Fiorio, 2011); una statuetta di Santo della collezione Borromeo all’Isola Bella, che è stata presentata come probabile pezzo originario del monumento funebre di Giovanni e Vitaliano Borromeo (Zani, 2015, pp. 296 s.).

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